3 - La guerra contro Pirro e la conquista dell’Italia meridionale

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 17 – La conquista dell’Italia

3. La guerra contro Pirro e la conquista dell’Italia meridionale

Le mire espansionistiche di Roma si rivolsero dunque verso le uniche grandi città indipendenti dal suo dominio: le ricche e potenti Taranto (fondata dagli Spartani) e Siracusa (fondata dai Corinzi).
Con la principale antagonista, Taranto, che dominava il golfo dello Ionio, Roma era giunta nel 302 a.C. a un patto di spartizione delle aree di influenza, secondo il quale non avrebbe dovuto superare con le proprie navi capo Lacinio (l’attuale capo Colonna), vicino a Crotone. Ma non tutte le città coinvolte erano d’accordo: Turi, spinta da famiglie aristocratiche filoromane in lotta contro i democratici filotarantini, chiese la “protezione” di Roma contro le tribù lucane che devastavano i suoi territori. L’intervento romano fu visto come una violazione dell’accordo, e l’apparizione nel golfo di Taranto, nel 282 a.C., di una piccola flotta romana – allestita per la prima volta nella sua storia proprio in questa occasione – fu interpretata come una vera provocazione.
Fu la scintilla che diede avvio al conflitto. Taranto attaccò la flotta e marciò contro Turi, conquistandola e scacciando la guarnigione romana. Contestualmente chiese aiuto a Pirro, re dell’Epiro (regione occidentale della Grecia), il quale, reduce da un fallito tentativo di impadronirsi del regno di Macedonia, intervenne nel conflitto sperando di allargare il suo dominio. La forza militare di Pirro si basava sulla tradizionale falange macedone, cui si affiancava in battaglia l’impiego degli elefanti, utili a scompaginare l’esercito nemico e a trasportare i soldati (che potevano così colpire i nemici dall’alto). Gli elefanti provocarono in effetti lo scompiglio tra i legionari romani, terrorizzati alla vista di quegli animali sconosciuti, e Pirro vinse la battaglia di Eraclea (nell’odierna Basilicata) nel 280 a.C. Approfittando del momento di difficoltà di Roma, le colonie greche, i Sanniti e gli altri popoli dell’Italia meridionale si allearono con Pirro in funzione antiromana. La coalizione sconfisse di nuovo i Romani nella battaglia di Ascoli Satriano (Puglia), nel 279 a.C., ma la vittoria costò gravissime perdite all’esercito greco (tanto che nel linguaggio comune l’espressione “vittoria di Pirro” indica ancora oggi un successo ottenuto a caro prezzo).
Il re epirota, nonostante le vittorie, non riusciva tuttavia a concludere la guerra: egli scoprì in Roma un nemico indomabile, mentre i Tarantini e le altre città greche cominciarono a temerlo come un possibile tiranno e ritirarono il loro appoggio. Poiché il suo potere vacillava ormai anche in patria e tra i suoi soldati cresceva il malcontento per la lunga lontananza da casa e per le alte perdite, con una mossa da abile condottiero, nel 278 a.C. Pirro non si fece sfuggire l’occasione di cambiare i suoi obiettivi, accogliendo la richiesta d’aiuto avanzata da Siracusa, minacciata dai Cartaginesi. Tuttavia, sconfitto anche dalla flotta di Cartagine, nel 276 a.C., dovette fare ritorno sulla penisola, dove riprese la guerra contro Roma con un esercito ormai malridotto. Nel 275 a.C. fu sconfitto a Maleventum (che i Romani da allora rinominarono Benevento) e costretto a tornare in patria.
L’esito dello scontro dimostra che, al di là delle sconfitte e delle perdite umane, la supremazia dei Romani sugli avversari era ormai schiacciante. Dopo che furono sottomesse facilmente le popolazioni che ancora si opponevano all’egemonia romana, nel 270 a.C. anche Taranto si arrese: dall’Appennino tosco-emiliano allo Stretto di Sicilia, tutta la penisola era nelle mani di Roma.
Rispetto ai primi secoli della storia di Roma, lo scenario geopolitico era del tutto cambiato. Gli stessi contemporanei compresero che le conseguenze della vittoria romana andavano oltre quanto era accaduto sul campo di battaglia. Lo storico Timeo di Tauromenio (il primo ad aver scritto una storia del Mediterraneo) in particolare fu molto colpito dalla formidabile crescita di questa “potenza” finora ignorata: Roma, scrisse, avrebbe sostituito i Greci nella lotta contro Cartagine.
Dal canto loro, i Romani compirono un vero e proprio salto di prospettiva: da un lato, pur essendo originariamente terricoli, si affacciarono prepotentemente sul Mediterraneo; dall’altro, assunsero nuove responsabilità verso le terre conquistate, divenendo naturali “protettori” di Campani e Italici.
Da questo momento la lingua degli Italici divenne il latino di Roma. Ma lo scambio, in un certo senso, fu reciproco: il termine Italia, che designava inizialmente un piccolo popolo della Calabria, poi tutta la Calabria e infine la Magna Grecia, cominciò a diffondersi per indicare l’intera penisola, fino alla pianura padana.

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Le macchine da guerra

La forza dell’esercito romano dipendeva in misura consistente anche dall’impiego di macchine da guerra, fondamentali sia in campo aperto sia negli assedi delle città.
Tra queste macchine belliche, le più note sono:

  • l’onagro e la catapulta, con cui si lanciavano massi e altri proiettili a grande distanza;
  • l’ariete, un carro dotato di un palo con punta di metallo per sfondare porte e fortificazioni;
  • la balista, una sorta di enorme balestra che scagliava dardi o pietre;
  • la testuggine, un veicolo dotato di ruote e coperto da scudi, che consentiva ai soldati di avvicinarsi agli obiettivi tenendosi al riparo dalle frecce;
  • infine, le torri mobili con ponte levatoio, che consentivano di superare le mura nemiche.

4. La romanizzazione dell’Italia

Un secolo dopo la caduta di Veio, Roma era dunque radicalmente cambiata: aveva concluso la conquista della penisola, e anche nel Mediterraneo superava ormai le sue principali rivali – Alessandria d’Egitto, Atene, Siracusa, Cartagine – per numero di abitanti, disponibilità di risorse, potenza militare.
È difficile calcolare il numero di abitanti di una città antica, ma per Roma disponiamo di alcuni dati attendibili. Nel 343 a.C., all’inizio delle guerre sannitiche, era grande quanto Capua: 45 000 abitanti su un territorio di 1800 km2 circa; dieci anni dopo, abitanti e territorio erano triplicati. Nel 298 a.C. contava 260 000 abitanti su un’area di 14 000 km2; nel 264 a.C. toccò il picco del III secolo: quasi 300 000 individui sparsi su un territorio di 27 000 km2, cresciuto grazie a guerre, conquiste e incorporazione a più riprese di terre nell’ager publicus. Un risultato stupefacente, soprattutto se si tiene conto delle contemporanee difficoltà interne originate dai conflitti sociali.
Roma però non aveva costruito la sua grandezza soltanto con le armi. Nell’arco di un secolo e mezzo aveva elaborato anche una complessa strategia di crescita su più livelli, comprendenti la ristrutturazione degli organismi interni di governo, il coinvolgimento della plebe e l’assimilazione dei popoli e delle culture con cui era entrata in contatto.

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Urbs e civitas: città e cittadinanza

Un’“arma” formidabile nelle mani di Roma fu la concessione o il diniego della cittadinanza, lo status giuridico di appartenenza alla città, e dunque allo Stato.
Per definire la città, i Romani usavano due termini, che indicavano concetti distinti: urbs e civitas. L’insieme delle strutture edilizie e urbane (case, palazzi, strade e così via) formavano l’urbs, che per antonomasia era Roma, il cui cuore vitale, l’area delimitata dal pomerium (cioè il confine sacro della città), era terra sacra e inviolabile, vietata all’esercito o a individui armati (tanto che i comizi centuriati, ai quali il popolo si recava in armi, si svolgevano nel Campo Marzio, la piana fuori dalle mura dedicata al dio della guerra in cui si riunivano i soldati prima di una spedizione).
Il termine civitas, invece, indicava gli abitanti, cioè l’insieme dei cittadini, i cives. Al concetto di civitas era associato quello di cittadinanza, il complesso dei diritti e delle prerogative riconosciuti dalla legislazione romana ai singoli individui.
Il cittadino romano (civis Romanus) godeva di molti privilegi rispetto agli altri. In primo luogo aveva la facoltà di partecipare alle assemblee politiche e di eleggere le magistrature (diritti politici), ma anche di esercitare il commercio su tutti i territori assoggettati da Roma e di comprare e vendere beni mobili e immobili (diritti civili). Accanto a questi diritti aveva inoltre dei doveri, come il pagamento delle tasse e il servizio militare.
Erano cittadini romani anche gli schiavi liberati che avevano acquisito la condizione giuridica di liberti ed erano diventati clienti dei loro padroni. Possedevano la cittadinanza romana, infine, coloro che non risiedevano in città ma la cui condizione giuridica era equiparabile a quella dei patrizi (come i membri delle aristocrazie delle città italiche alleate). Le donne, anche se di condizione sociale elevata, erano invece stabilmente prive di diritti politici, benché potessero godere dei diritti civili.
Essere cittadini romani era, oltre che l’espressione di vantaggi sociali, un motivo di orgoglio e uno status a cui tutti aspiravano. In seguito alle conquiste territoriali, tuttavia, questa aspirazione cominciò a diventare una questione di difficile soluzione per Roma, che doveva trovare un equilibrio tra la difesa del primato di cittadinanza di patrizi e plebei romani e il coinvolgimento funzionale dei popoli conquistati. A lungo la cittadinanza venne concessa ai soli proprietari terrieri, cioè ai gruppi dirigenti locali affini ai patrizi, anche per garantirsi la fedeltà delle élite delle città conquistate. Verso tutti gli altri prevalse il timore che l’afflusso di nuovi cittadini appartenenti ai ceti emergenti, privi del possesso della terra, potesse alterare gli equilibri sociali. Per questo furono a lungo impediti i matrimoni misti, al fine di limitare la mobilità sociale anche per questa via. Con il tempo, tuttavia, l’estensione della cittadinanza sarebbe diventata una questione cruciale ineludibile.

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L’organizzazione amministrativa della penisola

In conseguenza dell’espansione territoriale si pose anche un problema di riorganizzazione amministrativa. In pochi decenni la conquista della penisola aveva trasformato Roma da città-Stato a capitale di vasti ed eterogenei territori, ognuno dei quali era amministrato secondo criteri e modelli diversi. Si giunse quindi a riorganizzare l’assetto amministrativo dello Stato cercando di rispettare il più possibile le autonomie e le identità locali, anche per prevenire la formazione di coalizioni ostili, e di evitare l’inopportuna esportazione meccanica degli istituti romani di governo. Si decise così una ripartizione delle nuove aree in cinque realtà giuridiche e amministrative.

  • I territori dei cives, cioè dei cittadini romani che godevano di pieni diritti politici e civili, suddivisi nelle tribù territoriali tradizionali.
  • Le colonie, distinte in colonie romane (come Ostia, Anzio e Terracina), controllate direttamente da Roma e i cui abitanti erano cittadini a tutti gli effetti, e in colonie di diritto latino (come Rimini, Senigallia e Benevento), i cui abitanti avevano ampia autonomia amministrativa e godevano dei diritti civili, ma non di quelli politici. Le colonie erano per lo più terre di recente acquisizione, entrate a far parte del patrimonio territoriale dello Stato (l’ager publicus) e assegnate ai veterani dell’esercito. Con la fondazione di nuove colonie si otteneva di alleggerire la pressione demografica e le tensioni sociali interne a Roma, oltre che di garantirsi presidi fissi contro eventuali ribellioni locali. Si favoriva altresì la romanizzazione del territorio, cioè la diffusione della cultura, dei costumi e delle tradizioni romane.
  • I territori degli alleati (i socii), cioè i popoli e le città che avevano stipulato, dopo la sconfitta, un’alleanza con Roma (per esempio i Sanniti e i vari centri urbani della Magna Grecia). Laddove era stato concluso un accordo paritario, questi territori godevano di ampia autonomia locale e non erano sottoposti all’obbligo di versare tributi, pur dovendo fornire soldati all’esercito romano in caso di guerra. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i trattati erano del tutto a vantaggio di Roma, comprendendo anche l’obbligo di pagare tributi e di ospitare sul territorio contingenti militari romani.
  • I municipi, entrati a far parte dello Stato romano in virtù di antiche consuetudini o per motivi strategici (per esempio l’etrusca Cere – Cerveteri – e la greca Napoli). Ai loro abitanti, formalmente stranieri (pur assumendo diritti e doveri propri del civis romano, rimanevano cittadini della propria città), erano concesse notevoli autonomie in campo amministrativo, in cambio di alcuni obblighi verso le istituzioni romane. I municipi si dividevano in due gruppi: le civitates optimo iure, i cui abitanti godevano di pieni diritti di cittadinanza (sebbene la distanza da Roma limitasse le possibilità di partecipare ai comizi ed essere eletti alle magistrature), e le civitates sine suffragio, i cui abitanti godevano dei soli diritti civili, rimanendo privi del diritto di voto.
  • I territori dei popoli che erano fuori dalle precedenti partizioni (come i Bruzi, insediati in Calabria, che erano ritenuti incolti e indomabili) venivano sfruttati come terre di conquista e i loro abitanti sottomessi e trattati da sudditi. Non godevano di diritti individuali né di autonomia amministrativa e spesso, per evitare il pericolo di rivolte, erano soggetti al divieto di detenere armi.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana