5. La plebe protagonista
Nel corso delle guerre di conquista, cui parteciparono sia i patrizi sia i plebei, i conflitti sociali in città toccarono punte acute.
Alla base dei disordini c’erano ragioni sociali, economiche e politiche. Si trascinava irrisolto il problema dei debiti, che anzi diventò sempre più critico, come dimostra la condanna a morte, nel 385-384 a.C., di Manlio Capitolino, difensore del Campidoglio durante l’invasione gallica del 390 a.C.: protettore dei plebei e dei debitori insolventi, la sua proposta di ridurre o cancellare del tutto i debiti gli era valsa l’accusa, da parte degli altri patrizi, di mirare a un potere personale e la conseguente condanna.
Sul versante politico, la chiusura nei confronti dei plebei continuava a generare malcontento nei confronti del patriziato. Per dare sfogo alla pressione della plebe erano stati istituiti, a metà del V secolo a.C., i tribuni consolari, ma era stato subito evidente che non si trattava di una vera equiparazione dei loro poteri a quelli dei consoli, poiché i tribuni rimanevano privi delle prerogative più importanti (quelle religiose, per esempio) ed erano esclusi dall’accesso al senato a fine mandato.
La resistenza dei patrizi, tuttavia, appariva ormai superata dai fatti. I plebei più ricchi, favoriti dalla redistribuzione di terre dell’ager publicus (che erano in grado di acquistare, a differenza dei plebei meno abbienti) e arricchitisi grazie alle opportunità offerte dai commerci, erano arrivati ad accumulare patrimoni anche superiori a quelli delle famiglie patrizie; grazie a queste ricchezze – e al ricorso alla corruzione – riuscivano sempre più a determinare le scelte politiche dello Stato e a ottenere le cariche pubbliche (come abbiamo visto, potevano ormai ricoprire la maggior parte delle magistrature). Anche se non poteva accedere al consolato, l’ascesa della plebe era ormai inarrestabile.