Capitolo 17 - La conquista dell’Italia

Capitolo 17 LA CONQUISTA DELL’ITALIA

i concetti chiave
  • L’espansione romana nella penisola italica avvia il consolidamento della forza militare di Roma e il suo controllo dei commerci
  • Nel corso delle guerre contro i Sanniti e gli Italici loro alleati, i Romani usano nuove tattiche militari e creano una rete stradale che favorisce la spostamento delle truppe
  • Lo scontro con Taranto e la creazione di una flotta navale romana
  • Roma si configura come urbs (la città fisica: strutture edilizie) e civitas (il popolo che gode dei diritti di cittadinanza): l’organizzazione amministrativa diversificata dei territori conquistati è strumento di solidità dello Stato
  • Le aspirazioni politiche della plebe arricchita: le leggi Licinie-Sestie e le successive riforme consentono alla plebe l’accesso a tutte le magistrature
  • Nasce una nuova classe sociale di origine italica e plebea

1. La prima espansione di Roma: le guerre contro gli Etruschi e il sacco di Roma

Nel corso del V e del IV secolo a.C., la riorganizzazione delle istituzioni statali si accompagnò al consolidamento dei possedimenti territoriali di Roma, che si estesero ben oltre i confini originari della città. Alla fine di questo processo di espansione politica e militare, Roma diventò la potenza egemone nella penisola italica.

La conquista del Lazio

Subito dopo l’istituzione della repubblica, gli Etruschi tentarono di riconquistare l’egemonia politica sul Lazio ma, entrati in una fase di inarrestabile decadenza, persero il controllo di gran parte dei loro territori a seguito della disfatta subita nella già ricordata battaglia di Aricia (508 a.C.). Liberi dall’influenza etrusca, i popoli dell’Italia centrale poterono così organizzarsi in una lega delle città latine per contrastare la crescente aggressività romana. La coalizione fu però sconfitta nel 496 a.C. presso il lago Regillo, e nel 493 a.C. fu convinta a stipulare un trattato di alleanza con i Romani.
Il patto, denominato foedus Cassianum dal nome del console romano che aveva guidato le trattative, Spurio Cassio Vecellino, era un accordo rigorosamente paritario che prevedeva, in caso di scontri, il reciproco aiuto militare e un’equa divisione delle conquiste. Il foedus rafforzava dunque la lega, includendovi la città di Roma, e mirava all’unione di tutti gli eserciti delle città latine della valle del Tevere contro i popoli insediati sui rilievi appenninici del Lazio: i Sabini, i Volsci, gli Equi e gli Èrnici. Dedite prevalentemente alla pastorizia e, in misura minore, al commercio, queste popolazioni, per le esigenze della transumanza, si spostavano di norma verso occidente, invadendo le pianure del Tevere sulle quali compivano frequenti scorrerie, attratte dalle ricchezze di Roma. Dopo anni di scontri armati, verso la fine del V secolo a.C. i Romani e gli alleati latini conquistarono definitivamente i loro territori, fondandovi numerose colonie.

 >> pagina 316 

Le guerre contro Veio

L’egemonia romana nel Lazio giunse presto a minacciare le città etrusche situate più a nord. Il primo conflitto fu contro la città di Veio (484-477 a.C.) e si concluse con la battaglia presso il fiume Cremera, a cui prese parte un esercito romano composto esclusivamente da combattenti della gens Fabia, una delle famiglie più illustri e influenti, e che ebbe per Roma esiti drammatici. L’esercito fu infatti annientato, e a Veio venne riconosciuto il possesso della città di Fidene, sulla riva sinistra del Tevere, mettendo in pericolo il predominio dei Romani sul commercio del sale. La sconfitta fu tuttavia vendicata nella seconda guerra contro i Veienti, coronata nel 426 a.C. dalla presa della città di Fidene e dalla riconquista da parte di Roma del monopolio del commercio del sale attraverso il controllo della via Salaria.
Riconquistata Fidene, Roma firmò un armistizio di lunga durata con Veio, usando però strategicamente la tregua per preparare una nuova guerra. Venne introdotta, per la prima volta, l’imposta progressiva sul patrimonio (tributum) al fine di garantire ai soldati una paga regolare (stipendium) e liberarli dalla necessità di tornare periodicamente a casa per riprendere il lavoro nei campi. Poi, per un decennio, Roma combatté contro Volsci ed Equi, per garantirsi dal pericolo di un’alleanza nemica; infine, sempre più conscia della sua crescente potenza militare, nel 405 sferrò l’attacco contro la sua principale nemica, dando avvio alla terza guerra contro Veio (405-396 a.C.). La città fu conquistata e saccheggiata, dopo dieci anni di assedio, dal dictator Furio Camillo. Per la prima volta si manifestò la ferocia romana verso gli sconfitti: gli abitanti furono trucidati o fatti schiavi, e i territori vennero annessi all’ager Romanus e distribuiti ai cittadini romani.
Il conflitto rappresentò una svolta decisiva per la storia romana per tre ragioni: per la prima volta arrivò in città una massa di schiavi (2500, secondo Livio), divenuti tali in seguito a una conquista militare e non all’impossibilità di saldare i debiti; in secondo luogo, i soldati ricevettero, oltre alla paga, anche una parte del bottino di guerra: secondo Livio, il «gesto magnanimo» di concedere il saccheggio della città, «molto ricca perché aveva goduto di un lungo periodo di prosperità, fu il primo segnale di riconciliazione tra plebei e patrizi»; infine, mutarono radicalmente i rapporti di forza tra i contraenti del foedus Cassianum poiché Roma, che aveva combattuto da sola la guerra contro Veio, senza l’aiuto della lega latina, si affermò come l’indiscussa dominatrice del Lazio.

Le classi di censo

La leva dei soldati romani e l’organizzazione dei reparti dell’esercito dipendevano, come abbiamo visto, dalla classe censitaria di appartenenza, perché ognuno doveva provvedere personalmente all’acquisto del proprio armamento.
Il nucleo centrale dell’esercito era costituito dalle legioni, contingenti di uomini organizzati secondo un preciso ordine di schieramento. Ai lati della formazione erano disposti i cavalieri (equites), membri dell’aristocrazia senatoria o ricchi plebei che accorrevano in soccorso dei soldati in difficoltà. Questi, disposti su tre linee parallele, costituivano la fanteria, composta da diversi reparti e preceduta dai velites, i cittadini più poveri, armati soltanto di giavellotto, gladio e di un piccolo scudo (fanteria leggera). L’armamento leggero consentiva loro notevole velocità nei movimenti: dopo aver attaccato il nemico per creare disordine nelle sue prime file, si allontanavano rapidamente dal campo di battaglia per lasciare spazio ai reparti meglio equipaggiati e addestrati per gli scontri corpo a corpo.
Gli hastati, armati di una corazza di cuoio rinforzata da piastre di ferro e dotati di un grande scudo, dell’elmo e di una lancia (fanteria pesante), erano i soldati più giovani, membri delle classi censitarie elevate. Essi sostenevano il peso maggiore delle battaglie e combattevano suddivisi in manipoli di 120-150 soldati, che formavano uno schieramento compatto e impenetrabile.
Ben equipaggiati erano anche i principes, i soldati migliori, che entravano in campo quando gli hastati si trovavano in difficoltà.
Nelle retrovie, infine, prendevano posto i triarii, veterani che, forti della loro esperienza, intervenivano per evitare la sconfitta in battaglie dall’esito incerto.

 >> pagina 317 

I Galli e il sacco di Roma

Al termine di queste guerre Roma raddoppiò il proprio territorio e incamerò un vasto bottino; come accennato, furono assegnati lotti di terre coltivabili anche ai plebei (circa un quarto di ettaro ciascuno), sebbene non mancassero contrasti con i patrizi, accusati di accaparrarsi le terre migliori.
I contrasti interni furono però temporaneamente accantonati per l’improvviso comparire di una seria minaccia bellica:  l’invasione dei Celti – chiamati Galli dai Romani –, un popolo guerriero protagonista, già da alcuni secoli, di un movimento migratorio verso sud, che l’aveva portato a occupare parte dell’Italia settentrionale e centrale ( Capitolo 15). Nel 390 a.C. alcune tribù di Galli Sénoni, stanziati sulla costa orientale dell’Italia, nel territorio delle attuali Marche, attaccarono diverse città etrusche e latine, senza trovare resistenza. I Romani, che avevano sottovalutato il pericolo, allestirono rapidamente un esercito, ma il 18 luglio, nei pressi del fiume Allia, a una dozzina di chilometri da Roma, furono sconfitti e si diedero alla fuga. I Galli entrarono in città, la misero a  sacco e vi restarono per sette mesi. La lasciarono, impaurita e umiliata, solo dopo il pagamento di ingenti tributi in oro.
Il trauma per i Romani fu così forte da far loro prendere in considerazione l’abbandono della città in macerie. L’idea non fu attuata, ma la leggendaria ricostruzione della vicenda ( Testimonianze della storia, p. 318) dimostra che l’evento rappresentò per i Romani una lezione dura ma utile: essi si resero conto dell’importanza di aumentare le difese cittadine, rafforzando le mura serviane, la compatta cinta di blocchi di tufo che correva per 11 km intorno alla città.
La debolezza di Roma portò allo scioglimento del foedus Cassianum, in luogo del quale si crearono alleanze parziali che causarono scontri tra una città e l’altra. Volsci, Ernici, Etruschi e Latini volsero le armi ognuno contro i propri vicini e anche contro Roma, la quale però riuscì a risollevarsi in fretta e, nel 380 a.C., conquistò senza difficoltà Tuscolo, già quasi completamente circondata da territorio romano. Successivamente Roma affrontò una nuova invasione dei Galli, ponendosi alla testa, nel 358 a.C., della lega latina ricostruita. Nel 349-348 a.C., infine, i Galli si ripresentarono, ma questa volta Roma schierò un esercito imponente (10 legioni, secondo lo storico romano Tito Livio), e i nemici abbandonarono il campo senza nemmeno dare battaglia.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana