4 - Il passaggio alla repubblica

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 16 – Le origini di Roma e la prima età repubblicana

4. Il passaggio alla repubblica

Nel 509 a.C., dopo la ribellione dei patrizi che pose fine alla monarchia, a Roma venne introdotto un modello di governo destinato a durare cinque secoli, durante i quali, dopo un primo secolo di difficoltà derivate in particolare dai contrasti tra patrizi e plebei e dalla necessità di difendere la città dalle mire espansionistiche dei vicini, l’influenza di Roma si espanderà sulla penisola italica e sull’intero Mediterraneo: un “impero” – caso unico nella storia antica – conquistato da un popolo non governato da un imperatore. Per definire il nuovo ordinamento istituzionale, i Romani usavano il termine  repubblica, impiegato ancora oggi dagli studiosi per identificare questo lungo periodo storico.
La repubblica romana – come la democrazia ateniese, della quale condivide alcuni aspetti – non nacque già ben strutturata, ma fu il risultato di un processo di adattamento lungo e conflittuale degli istituti di governo, durante il quale interessi contrastanti si confrontarono duramente. I conflitti riguardarono, come vedremo, i rapporti tra classe dominante e strati sociali inferiori, ma furono aspri anche all’interno della classe dirigente stessa, soprattutto in relazione ai criteri di accesso alle cariche politiche.

La marginalità della Roma delle origini e i contrasti interni al patriziato

All’inizio della storia repubblicana, Roma, se confrontata con le póleis della Magna Grecia, era una città povera e marginale. Nessuno storico greco la cita prima del 300 a.C. e nessun autore romano pensa di scriverne la storia prima del 200 a.C. L’originaria marginalità di Roma è rivelata anche dal primo trattato concluso con Cartagine nel 508 a.C. circa, in cui i Romani si impegnavano a non superare il “bel promontorio” (Capo Farina, a nord di Cartagine) e a limitare il proprio commercio a Libia, Sardegna e Sicilia, vedendosi di fatto imporre un blocco della loro modesta flotta.
In questa fase, comunque, i maggiori problemi di Roma erano interni. Il passaggio alla repubblica era avvenuto grazie a un colpo di mano di alcune famiglie patrizie, e il rischio più grave per la vita della città era che una di loro potesse prevalere sulle altre. Alcune famiglie, proprietarie di vasti possedimenti terrieri e con migliaia di clienti (una leggenda racconta che la gens Fabia disponesse di 306 membri e 4000 clienti: cifre poco veritiere, ma comunque indicative della potenza di alcuni gruppi familiari), potevano addirittura mettere in campo eserciti privati e, facendo leva sulle reti di amicitiae, mirare al predominio politico. Per questo motivo si diffuse un forte sentimento di ostilità verso il potere monarchico, avversione che avrebbe a lungo caratterizzato la vita politica di Roma.
I contrasti tra i clan potevano diventare così laceranti da sfociare nell’assassinio politico, che diventerà in effetti una costante della lotta politica romana.

L’istituzione dei consoli, il senato e la dittatura

All’inizio i poteri e le funzioni dei re passarono al  praetor maximus. Egli venne poi affiancato da un collega, in modo che i due magistrati potessero controllarsi a vicenda. Essi assunsero il nome di  consoli, e come segno del loro potere ereditarono il privilegio regale di orlare la toga con la porpora, la preziosa tinta di origine fenicia. I consoli, come i re, esercitavano il potere politico e militare (imperium), amministravano la giustizia e presiedevano le cerimonie religiose. Convocavano e dirigevano le riunioni del senato e le assemblee cittadine, e inoltre disponevano del potere di imporre l’obbedienza a un individuo, se necessario ricorrendo a multe, carcere, fustigazione, morte (coercitio). Per limitare questo potere venne introdotta una legge, detta della provocatio ad popolum, secondo la quale il cittadino aveva la possibilità di ricorrere contro le decisioni dei consoli appellandosi al giudizio del popolo.
Le deliberazioni dei consoli, vincolanti per tutti, erano collegiali. Per garantire la collegialità si fece ricorso a diversi espedienti: ognuno dei due consoli poteva porre il veto sulle decisioni prese dall’altro; per alcuni periodi i due magistrati si alternavano mensilmente nell’esercizio delle loro funzioni (e quotidianamente in tempi di guerra). La collegialità era inderogabile nella proposta delle leggi, giacché nessuno dei due consoli poteva proporre autonomamente al senato una legge da discutere e approvare. Con il tempo, però, il console eletto con il maggior numero di voti finì per esercitare un peso politico e un’autorevolezza maggiore rispetto all’altro.
Altra caratteristica della carica consolare era la durata temporanea: i consoli restavano in carica soltanto un anno e, in caso di morte di uno dei due prima della fine del mandato, veniva eletto un sostituto. La durata limitata e il carattere collegiale erano i due criteri adottati per impedire che un individuo – e la sua famiglia – potesse prevalere sugli altri.
L’altro organo fondamentale dell’ordinamento romano era il senato, che per tutta l’età repubblicana continuò ad avere un’influenza politica determinante, maggiore anche di quella dei consoli perché, a differenza di questi, i senatori rimanevano in carica per tutta la vita. Vi erano ammessi i consoli a fine mandato e i membri delle classi più ricche scelti per cooptazione dagli stessi senatori (i conscripti); solo in momenti cruciali verranno inseriti patres di nuove famiglie nobiliari. La repubblica fu così dominata dai patrizi.
Nell’ordinamento repubblicano era prevista, in casi di estrema necessità, anche una carica straordinaria, la dittatura, attribuita dai consoli su indicazione del senato. Si trattava dell’unica eccezione al principio di collegialità; al dittatore (dictator) era infatti conferito il comando supremo, con la possibilità di designare un collaboratore nella figura del comandante della cavalleria (magister equitum). La durata della carica era però limitata a sei mesi – il lasso di tempo di una campagna militare – nei quali il dittatore assumeva il controllo dello Stato (il primo dittatore fu nominato nel 501 a.C.).

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passato&presente

Dittatura: storia di una parola

Secondo Cicerone, il termine dictator deriva da dictus, che significa “nominato”, poiché in origine il dictator veniva nominato dai consoli. Alla dittatura si faceva ricorso nei momenti di emergenza, in genere in caso di guerre impegnative o di sconfitte. Il dictator assumeva, per sei mesi, i pieni poteri civili e militari (l’imperium), ma con un compito ben definito. Gli si doveva un’obbedienza cieca e nessun’altra magistratura poteva farlo decadere o contrastare la sua azione. Tra i più noti dittatori vi fu Lucio Quinzio Cincinnato, che ricoprì la carica per due volte (nel 458 a.C. e nel 439 a.C.).
Una profonda mutazione della natura di questa istituzione avverrà con l’esperienza politica di Lucio Cornelio Silla e soprattutto con Caio Giulio Cesare, che la trasformerà in una carica perpetua.
Dopo Cesare il termine cadde in disuso. Tornerà in auge alla metà del 1600 in Gran Bretagna, con Oliver Cromwell, il nobile che guidò la ribellione contro Carlo I e che promosse, per la prima volta nella storia moderna, la condanna a morte di un re con l’accusa di immoralità, tirannia e omicidio. A questo esempio si ispirarono in parte i rivoluzionari francesi (particolarmente i giacobini) quando instaurarono, nel 1793, il regime del Terrore. Da allora il termine dittatura ha assunto quella connotazione negativa in uso ancora oggi, prendendo a indicare un regime politico autoritario, in cui il potere è accentrato nelle mani di un solo organo (il direttorio, per esempio) o più spesso di un solo uomo.
Il XX secolo è stato caratterizzato da numerose dittature, le quali, per l’aspirazione a governare e a controllare tutti gli ambiti della società, hanno preso il nome di totalitarismi. Tali furono il regime di Benito Mussolini in Italia, di Adolf Hitler in Germania e di Iosif Stalin in Unione Sovietica. Feroci dittature sono ancora al potere in alcune parti del mondo.

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Il ceto dirigente repubblicano

Non tutti i nobili facevano parte del senato, anche se i 100 patres di Romolo erano raddoppiati con i Tarquini e diventati 300 con Giunio Bruto, il primo console dopo la fine della monarchia. Di fatto, la repubblica rimase a lungo affidata a un gruppo di patrizi che formava un ceto dirigente ristretto, un’ élite in certe fasi chiusa, in altre aperta ad apporti esterni, e sempre caratterizzata da una mentalità comune che traeva forza, soprattutto nel primo secolo, da tre princìpi.

  • L’identificazione tra gli interessi dei suoi membri e i destini di Roma: l’élite dirigente si sentiva rappresentante dell’intera comunità e non soltanto di se stessa (si presenterà sempre come espressione del “popolo di Roma”); era una forma di patriottismo con connotati marcati e consapevoli.
  • La forza dell’esempio: ai senatori si chiedeva di essere un modello per tutti; essi non dovevano nascondere (come ad Atene) la loro ricchezza, segno di prestigio, ma dovevano vivere con rigore morale; in caso contrario potevano essere espulsi dal senato. Dovevano praticare la virtus (da vir, “uomo”), mostrando spirito di sacrificio e di rinuncia, senso di giustizia, abilità militari e dedizione alla patria, e dedicarsi all’interesse della collettività e mai all’ambizione personale: dalla virtù veniva infatti la gloria, il riconoscimento della comunità. Anche per questo motivo non dovevano impegnarsi nei commerci (ma potevano prestare soldi a interesse, e anche a usura). Nella pratica si era lontani dal rispetto di queste regole, che avevano però lo scopo di costruire un modo condiviso di considerare le funzioni dello Stato, il ruolo delle istituzioni repubblicane, le responsabilità politiche della classe dirigente.
  • La religione e il monopolio della comunicazione con gli dèi: la legittimità del ceto dirigente non si fondava solo sulla nobiltà di stirpe, sul patrimonio e sul censo, ma anche su un privilegio attribuito prima ai re e poi ai consoli, e che traeva origine dal mito fondativo di Roma. Romolo, prima di tracciare il solco sacro, aveva chiesto conforto al dio supremo, Giove, che aveva inviato dodici avvoltoi in segno di predestinazione; analogamente, il ceto dirigente conservava il diritto agli “auspici pubblici”, ossia il privilegio di chiedere (e ricevere) l’opinione al padre di tutti gli dèi.

I comizi centuriati

Per garantirsi il controllo delle istituzioni, la classe dirigente patrizia sostituì i comizi curiati, che avevano rappresentato una parziale limitazione del suo predominio, con una nuova assemblea, i comizi centuriati, risultato di un nuovo ordinamento civile e militare nel quale si limitava il primato del censo. Questa istituzione aveva il carattere di un’assemblea del popolo in armi, e aveva di fatto scarsi poteri, anche se ufficialmente pare avesse prerogative molto importanti (tra cui l’elezione delle più alte magistrature). Con il tempo divenne soprattutto il luogo nel quale si tessevano alleanze o si consumavano i conflitti tra parti della plebe e parti del patriziato.
Il nuovo ordinamento dei comizi centuriati fu strettamente legato all’organizzazione dell’esercito, e divise la popolazione in 193 centurie inquadrate in cinque classi di censo. La prima classe, comprendente gli individui con reddito annuale di almeno 100 000 assi (l’unità monetaria utilizzata al tempo), era composta da 100 centurie: 18 di cavalieri (equites), 80 di fanti (pedites) e 2 ausiliarie di fabbri e falegnami, addetti al funzionamento delle macchine belliche. Seguivano altre quattro classi, per un totale di 90 centurie di fanti, divise in base al reddito dei loro membri e dunque al tipo di armi che potevano comprare. I soldati della prima erano equipaggiati al completo, con corazza e scudo; quelli dell’ultima erano dotati solo di un’asta e del gladio, la spada corta tipica del soldato romano, mai dello scudo. Alle centurie di fanti erano aggregate anche 3 centurie ausiliarie, composte da inservienti. Infine c’era la classe dei proletari, privi di reddito, esclusi dall’esercito e dalle assemblee politiche: solamente nei casi di grave pericolo per la città venivano arruolati ed equipaggiati a spese dello Stato.
Le classi erano divise in centurie di iuniores (dai 17 ai 45 anni), i mobilitabili, e in centurie di seniores (tra i 46 e i 60 anni), che costituivano il servizio di presidio. Dato che il diritto di partecipazione e voto nell’elezione dei magistrati nei comizi centuriati era legato alla mobilitazione in guerra, in senso stretto avrebbero dovuto votare solo i primi, ma il diritto al voto era concesso a entrambi, cioè anche a chi non era destinato alla battaglia, segno evidente del carattere gerontocratico della società romana. Del resto nei comizi centuriati non era il voto del singolo cittadino a contare (non si votava cioè per testa), ma il voto di ogni centuria.
Votare per centuria rappresentava un’evidente penalità per la plebe. In origine, infatti, la “centuria” indicava un’effettiva formazione militare di cento uomini, ma con il rapido aumento della popolazione in ogni centuria finirono per trovarsi molti più individui. Poiché l’incremento demografico riguardava soprattutto le classi inferiori, nel I secolo a.C. una sola centuria della quarta classe di censo conteneva più cittadini di tutte le centurie della prima classe. Eppure, sul totale dei voti delle 193 centurie, quelle che rappresentavano gli interessi dei patrizi (prima classe) erano 100, e pur essendo composte da un numero inferiore di individui, avevano sempre la maggioranza rispetto alle 93 dei plebei. A causa del meccanismo di votazione, in altre parole, la plebe aveva un peso nettamente inferiore rispetto alla sua dimensione numerica, e di conseguenza era impossibile che i plebei potessero essere eletti nelle magistrature più importanti della città.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana