2 - La società in età monarchica

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 16 – Le origini di Roma e la prima età repubblicana

2. La società in età monarchica

Il nucleo della società: familiae e gentes

Secondo la tradizione, le popolazioni che abitavano l’area in cui sarebbe sorta Roma erano divise in tre  tribù: i Tities (i Sabini governati da Tazio), i Ramnes (i Romani di Romolo) e i Luceres (probabilmente di origine etrusca).
La struttura sociale di queste comunità era in parte analoga all’organizzazione in fratrie della Grecia arcaica ( p. 147). Diversi nuclei familiari legati da vincoli di parentela formavano una familia, guidata da un membro anziano (pater familias) che godeva di grande prestigio. Egli gestiva i beni e le proprietà, dirimeva le controversie e la sua autorità si estendeva su tutti i membri della familia, sui quali aveva diritto di vita e di morte.
Più familiae discendenti da antenati comuni formavano una  gens (plurale gentes), la cui ricchezza era basata sul possesso di terre e di bestiame. Il legame con le origini familiari era molto sentito, e ogni gens venerava con culti particolari i propri antenati.

Il potere della proprietà terriera: i patrizi

Le nostre conoscenze sulle origini delle differenze sociali a Roma sono molto scarse: probabilmente, quando la popolazione era ancora in numero ridotto, alcune gentes diventarono, per ricchezza o consistenza del nucleo familiare, più importanti di altre, attribuendosi il nome di patrizi, forse per indicare la comune ascendenza da un antenato (pater) di condizione libera o dai cento senatori (patres) che secondo la tradizione Romolo aveva voluto al suo fianco nel governo della città (il senato, come vedremo, avrà un ruolo importantissimo in tutta la storia di Roma).
La base di potere delle famiglie patrizie risiedeva nella proprietà della terra. Tra queste famiglie si stabilivano relazioni più o meno strette, che davano luogo ad alleanze o contrapposizioni in difesa di interessi particolari. La gerarchia tra le famiglie era perciò dovuta sia all’ampiezza dei patrimoni posseduti, sia alle capacità e alle relazioni del pater familias. Le alleanze erano garantite dai matrimoni: attraverso il passaggio della donna dalla tutela paterna alla tutela del marito si consentiva a due famiglie di stringere legami forti. Grazie alle alleanze e ai matrimoni si formava un reticolo di potere basato su gruppi familiari stabili e duraturi. La storia di Roma fu a lungo dominata da una ventina di familiae formatesi in questo modo; il loro numero sarebbe poi aumentato con la pratica della cooptazione o con l’adozione di membri di famiglie emergenti da parte di altre famiglie influenti.
Accanto al possesso della terra, e a questo strettamente legato, l’altra fonte di legittimazione e di potere per i patrizi era il monopolio delle armi. Le famiglie nobili si riservavano l’accesso all’esercito e il suo controllo, fondamentale perché sulla guerra si basava la conquista di nuove terre, e dunque l’incremento di ricchezza della comunità.
Nella prima fase della storia romana, la formazione dell’esercito, che i Romani chiamavano inizialmente legione, era basata sulla divisione in tribù: ognuna delle tre tribù che formavano la comunità romana forniva cento cavalieri e mille fanti, per un totale di 300 cavalieri e 3000 fanti. In seguito alla spinta espansionistica di Roma, il numero dei soldati raddoppiò, e il numero delle legioni fu portato a due, cui poi se ne aggiunsero altre, fino ad arrivare a una trentina.
Strettamente intrecciata al servizio militare era la cittadinanza. Far parte della comunità significava difenderla in armi: il cittadino era soldato e viceversa. Per esercitare i diritti di cittadinanza (a partire dalla discussione sulle leggi riguardanti la collettività e l’attribuzione delle cariche pubbliche) erano state istituite, all’interno delle tre tribù, le curie: ogni tribù era suddivisa in dieci curie, per un totale di trenta curie (ogni curia, a sua volta, era composta da dieci gentes).

Nel cuore della STORIA

I nomi dei Romani

A partire dal III secolo a.C. si diffuse a Roma il cosiddetto sistema dei tria nomina, una formula di tre nomi con cui si identificavano gli uomini di stirpe nobile.
Consideriamo, per fare un esempio, Publius Cornelius Scipio: al centro della formula vi è il nome principale, il nomen (equivalente al cognome attuale), che indicava la gens di appartenenza dell’individuo (Cornelius); tale elemento è preceduto dal praenomen (Publius), e seguito dal cognomen (Scipio), una sorta di soprannome che cominciò, da un certo punto in poi, a essere trasmesso ai figli e ai nipoti. Poiché, come abbiamo visto, le gentes erano formate da più familiae, il cognomen prese a identificare gli individui che appartenevano a una stessa familia. Spesso era ricavato da caratteristiche individuali del capostipite, come comportamenti particolari o difetti fisici, che i Romani coglievano con feroce ironia: Balbus, “balbuziente”; Cicero, “che ha un bitorzolo a forma di cece” e così via. Gli Scipioni prendevano forse il cognomen da un capostipite abituato a far da supporto al padre cieco (scipio indicava il “bastone”).
Talvolta si usava aggiungere un ulteriore soprannome (o più d’uno), il signum, la cui origine era legata a particolari circostanze. È il caso, per esempio, di Publio Cornelio Scipione Africano, o di suo fratello Lucio Cornelio Scipione Asiatico, così soprannominati per le vittorie militari riportate in Africa e in Asia.
A differenza dei nobili, i plebei erano in genere identificati soltanto con il praenomen e il nomen (Caio Mario, per esempio), ma potevano anche possedere i tre nomi, soprattutto se si trattava di famiglie originariamente plebee ma in seguito entrate nella cerchia dei patrizi. Agli schiavi (e ai bambini), invece, si riservava il solo praenomen; se liberati, prendevano il nomen del generoso liberatore.
Situazione del tutto particolare era quella delle donne, alle quali era attribuito soltanto il cognomen in funzione gentilizia, cioè per indicare l’appartenenza familiare, tanto che per distinguere le donne appartenenti allo stesso gruppo si aggiungeva un ulteriore aggettivo (Prima, Secunda, Maior, Minor). Il fatto che le donne non avessero un nome proprio è l’indizio di una società di tipo patriarcale, che vedeva nel padre, maschio, adulto, libero, romano per nascita (indipendentemente dalla ricchezza), la figura di riferimento collettivo.

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Plebei, proletari e schiavi

I patrizi rimasero al potere per quasi cinque secoli grazie alla loro ricchezza, alle relazioni tra le famiglie, alle competenze di governo acquisite, al monopolio delle cariche politiche e religiose e al ruolo di comando nell’esercito.
Eppure, essi rappresentarono sempre una minima parte del popolo romano, che era invece principalmente composto dalla  plebe. Si trattava di uomini liberi, che non avevano una gens di appartenenza ma che erano economicamente e socialmente indipendenti dai patrizi: artigiani, mercanti, stranieri ai quali era stato dato asilo politico, e soprattutto piccoli proprietari di terra. Questi ultimi aumentarono con la formazione dell’ager publicus o Romanus, terre di proprietà pubblica conquistate a seguito delle guerre e distribuite tra la popolazione (si fa risalire la nascita dell’ager publicus all’epoca della sconfitta della città di Alba Longa, nel VII secolo a.C.). I plebei, dunque, non erano necessariamente poveri ed emarginati, ma potevano anzi condividere con i patrizi alcuni interessi: per esempio la guerra, poiché dalle conquiste belliche entrambi i gruppi sociali ricavavano vantaggi a volte considerevoli (terre da suddividere, schiavi, parti del bottino).
Anche l’istituto della “clientela” è forse spia di interessi condivisi. I clienti (clientes) erano plebei legati da vincoli sociali alla familia patrizia: avevano cioè un rapporto di dipendenza/protezione con il patrono (patronus), il pater familias. A lui dovevano fedeltà e appoggio nelle contese con le altre famiglie patrizie; combattevano al suo fianco e lavoravano la sua terra ( Nel cuore della storia). I clienti erano membri effettivi delle familiae e potevano votare, pur non essendo nobili, nelle elezioni per le cariche pubbliche. In cambio, ricevevano sostegno economico e protezione dalle angherie degli altri patrizi. In mancanza di leggi scritte, la risoluzione di liti e controversie infatti era assegnata ai  pontefici, sacerdoti custodi delle leggi e appartenenti alle famiglie patrizie: senza l’appoggio di un ricco patrono sarebbe stato impossibile, per un plebeo, ottenere giustizia. Nelle reti di clientela entreranno anche lavoratori manuali e braccianti agricoli, soggetti così poveri da possedere solo i figli, e per questo chiamati proletari.
Al livello più basso della gerarchia sociale c’erano infine gli schiavi, del tutto privi di diritti. Si trattava per lo più, in origine, di plebei che non erano riusciti a pagare i debiti contratti con i patrizi e avevano di conseguenza perduto la libertà personale. Il numero degli schiavi crescerà enormemente nei secoli successivi, con le conquiste territoriali e le guerre.

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Nel cuore della STORIA

La clientela

L’istituto della clientela, la cui origine è attribuita dallo storico Dionigi a Romolo, era fondamentale nella società romana. Nel definire questo rapporto di subordinazione personale, l’intenzione di Romolo sarebbe stata di impedire quel che succedeva ad Atene, dove gli aristocratici potevano rendere schiavi i teti, o tra gli Etruschi, dove i sottoposti erano sudditi non liberi (Dionigi li paragona agli iloti spartani); per questo avrebbe fissato regole precise, affidando al pater familias, oltre che la tutela delle mogli, dei figli e degli schiavi, anche quella dei clientes.
Il rapporto fra patrono e cliente non era la manifestazione di una subordinazione univoca, ma il risultato di obblighi sociali reciproci. Il patrono aveva in primo luogo l’obbligo di proteggere il cliente, e dunque di aiutarlo in caso di necessità, ospitarlo in casa, invitarlo alla sua mensa, provvedere a rifornirlo di cibo e denaro (la cosiddetta sportula); doveva inoltre assumerne la rappresentanza in tribunale, poiché il cliente non era riconosciuto come titolare di diritti giuridici. Nel caso della redistribuzione di terre dell’ager publicus, il patrono era tenuto a sostenere il suo cliente. Da parte sua quest’ultimo, legato dal vincolo di fedeltà, assicurava al patrono il proprio sostegno elettorale e il voto nelle assemblee, contribuiva al riscatto in caso di una sua cattura e lo aiutava in guerra.
Con il tempo e con il progressivo arricchimento delle famiglie patrizie, le responsabilità del patrono sarebbero aumentate all’eccesso. Per esempio, per la salutatio matutina, uno dei momenti rituali del rapporto tra cliente e patrono, una clientela assai rumorosa si presentava a casa del patrono per dargli il buongiorno, presentare richieste o lagnanze e chiedere favori e appoggi. Decisamente più grave sarebbe invece diventata la questione della sportula, che portò spesso il patrono all’indebitamento da quando schiere di indigenti presero a utilizzarla come unica risorsa per sopravvivere, tanto che l’imperatore Traiano (98-117 d.C.) fu costretto a regolamentarla.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana