2 - Le guerre sannitiche

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 17 – La conquista dell’Italia

TESTIMONIANZE DELLA STORIA

FURIO CAMILLO SI RIVOLGE AI ROMANI

In questo brano Tito Livio riporta il leggendario discorso tenuto ai Romani dal console Furio Camillo all’indomani della partenza dei Galli da Roma, nel 390 a.C., in un momento tragico per la città: Camillo parla, non senza qualche esagerazione, di Roma come di «un cumulo di cenere», di vecchi che piangono i figli morti, di madri sole vaganti sulle mura. Per convincere il popolo romano a respingere il proposito di abbandonare la città, Camillo esalta con parole e immagini toccanti la bellezza dei luoghi in cui è sorta, le favorevoli condizioni ambientali, gli affetti che vi ha lasciato.



“Se per motivi dolosi o per circostanze fortuite scoppiasse un incendio a Veio e le fiamme portate dal vento dovessero, come facilmente succede, divorare buona parte dell’abitato, emigreremo di lì a Fidene1 o a Gabi2 o in un’altra qualsiasi città? Siamo dunque così poco attaccati al suolo della nostra patria e a questa terra che chiamiamo madre, e il nostro amore verso la patria si riduce alle travi e ai tetti? E ve lo confesso in tutta sincerità – anche se non fa bene richiamare alla memoria il male che mi avete fatto –, ma quando ero lontano, ogni volta che andavo col pensiero alla mia terra, mi venivano in mente tutte queste cose: i colli, le campagne, il Tevere, la regione familiare alla vista e questo cielo sotto il quale ero nato e cresciuto. E vorrei, o Quiriti,3 che queste cose vi spingessero adesso, per il loro potere affettivo, a rimanere nella vostra terra, piuttosto che tormentarvi in futuro col desiderio nostalgico, quando le avrete abbandonate. Non senza una ragione gli dèi e gli uomini scelsero questo luogo per fondare la città: colli più che salubri, un fiume4 adatto per trasportare il frumento dalle regioni dell’entroterra e per ricevere i prodotti da quelle costiere, un mare vicino quanto basta per goderne i vantaggi e nel contempo non esposto, per eccesso di contiguità, al pericolo di flotte nemiche, una posizione nel centro dell’Italia, insomma un luogo destinato esclusivamente allo sviluppo della città.”


Tito Livio, Storia di Roma, V, 54, trad. di C. Vitali, Zanichelli, Bologna 1989



1. Fidene: la prima città, alleata di Veio, conquistata da Roma.
2. Gabi: era un’altra città del Latium, oggi scomparsa, sulla strada che collegava Roma a Praeneste (oggi Palestrina).
3. Quiriti: era il nome che per lungo tempo si era attribuito il popolo romano: populus Romanus Quiritium, cioè “il popolo romano membro delle curie”, sintetizzato nell’acronimo SPQR, Senatus Populus Quirites Romani, che dopo le conquiste della plebe comincia a essere letto invece come Senatus Populusque Romanus (“il senato e il popolo romano”), entrando in questo modo nell’uso comune.
4. fiume: il Tevere (che a Veio o a Fidene non ci sarebbe).


PER FISSARE I CONCETTI
  • Sottolinea sia le qualità concrete sia le espressioni affettive con cui Furio Camillo loda Roma.
  • Da quali dettagli si deduce il trauma subìto dai Romani in seguito a questa invasione?

2. Le guerre sannitiche

La successiva minaccia che colpì Roma provenne dai Sanniti, un popolo di pastori e contadini poveri del montuoso Sannio (Appennino centro-meridionale), organizzato in tribù autonome riunite in una confederazione militare (la lega sannitica) che comprendeva l’area di Salerno e arrivava fino alla costa adriatica pugliese all’altezza del Gargano. Attratti dalle fertili terre di pianura, essi si erano impadroniti di alcune colonie etrusche e greche della Campania, la regione più ricca della penisola, riuscendo a ottenere il controllo dei traffici commerciali con sbocco sul Tirreno e diventando così una minaccia per gli scambi di Roma con le città della Magna Grecia. La loro aggressività espansionistica, che si avvantaggiava della decadenza etrusca, era pari a quella di Roma, e per certi versi persino più accentuata: i popoli confinanti, compresi i Greci della Campania, li temevano molto, e questa fu, per Roma, una fortuna, poiché le consentì di allargare il proprio dominio forte del consenso dei popoli conquistati.

 >> pagina 319 

La prima guerra sannitica

Per evitare uno scontro diretto, i Romani stipularono un accordo nel 354 a.C., in base al quale i Sanniti erano liberi di espandersi nelle regioni interne ma non dovevano minacciare le città costiere, poste sotto la protezione di Roma. Il patto venne meno nel 343 a.C., quando i Romani approfittarono delle minacce sannitiche alla lega campana – un’alleanza di città che facevano capo a Capua, il centro principale della regione – per invadere i loro territori. Furono queste le premesse del primo conflitto che contrappose i Romani ai Sanniti (343-341 a.C.), i quali disponevano di un esercito più numeroso ed erano favoriti dalla posizione geografica, dal momento che i loro insediamenti, posti sui rilievi appenninici, erano difficili da attaccare. La guerra si risolse rapidamente senza vincitori, con la firma di un nuovo patto cui i Romani furono indotti anche dalla necessità di combattere congiuntamente i popoli latini, che si erano nuovamente alleati con i Volsci e i Campani in funzione antiromana. La guerra contro questa coalizione – la cosiddetta “guerra latina” – durò dal 341/340 al 338 a.C., quando i ribelli furono definitivamente sconfitti. La vittoria di Roma portò allo scioglimento della lega latina, alla riorganizzazione del territorio del Lazio e al controllo romano della Campania.

La seconda guerra sannitica e la riorganizzazione dell’esercito

La presenza romana nei territori campani e le mire di Romani e Sanniti su Napoli, l’unica città ancora indipendente, riaccesero lo scontro qualche anno dopo, dando luogo alla seconda guerra sannitica (326-304 a.C.). Durante il conflitto Roma subì alcune gravi sconfitte, la più celebre delle quali avvenne nella battaglia delle Forche Caudine, nel 321 a.C. lungo i sentieri che collegavano Capua e Benevento. Con un’imboscata i Sanniti catturarono molti prigionieri e li umiliarono duramente, insultandoli mentre li obbligavano a passare disarmati sotto un giogo formato da aste piantate nel terreno (le “forche”, appunto).
A seguito di questa disfatta, Roma abbandonò la tattica dell’attacco frontale, inefficace in un territorio impervio, e negli anni di tregua che seguirono riorganizzò l’esercito, dividendone le unità di base – le legioni – in manipoli, reparti più piccoli e agili nei movimenti. Inoltre, per facilitare lo spostamento di truppe si cominciarono a costruire le prime grandi strade: per impulso del censore Appio Claudio Cieco fu avviata la realizzazione del collegamento viario tra Roma e Capua, la via Appia. L’efficiente rete stradale che favorirà l’espansione commerciale di Roma e diventerà un tratto distintivo della civiltà romana ebbe dunque origine da esigenze militari.
Accanto alla riorganizzazione militare fu messa in campo anche un’offensiva diplomatica per trovare alleati tra i popoli italici confinanti con i Sanniti, che furono infine accerchiati e costretti alla resa. La guerra si concluse nel 304 a.C. con la conquista della capitale sannitica, Boviano.

La terza guerra sannitica e la pacificazione dell’area centro-settentrionale

Tuttavia le ostilità non si fermarono: Etruschi, Umbri e Galli, oltre agli stessi Sanniti appena sconfitti, strinsero infatti un’alleanza per bloccare una possibile e ulteriore avanzata di Roma. L’iniziativa provocò la terza guerra sannitica (298-290 a.C.), che prese avvio con una disfatta di Roma, nel 295 a.C., a Camerino. Ma i Romani rivelarono una tempra non comune: solo pochi mesi dopo, a Sentino (Umbria), pur con gravissime perdite, ottennero la vittoria decisiva, confermata due anni dopo ad Aquilonia, nel Sannio (dove i nemici di Roma persero circa 20 000 soldati). Il fronte alleato si ruppe; gli Etruschi si arresero; i Sanniti, rimasti isolati, subirono nel 290 a.C., a Boviano, la sconfitta definitiva, e furono costretti a sottostare a pesanti condizioni di pace.
A nord, intanto, le tribù dei Galli alleate di alcune città etrusche avevano nuovamente tentato di penetrare nell’Italia centrale, ma ogni loro attacco fu bloccato dai Romani, che li sconfissero definitivamente nel 283 a.C. nella battaglia del lago Vadimone. Il territorio dei nemici cadde sotto il controllo di Roma che fondò, tra le altre, le colonie di Senigallia (Sena Gallica) e Rimini (Ariminum).
Alla fine della terza guerra sannitica, Roma dominava ormai le aree appenniniche dell’Italia centro-meridionale, l’Etruria e parte dell’Italia centro-settentrionale. La sua completa egemonia sulla penisola era ostacolata soltanto dalle colonie elleniche della Magna Grecia.

 >> pagina 320 

• SOTTO LA LENTE • TECNOLOGIA

Le strade romane

La realizzazione delle strade romane iniziava con lo scavo e il consolidamento del terreno: la terra veniva battuta e ricoperta con uno strato di pietre di diverse dimensioni, tenute insieme con la malta (un impasto di calce e sabbia) per evitare che il fondo perdesse di solidità in caso di pioggia. Quindi veniva steso uno strato di sabbia e ghiaia, sul quale erano depositate grosse pietre piatte e di forma regolare. Caratteristica dello strato superficiale era la disposizione “a schiena d’asino”, che prevedeva che la parte centrale del tracciato fosse più elevata in modo che l’acqua piovana scorresse ai lati.
La sede stradale era larga circa 5 metri, per consentire il passaggio contemporaneo dei carri in direzioni opposte, e a ogni miglio (corrispondente a circa 1,5 km) sui margini delle strade era collocato un cippo, detto pietra miliare, che segnalava la distanza dal centro di Roma.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana