5 - La plebe protagonista

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 17 – La conquista dell’Italia

5. La plebe protagonista

Nel corso delle guerre di conquista, cui parteciparono sia i patrizi sia i plebei, i conflitti sociali in città toccarono punte acute.
Alla base dei disordini c’erano ragioni sociali, economiche e politiche. Si trascinava irrisolto il problema dei debiti, che anzi diventò sempre più critico, come dimostra la condanna a morte, nel 385-384 a.C., di Manlio Capitolino, difensore del Campidoglio durante l’invasione gallica del 390 a.C.: protettore dei plebei e dei debitori insolventi, la sua proposta di ridurre o cancellare del tutto i debiti gli era valsa l’accusa, da parte degli altri patrizi, di mirare a un potere personale e la conseguente condanna.
Sul versante politico, la chiusura nei confronti dei plebei continuava a generare malcontento nei confronti del patriziato. Per dare sfogo alla pressione della plebe erano stati istituiti, a metà del V secolo a.C., i tribuni consolari, ma era stato subito evidente che non si trattava di una vera equiparazione dei loro poteri a quelli dei consoli, poiché i tribuni rimanevano privi delle prerogative più importanti (quelle religiose, per esempio) ed erano esclusi dall’accesso al senato a fine mandato.
La resistenza dei patrizi, tuttavia, appariva ormai superata dai fatti. I plebei più ricchi, favoriti dalla redistribuzione di terre dell’ager publicus (che erano in grado di acquistare, a differenza dei plebei meno abbienti) e arricchitisi grazie alle opportunità offerte dai commerci, erano arrivati ad accumulare patrimoni anche superiori a quelli delle famiglie patrizie; grazie a queste ricchezze – e al ricorso alla corruzione – riuscivano sempre più a determinare le scelte politiche dello Stato e a ottenere le cariche pubbliche (come abbiamo visto, potevano ormai ricoprire la maggior parte delle magistrature). Anche se non poteva accedere al consolato, l’ascesa della plebe era ormai inarrestabile.

Le leggi Licinie-Sestie e il riconoscimento politico dei plebei

Dopo le leggi Valeriae-Horatiae del 449 a.C., furono le tre leggi Licinie-Sestie del 367 a.C. (così chiamate dai nomi dei tribuni della plebe che le promossero, Gaio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano) a sancire l’importanza della plebe nel governo della città. La prima legge era di fatto una riforma agraria, che stabiliva che la porzione di ager publicus assegnata a ogni cittadino non potesse superare i 500 iugeri (circa 125 ettari), così da limitare l’entità dei possedimenti dei patrizi. La seconda introduceva un meccanismo che, sottraendo dal debito gli interessi già pagati e rateizzando la parte restante, di fatto impediva l’usura. La terza stabiliva che ogni anno uno dei due consoli potesse essere plebeo: per la prima volta le porte del consolato erano aperte anche alla plebe. Il primo console plebeo (lo stesso Lucio Sestio) sarebbe stato eletto solo dieci anni dopo, ma l’accesso dei plebei al consolato e quindi al senato era ormai legge. La rivolta militare del 341 a.C. (avvenuta durante la prima guerra sannitica) liquidò infine le resistenze nobiliari tese a monopolizzare il consolato.
Le leggi Licinie-Sestie rappresentarono un compromesso inevitabile, senza il quale Roma avrebbe rischiato un’anarchia paralizzante. Da una parte, i patrizi tutelarono il loro potere con l’istituzione, nel 366 a.C., di una nuova magistratura a loro riservata, la pretura, cui vennero attribuite funzioni assegnate ai consoli, come l’amministrazione della giustizia nei tribunali e, in alcuni casi, il comando durante le campagne militari (più avanti i pretori avrebbero svolto anche la funzione di governatori nelle province sottomesse). Dall’altra, però, la strada per ulteriori riconoscimenti ai plebei era ormai aperta, e nei decenni successivi altre importanti leggi andarono in questa direzione: nel 339 a.C., mentre Roma era impegnata a contrastare la coalizione delle città latine e campane, fu eletto il primo dittatore plebeo, Publilio Filone, il quale con una delle leggi Publiliae trasformò le deliberazioni del concilium plebis, i  plebiscita, in leggi dello Stato vincolanti per tutti i cittadini romani, purché approvate dal senato. Nel 326 a.C., secondo Livio, la legge Poetelia Papiria abolì il nexum, la schiavitù per debiti (d’ora in poi i prestiti venivano concessi solo a chi poteva fornire in garanzia beni materiali); nel 320 a.C. tutte le magistrature vennero aperte anche ai plebei. Nel 312 a.C. un’importante svolta a questo processo fu data dal censore Appio Claudio Cieco (colui che aveva avviato la costruzione della via Appia), uomo raffinato e colto, che ottenne l’approvazione di due riforme davvero “rivoluzionarie”: l’ammissione in senato anche dei figli dei liberti e la riorganizzazione delle tribù, che rese possibile l’iscrizione anche ai poveri (gli humiles) e ai liberti; più difficile fu l’accesso dei plebei ai collegi sacerdotali dei pontefici e degli àuguri: ottenuto con il plebiscitum Ogulnium del 300 a.C., il primo plebeo ne beneficiò solo nel 254 a.C. La legge Ortensia del 287 a.C., infine, sancì il valore effettivo dei plebiscita, eliminando la necessità dell’approvazione senatoria.

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Una nuova nobiltà

L’ascesa della plebe determinò nuovi equilibri, nell’ambito dei quali anche la nobiltà si trasformò. Al patriziato per stirpe subentrò un nuovo ceto dirigente – di cui Appio Claudio Cieco fu figura emblematica –, dotato di una mentalità più aperta e disposto al cambiamento; si affermò una nuova oligarchia, più dinamica, attenta al censo e più pragmatica.
Una parte dei membri di questo nuovo ceto arrivava da strati sociali inferiori (gentes o familiae come i Calpurnii, i Licinii, i Livii, i Domizii e i Porcii erano di origine plebea), mentre altri arrivavano dalle terre italiche conquistate; alla romanizzazione della penisola, in altre parole, fece da contraltare l’“italicizzazione” della nobilitas romana: i Furii erano sabini, i Quintii e i Papirii di Tuscolo, gli Attilii campani, i Volumnii e gli Ogulnii etruschi, i Sempronii provenivano dai territori degli Umbri, i Pompei dal Piceno; a guidare l’espansione nel Mediterraneo saranno spesso uomini di queste gentes. Per indicare il membro di una famiglia che per la prima volta, attraverso il consolato o l’accesso diretto al senato, entrava a far parte della nobiltà, fu coniato il termine homo novus. Molti di questi “uomini nuovi” rivestiranno un ruolo importante nella storia di Roma.
A fare di questi individui, che avevano la più disparata provenienza sociale e geografica, un ceto politico abbastanza omogeneo era una mentalità comune basata su alcuni sentimenti condivisi tra cui, per primo, il senso di predestinazione alla supremazia politica e militare, manifestatosi già dopo la guerra contro Pirro. Fu allora che i Romani cominciarono a percepire la loro storia come destinata alla grandezza e alla gloria; non era ancora un’ambizione imperiale, ma certo un atteggiamento che raccoglieva il consenso diffuso, da quello del generale patrizio a quello del piccolo contadino (e perfino dello schiavo), tutti disposti ad assoggettarsi a sforzi bellici continui – una e più guerre ogni anno – con costi altissimi, anche in termini di perdite umane.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana