Terre, mari, idee - volume 1

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 15 – L’Italia preromana

L’economia: agricoltura, artigianato, commerci

Gli Etruschi seppero sfruttare abilmente la fertilità delle loro terre, in gran parte di origine vulcanica. La principale risorsa delle prime comunità etrusche fu infatti l’agricoltura, resa produttiva dalle opere di canalizzazione dei fiumi che essi, per primi, introdussero in Italia. La regolazione del flusso delle acque consentì il prosciugamento delle paludi e l’irrigazione dei campi, che furono così in grado di fornire abbondanti quantità di cereali e di lino, e grazie ai contatti con le colonie greche dell’Italia meridionale furono introdotte anche in Etruria le colture dell’ulivo e della vite.
Oltre che sull’agricoltura, l’economia etrusca si basava sull’allevamento, sullo sfruttamento del legname delle foreste appenniniche e soprattutto sull’estrazione e sulla lavorazione dei metalli (ferro, rame, stagno, argento e piombo), che diede impulso a un fiorente artigianato metallurgico in grado di sostenere i traffici commerciali con le altre popolazioni italiche. Il legname, oltre che per la costruzione di navi mercantili, era impiegato proprio per alimentare le fornaci per la lavorazione del ferro.
Grazie alle innovazioni nelle tecniche di navigazione apprese dai coloni fenici e greci, gli Etruschi poterono dedicarsi anche al commercio marittimo e, accanto a questo, alla pirateria. Come all’epoca dei Cretesi e dei Micenei, e come accadeva ancora con i Fenici e i Greci, la differenza tra spedizioni mercantili e incursioni piratesche era molto labile: di fatto, entrambe queste attività consentirono agli Etruschi di incrementare le loro ricchezze e di stabilire un’egemonia marittima nel mar Tirreno.

Il potere: dal governo del sovrano all’emergere della classe nobiliare

Alla guida delle comunità etrusche vi era in origine un sovrano, chiamato lucumòne, appartenente alla classe dei ricchi proprietari terrieri di origine nobile e alla casta sacerdotale. Il lucumone amministrava la giustizia e ricopriva anche i ruoli di comandante dell’esercito e di sommo sacerdote.
A partire dal VI secolo a.C., però, l’importanza economica dei commerci fece emergere un’aristocrazia mercantile che si arricchì notevolmente e, di conseguenza, acquisì un prestigio e un potere sempre maggiori nella società. All’assemblea dei mercanti spettava la facoltà di eleggere annualmente le principali cariche politiche e religiose delle comunità. Il potere un tempo detenuto dal sovrano fu affidato dunque a una nuova nobiltà, titolare delle attività commerciali e proprietaria delle miniere di ferro, e quindi interessata a una politica espansionistica nel Tirreno finalizzata a cercare nuovi sbocchi commerciali.
Al di sotto dell’aristocrazia mercantile si trovava la maggior parte della popolazione, costituita da contadini e artigiani: erano individui formalmente liberi, ma la povertà e la mancanza di diritti politici rendevano la loro condizione simile a quella servile. Lavoravano alle dipendenze delle famiglie nobili nei campi, nelle miniere e nelle botteghe; non potevano esercitare le attività mercantili né sposarsi con individui appartenenti all’aristocrazia. Queste limitazioni erano volte a impedire che l’ordine sociale potesse essere sovvertito: i commerci avrebbero infatti consentito ai meno abbienti di arricchirsi, mentre i matrimoni misti avrebbero potuto costituire un fattore di ascesa sociale. Nonostante gli stretti contatti con i Greci, dunque, in nessun caso l’evoluzione della società etrusca presentò sviluppi volti alla formazione di istituzioni di governo tendenzialmente democratiche simili a quelle conosciute ad Atene o in altre città della Magna Grecia.

Il ruolo sociale delle donne nobili etrusche

L’affresco della cosiddetta Tomba degli Scudi di Tarquinia mostra una donna e un uomo che partecipano a un banchetto funebre. Epigrafi, corredi funebri, raffigurazioni parietali ritrovati in alcune tombe etrusche tramandano un’immagine delle donne ben diversa rispetto a quella delle altre popolazioni italiche. Rinnegata l’idea di una donna relegata tra le mura domestiche e sottomessa al volere dell’uomo di famiglia, tipica per esempio del mondo greco e di quello romano, la donna dell’aristocrazia etrusca godeva di ampie libertà: usciva liberamente, partecipava ai banchetti e alle manifestazioni sportive assieme al marito, esprimeva con autorevolezza la propria opinione nelle questioni familiari, poteva scegliere di mantenere il proprio nome di famiglia anche una volta sposata, possedeva gioielli lussuosi e raffinati.
Discordanti rispetto al materiale restituitoci dalle scoperte archeologiche sono invece le testimonianze degli scrittori antichi greci e romani, che spesso hanno tramandato un’immagine del tutto negativa della donna etrusca, tacciandola di dissolutezza e immoralità: la libertà e l’autonomia di cui godevano le personalità femminili presso la società etrusca erano a tal punto inconsuete da risultare incomprensibili presso le altre civiltà.

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La Chimera di Arezzo

La statua bronzea della Chimera di Arezzo venne probabilmente realizzata da un’équipe di artigiani, con la partecipazione di maestranze magno-greche ed etrusche.
Il mostro mitico, che gli Etruschi hanno ereditato dai Greci, ha il corpo e la testa di leone, la coda di serpente e una testa di capra sul dorso. L’opera era destinata a un santuario della divinità Tinia, il cui nome è inciso su una zampa.
La Chimera ha le fauci spalancate e le zampe anteriori distese, nella posa tipica di una bestia che si ritrae per difendersi dal nemico, il mitico eroe Bellerofonte, che era stato incaricato dal re di Licia di ucciderla.

L’organizzazione politica: le città-Stato

L’Etruria era organizzata politicamente in città-Stato indipendenti che, pur trovandosi spesso in guerra tra loro, si riunivano, per motivi bellici o economici, in confederazioni religiose poste sotto la protezione di una divinità comune. La più importante era la lega delle dodici città-Stato della dodecàpoli, che si riconosceva nel culto di Voltumna, venerato nel santuario di Bolsena. Secondo gli storici antichi, oltre a Bolsena facevano parte della dodecàpoli, Volterra, Populonia, Vetulonia, Roselle, Arezzo, Perugia, Chiusi, Vulci, Tarquinia, Cerveteri e Veio.
Alle alleanze contro i nemici comuni partecipavano anche altre città etrusche, come Cortona, Fiesole e Orvieto, e i rapporti diplomatici stabiliti tra i vari centri si reggevano su interessi economici condivisi, legati al predominio commerciale esercitato dagli Etruschi sull’Italia centrale. Le alleanze militari erano comunque instabili, e non impedirono l’insorgere di vari conflitti interni finalizzati a stabilire l’egemonia territoriale di una città a scapito delle altre. Le tendenze all’unificazione furono sempre limitate, e ogni città mantenne una sua forte autonomia.

Dall’espansione alla decadenza

Lo sviluppo economico sostenuto dall’incremento dei commerci fornì le risorse necessarie per il potenziamento degli eserciti delle città. Così, tra il VII e il VI secolo a.C. esse intrapresero una politica espansionistica che portò in pochi decenni alla massima estensione territoriale della civiltà etrusca. Numerose colonie furono fondate in Campania (tra le più importanti Capua, Nola e Acerra), la cui ricchezza era basata sulle attività metallurgiche e sui commerci con le città della Magna Grecia. Nel VI secolo a.C. gli Etruschi conquistarono ampi territori anche nella pianura padana, dove fondarono Fèlsina (l’odierna Bologna), Mantova, Piacenza e Ravenna. Nello stesso periodo estesero la loro influenza commerciale e politica sul Lazio meridionale e sulle coste tirreniche settentrionali, e stabilirono intensi contatti commerciali con la Grecia e l’Oriente.
L’espansione territoriale degli Etruschi fu a questo punto percepita come una seria minaccia dalle città della Magna Grecia, impegnate anch’esse ad assicurarsi il controllo delle rotte commerciali nel Tirreno, e provocò una serie di conflitti con le colonie greche. Intorno al 540 a.C. gli Etruschi si allearono con i Cartaginesi, potenza marittima emergente nel Mediterraneo occidentale, e vinsero i coloni greci nella battaglia di Alalia, in Corsica. Questa vittoria stabilì la supremazia etrusca sulla costa orientale corsa e su quella fenicia della Sardegna.
Alla fine del VI secolo a.C. l’espansione territoriale etrusca si arrestò: i conflitti tra le città-Stato e la pressione militare dei numerosi nemici che esse si trovavano ad affrontare contemporaneamente portò alla crisi della loro potenza politica. Ai problemi esterni, legati alla necessità di difendere l’egemonia territoriale sull’Italia centrale, si aggiungevano i conflitti sociali che agitavano al loro interno le città, nelle quali crescevano le rivendicazioni delle classi inferiori (artigiani e piccoli proprietari terrieri) contro i privilegi dell’aristocrazia mercantile, che le mantenevano escluse dalla partecipazione alla vita politica.
Di questa situazione di difficoltà approfittarono i popoli latini, che si ribellarono al predominio etrusco, mentre a nord i Celti conquistarono, nel V secolo a.C., le città etrusche della pianura padana. Nello stesso periodo i Sanniti, stanziati nelle regioni appenniniche interne, arrivarono a occupare i territori delle colonie etrusche in Campania. Nel 474 a.C., infine, la flotta siracusana sconfisse definitivamente gli Etruschi presso Cuma, in Campania. Dopo questa battaglia, la loro civiltà entrò in una fase di inarrestabile decadenza politica ed economica.

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Nel cuore della STORIA

Veio e il passaggio all’età del ferro

Lo studio della civiltà etrusca ci permette anche di comprendere meglio gli snodi del passaggio dall’età del bronzo all’età del ferro che, in Europa, ha caratterizzato diversi luoghi e ha segnato un’evoluzione importante non solo per l’uso dei materiali, ma anche riguardo all’assetto della società e delle strutture di potere.
Dalle ricerche archeologiche a Veio (l’antica Veii, le cui rovine si trovano a pochi chilometri da Roma) si direbbe che il passaggio dall’età del bronzo (1300-900 a.C.) all’età del ferro (900-700 a.C.) sia stato lineare, senza brusche interruzioni. A caratterizzare questa evoluzione fu l’incremento demografico che portò i numerosi villaggi collinari, posti sulla riva destra del Tevere, a fondersi in un unico centro, Veio appunto. La sua intensa crescita demografica, già nel IX secolo a.C., quindi in epoca precedente all’affermazione della civiltà etrusca, e in modo indipendente dall’influenza della colonizzazione greca, ne fece uno dei centri di maggior interesse dell’area, così da attrarre poi gli stessi Etruschi che occuparono e colonizzarono la città, inglobandola nel proprio sistema politico e culturale.
Veio avrebbe in seguito ulteriormente consolidato il proprio ruolo, come dimostra il fatto di essersi dotata, verso il V secolo a.C., di solide fortificazioni che delimitavano un’area di ben 190 ettari, tanto che lo storico greco Dionigi di Alicarnasso la definì, nel I secolo a.C., «la più potente città dei Tirreni» al tempo di Romolo, sostenendo che fosse «grande quanto Atene».
Fin dall’VIII secolo a.C. Veio era entrata in competizione con Roma per il controllo delle saline alla foce del Tevere, fondamentali per la ricchezza di Roma. Dopo lunghe guerre, Veio fu definitivamente conquistata dai Romani nel 396 a.C.

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Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana