5 - I conflitti tra patrizi e plebei e le nuove istituzioni repubblicane

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 16 – Le origini di Roma e la prima età repubblicana

5. I conflitti tra patrizi e plebei e le nuove istituzioni repubblicane

La prima secessione dei plebei

Ai contrasti interni alla classe patrizia, cui si diede risposta con l’architettura istituzionale del consolato e del senato, si aggiungevano, come si è detto, i conflitti tra patrizi e plebei: gran parte dell’età repubblicana fu segnata dalla tensione tra un patriziato che tendeva a rafforzare il suo predomino politico e una plebe che tentava di eroderlo.
Nonostante il meccanismo di voto dei comizi centuriati garantisse il predominio del patriziato sulla plebe, il conflitto sociale, tenuto sotto controllo in epoca monarchica, esplose in età repubblicana. Nel 494 a.C. i plebei organizzarono una clamorosa protesta, la secessione (secessio, “distacco”). Per la prima volta, una parte della popolazione abbandonò il lavoro, rifiutandosi anche di partecipare alle operazioni militari in corso contro le città latine, e si ritirò sul Monte Sacro, oltre il fiume Aniene, a 5 km da Roma. Invocando le divinità dell’oltretomba a testimoni, i ribelli si giurarono solidarietà reciproca e scelsero due capi, cui diedero il titolo di tribuni (capi delle tribù). La secessione – un’iniziativa a metà strada tra uno sciopero e una congiura popolare – mise in grave difficoltà i patrizi, che furono costretti a entrare in trattative inviando il console Menenio Agrippa a parlare con i “secessionisti”; temevano infatti che costoro (tra cui vi erano molti immigrati) potessero fondare un’altra comunità, “liberata” dai patrizi e possibile alleata dei nemici di Roma.
Secondo lo storico Dionigi, alla base della secessione vi erano stati motivi economici e sociali, e in particolare l’oppressione dei debiti, giunta a livelli insopportabili. Anni di cattivi raccolti, causati anche dalle scorrerie militari, avevano impoverito le campagne; spesso i contadini e gli artigiani dovevano abbandonare i campi e le botteghe per essere arruolati, con grave danno per le loro attività. In queste condizioni, l’indebitamento era inevitabile: a chi non era cliente di un ricco patrizio non restava che chiedere prestiti in denaro, in derrate o in sementi ai nobili. Il prestito veniva però concesso solo se si accettava di porsi al servizio del creditore per il tempo da lui stabilito. Così, gli usurai, patrizi e plebei arricchiti che prestavano a interessi altissimi, avevano trascinato in schiavitù intere famiglie insolventi, e la città si era riempita di nexi. Secondo lo storico Tito Livio invece erano state prevalenti le ragioni politiche, riguardanti il monopolio dei comizi centuriati da parte dei patrizi che, non essendo impegnati nel lavoro, erano sempre presenti alle assemblee, o che comunque vi facevano affluire i propri clienti; attraverso il voto di questi ultimi, essi pilotavano le elezioni dei magistrati, oppure corrompevano i partecipanti offrendo denaro in cambio del sostegno alla loro candidatura. Se si considera che il senato – organo che tra l’altro decideva sulle conseguenze dei debiti non pagati – era per definizione composto solo da patrizi, i plebei erano di fatto esclusi dai luoghi di decisione, e l’accesso alle cariche pubbliche era per loro quasi impossibile (anche se un certo numero di plebei era riuscito ad arrivare al consolato). In questa situazione, era comprensibile che i plebei, in particolare quelli arricchiti e coinvolti nel servizio militare, pretendessero il riconoscimento del loro peso politico.
Vi era infine anche un altro motivo di malcontento: i consoli avevano un potere enorme, che in mancanza di leggi scritte poteva diventare arbitrario, poiché la provocatio di fatto non veniva concessa. Limitare il potere incontrollato dei consoli dunque era tra gli obiettivi della protesta della plebe.

Le conquiste plebee: il tribunato della plebe

La prima secessione si concluse con la vittoria plebea: «Più nessun cittadino romano poteva essere messo in catene o imprigionato, in modo da impedirgli di iscrivere il proprio nome nella lista di arruolamento dei consoli, nessuno poteva impossessarsi o vendere i beni di un soldato impegnato in guerra, né trattenere i suoi figli e i suoi nipoti» (Tito Livio, Ab Urbe Condita, II, 24). A difesa delle proprie conquiste, i plebei ottennero anche il riconoscimento formale e giuridico del tribunato della plebe.
All’inizio i tribuni della plebe erano due, a imitazione dei consoli, ma via via aumentarono, fino a diventare dieci nel 448 a.C. Erano sacri e inviolabili: nessun magistrato poteva chiederne l’arresto, e chi attentava alla loro incolumità era condannato a morte. La loro autorevolezza politica crebbe nel tempo, fino a diventare contraltare del potere dei consoli.
Quella del tribuno della plebe era una figura storicamente nuova: neppure nella democrazia ateniese era previsto un magistrato con la funzione di sostenere gli interessi della plebe, intesa come gruppo sociale e come singoli individui. Per eleggere i tribuni venne creata una nuova assemblea politica, il concilio della plebe (concilium plebis), riservata ai soli plebei raccolti nelle tribù territoriali in cui era suddivisa Roma. Organizzato su base territoriale, il concilio della plebe andava dunque oltre il rapporto tra diritto di voto e ricchezza (che caratterizzava invece i comizi centuriati), ma soffriva di un altro limite: i plebei abitavano soprattutto nell’area urbana, divisa in 4 tribù, ma dal momento che ogni tribù esprimeva un solo voto, le 16 tribù rustiche avevano la supremazia nelle votazioni, che finivano così per favorire gli interessi dei ricchi proprietari plebei delle campagne.
L’inserimento del tribunato tra le alte magistrature della repubblica aveva aspetti contraddittori: da un lato era una grande conquista per i plebei, soprattutto quelli ricchi, dall’altro lato di fatto li escludeva dalle altre magistrature e quindi dal senato, confermando la natura oligarchica della repubblica. In ogni caso, l’istituzione di questa magistratura rendeva esplicita l’esistenza di due classi e ne riconosceva gli interessi legittimi e contrapposti, sia economico-sociali sia politico-istituzionali. In questo modo la plebe diventava un soggetto sociale riconosciuto dallo Stato, soprattutto nel suo potere di opposizione e negazione. Ai tribuni, infatti, vennero riconosciute due fondamentali prerogative: il potere di veto sulle leggi proposte dai consoli, cioè la possibilità di annullarle se ritenute sfavorevoli per la plebe, anche fino alla paralisi dello Stato, e la facoltà di convocare il concilium plebis, e di farne quasi un contraltare del senato.

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passato&presente

Repubblica e democrazia

I Romani maturarono presto la consapevolezza che il loro sistema di governo, la repubblica, era un caso del tutto particolare nel panorama istituzionale del tempo. Cicerone, nel I secolo a.C., attribuiva a Catone, importante uomo politico vissuto tra III e II secolo a.C., il primo nucleo di questa idea: «[Catone] soleva dire che la nostra costituzione era superiore a quella d’ogni altra nazione perché, in quasi tutte quelle, le leggi e gli istituti erano dovuti all’opera d’un singolo legislatore: Minosse, nel caso di Creta, Licurgo, di Sparta [...]. La nostra costituzione, invece, è opera non di singoli ma del genio collettivo né s’è costituita durante una sola vita umana ma nel corso dei secoli e delle età» (Cicerone, De re publica, II, 1). È un’opinione condivisa anche dallo storico greco Polibio (II sec. a.C.), secondo il quale le istituzioni repubblicane avevano avuto origine «non in forza di un ragionamento, ma attraverso molte lotte e vicissitudini, scegliendo il meglio sempre e solo sulla base della conoscenza maturata nei rovesci di fortuna» (Polibio, Historiae, VI, 10, 12-14).
Secondo Polibio, che riprendeva un’idea di Erodoto, vi erano state nella storia tre forme benigne di Stato: monarchia, aristocrazia e democrazia. Ognuna di queste forme poteva facilmente degenerare nella corrispettiva forma maligna, vale a dire tirannia, oligarchia e oclocrazia (predominio delle masse). A Roma, come a Sparta, secondo Polibio, si sarebbe realizzata la forma di Stato ottimale poiché la sua costituzione era basata sull’equilibrio delle forme benigne: il potere monarchico, identificato nei consoli, quello aristocratico, rappresentato dal senato, quello democratico, espresso dalle assemblee del popolo. In nessun caso Polibio paragonava la repubblica romana alla democrazia ateniese: ne conosceva le differenze e non era favorevole alla democrazia come forma di governo. Anche in tutto il pensiero politico e giuridico successivo, democrazia e repubblica resteranno termini diversi e in qualche caso perfino contrapposti.
Ad avvicinare i concetti di repubblica e democrazia fu per primo lo studioso fiorentino Niccolò Machiavelli (1469-1527), il padre della moderna scienza politica, ma gli studiosi successivi tornarono a identificare nella repubblica la forma di governo oligarchica per eccellenza. Fu soltanto con le rivoluzioni americana e francese del XVIII secolo che la repubblica tornò a coincidere con la concreta realizzazione politica degli ideali di libertà e democrazia.
Ancora oggi, sebbene l’uso più comune del termine “repubblica” si riferisca a forme di governo elettive, contrapposte alla monarchia che si caratterizza invece (anche se non sempre) per l’ereditarietà del potere, la parola è spesso impiegata come sinonimo di “democrazia”, per indicare compagini statali in cui la sovranità appartiene al popolo (come nel caso della Repubblica italiana).
In realtà, sono esistiti ed esistono tuttora Stati formalmente repubblicani ma di fatto governati da regimi dittatoriali o autoritari, o comunque antidemocratici.

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La “serrata” dei patrizi e le leggi delle Dodici tavole

I patrizi risposero duramente alle conquiste della plebe. A fronte dell’evidente coesione politica espressa dai plebei, reagirono con una “serrata”, cioè mettendo in campo azioni e decisioni che portarono ad accentuare il loro monopolio del potere e delle cariche religiose e a definire il loro gruppo sociale come gruppo chiuso e inaccessibile. Il divieto ai matrimoni misti (forse prima in qualche misura tollerati) era l’espressione più chiara e radicale di questa chiusura: nessun individuo che non fosse patrizio da antica data, neppure se si era arricchito, poteva sperare di essere cooptato nel patriziato e di accedere quindi al senato.
Il contrasto sfociò in una stagione turbolenta e violenta, di cui fu un primo esempio la condanna a morte, nel 486 a.C., di Spurio Cassio Vecellino (eminente uomo politico, più volte console), con l’accusa di essere un “tiranno”, ma in verità per aver proposto una prima legge di divisione delle terre a favore della plebe.
In questo clima si decise, tra il 451 e il 449 a.C., la sospensione momentanea dell’elezione dei consoli e dei tribuni della plebe e la formazione di una commissione di dieci patrizi esperti di diritto, i decemviri, ai quali affidare il governo e l’incarico di preparare un codice di leggi scritte sul modello delle legislazioni elleniche (soprattutto quella dell’Atene di Solone). La stesura del codice fu tutt’altro che semplice, e per condurla in porto fu necessaria una “seconda secessione” (nel 449 a.C. la plebe si ritirò sul colle Aventino). Dal lavoro della commissione scaturì un insieme di norme chiamate leggi delle Dodici tavole, perché riprodotte su dodici tavole di bronzo poi affisse nel Foro. Tutti i Romani, da allora, considerarono queste leggi come il fondamento della civiltà romana, e il fatto stesso che fossero scritte una conquista di inestimabile valore (tanto che venivano fatte imparare a memoria ai ragazzi, plebei e patrizi). Come era avvenuto già nelle civiltà orientali e in Grecia, fissando le regole basilari della convivenza civile e le pene per gli eventuali trasgressori, il nuovo codice poneva un limite all’arbitrio interpretativo delle norme.
Al tempo stesso, le leggi delle Dodici tavole non eliminarono i privilegi delle classi elevate, ma si limitarono a mettere per iscritto consuetudini esistenti. La cosa non stupisce, se si considera la composizione esclusivamente patrizia della commissione che le aveva codificate. Del resto, gli stessi plebei promotori delle riforme erano plebei ricchi, che miravano a ottenere l’uguaglianza politica con i patrizi, non a tutelare i diritti di strati sociali inferiori. Così, non fu eliminata la legge che prevedeva la schiavitù per debiti e venne confermato, con valore di legge, il divieto di matrimoni misti tra patrizi e plebei. Solo dopo un’altra aspra lotta si giunse, nel 445 a.C., alla promulgazione della lex Canuleia (dal nome del tribuno della plebe che la propose, Caio Canuleio), che concedeva la possibilità di matrimoni misti, favorendo così la mobilità sociale dei plebei ricchi: imparentandosi con famiglie nobili, anche costoro poterono da quel momento in poi accedere alle più alte cariche pubbliche e al seggio senatoriale.
In sintesi, le leggi delle Dodici tavole furono un compromesso raggiunto tra le parti moderate delle forze in lotta, sulla definizione di regole comuni e condivise: il tentativo di conciliare, o di indirizzare alla collaborazione, interessi contrapposti che avrebbero potuto distruggere le fondamenta della repubblica. Da questo momento divenne usuale ribadire l’importanza politica del “popolo di Roma”, e la sigla SPQR, acronimo che fino ad allora aveva probabilmente significato Senatus Populus Quirites Romani (laddove Quirites indicava i Romani in quanto titolari della cittadinanza), cominciò a essere letta come Senatus Populusque Romanus (“il senato e il popolo romano”), al fine di includere in questa espressione entrambe le classi sociali di Roma, i patrizi e i plebei.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

LEGGI ARCAICHE E NORME MODERNE

Accanto alla conferma di norme molto arretrate (III, 5-6; VIII, 2), espressione della tradizione giuridica arcaica, alcune leggi riportate nelle Dodici tavole stabilivano importanti novità (VIII, 21; IX, 6), togliendo spazio alle vendette private e attribuendo allo Stato l’esercizio della giustizia. Ne presentiamo alcune, al fine di illustrare questo intreccio, frutto anche del compromesso raggiunto tra le parti in conflitto, tra difesa di interessi consolidati e adozione di criteri innovativi.



Tavola I, 1. Se [l’accusatore] lo cita in giudizio, [l’accusato] ci vada. Se non ci va, [l’accusatore] chiami dei testimoni e lo afferri.

Tavola III, 5-6. Se un debitore non ha ancora pagato i suoi creditori dopo 60 giorni, sarà portato al mercato per essere venduto come schiavo. Se per 3 volte non si sarà riusciti a venderlo, verrà tagliato a pezzi e i creditori ne porteranno via un pezzo ciascuno.

Tavola IV, 2. Se il padre avrà venduto il figlio per 3 volte, il figlio sia libero dall’autorità paterna.

Tavola VIII, 2. Se uno ha procurato una lesione a un altro, a meno che non giunga a un accordo con lui, sarà applicata la legge del taglione.

Tavola VIII, 9. Se qualcuno pascola in un luogo abusivo o ruba il raccolto, verrà impiccato se è un adulto, oppure verrà frustato e multato se è un giovane.

Tavola VIII, 12. Se di notte uno facesse un furto e il derubato lo uccidesse, l’uccisione sia ritenuta legittima.

Tavola VIII, 21. Se un patronus froda il cliente, sia condannato alla sacertà.

Tavola IX, 6. È vietato uccidere qualsiasi uomo, se non è stato prima giudicato e condannato dal tribunale.

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Le magistrature romane

I profondi cambiamenti in corso – oltre che la sempre maggiore complessità dei compiti assunti dallo Stato in seguito alle conquiste territoriali – esigevano un nuovo equilibrio delle istituzioni statali. Così, vennero via via approvate nuove leggi con le quali si diede vita, o si diede conferma, a un insieme di  magistrature anch’esse organizzate in base al rispetto dell’ordine gerarchico e ai caratteri di collegialità e limitazione temporanea (annuale) delle cariche.
Si venne disegnando una repubblica patrizio-plebea, nella quale cioè si ricercava il compromesso istituzionale piuttosto che il conflitto. Fondamentali nell’evoluzione di questo percorso furono le tre leggi Valeriae-Horatiae del 449 a.C., nelle quali veniva riconosciuta e resa valida per tutti l’autorità del concilium plebis (anche se di fatto solo nel 286 a.C. verrà imposto il rispetto di questo principio), si stabiliva l’inviolabilità dei tribuni della plebe e, a garanzia della stabilità del sistema, si imponeva la regola che non sarebbe più stato possibile creare una nuova magistratura senza l’appello del popolo.
Venne confermato al vertice il consolato, massima autorità anche nella guida dell’esercito in guerra, ma accanto ai consoli vennero create figure con competenze e poteri minori e specifici.
Subito sotto i consoli vennero istituiti gli edìli. Eletti dal concilio della plebe, erano all’inizio (dal 493 a.C.) solo plebei e avevano compiti delicatissimi, anche se all’apparenza “tecnici”: controllavano l’amministrazione della città, l’ordine pubblico, la costruzione degli edifici, la manutenzione delle strade, l’approvvigionamento dei mercati pubblici, l’organizzazione degli spettacoli e delle feste religiose. L’importanza dei loro poteri convinse i patrizi ad affiancarvi, nel 367 a.C., gli edili curùli, scelti tra i nobili.
Dal 421 a.C. anche i plebei poterono ricoprire la carica di questori, i magistrati che si occupavano dell’amministrazione delle finanze statali e della riscossione delle tasse.
Insieme agli edili curùli, i questori erano eletti dai comitia populi tributa, un’assemblea istituita nella seconda metà del V secolo a.C. sul modello e con le stesse modalità di funzionamento dei concili della plebe, ma alla quale potevano partecipare tutti i cittadini romani, patrizi e plebei, assegnati alle tribù territoriali.
Dal 443 a.C. furono introdotti i censori, carica riservata ai patrizi, eletti ogni 5 anni dai comizi centuriati e in carica per 18 mesi. Durante il periodo in cui esercitavano la loro funzione, essi svolgevano l’indagine sui possedimenti dei Romani al fine di preparare il censimento, l’elenco di tutti i cittadini organizzato per tribù territoriali e classe di reddito di appartenenza. In base al reddito, ogni cittadino aveva un ruolo specifico nell’esercito e pagava una determinata somma in tasse. I censori avevano un grande potere, poiché controllavano la formazione delle classi di censo, delle assemblee politiche e dell’esercito, e potevano spostare un cittadino da una classe all’altra in base al suo patrimonio. Potevano inoltre escludere un cittadino dalla vita politica in caso di comportamenti ritenuti disdicevoli. Infine, organizzavano i lavori pubblici e distribuivano le terre conquistate in guerra.
Furono i magistrati più soggetti alla corruzione e alla concussione.
Edili, questori e censori, in origine, erano figure tipiche dell’organizzazione plebea, che la repubblica aristocratica adottava a vantaggio di un’organizzazione più efficiente della vita collettiva e politica. I risultati di questa operazione furono due:

  • si vincolarono i membri troppo ricchi e potenti della nobiltà, inserendoli in un’oligarchia più collegiale e funzionale alla formazione e alla selezione di dirigenti sperimentati abili e capaci; a costoro si chiedeva di acquisire una competenza di merito attraverso il cosiddetto cursus honorum, cioè un percorso dalle magistrature di livello più basso a quelle di livello più alto;
  • si cooptavano gruppi di plebei nella gestione dello Stato e nel controllo delle tensioni sociali, riconoscendo che la plebe era ormai ago della bilancia tra fazioni contrapposte di patrizi (soprattutto perché nelle elezioni appoggiava ora l’uno ora l’altro candidato per proprie convenienze o per accordi elettorali); si andava così disegnando un tipo di Stato storicamente del tutto inedito (né aristocratico né democratico né monarchico, dirà Polibio), ma adatto a governare la rapida espansione territoriale di Roma. Al consolidamento dello Stato, come vedremo, era anche asservita la religione.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana