1 - I popoli italici: un mosaico di presenze

Unità 7 L’ITALIA DELLE ORIGINI >> Capitolo 15 – L’Italia preromana

1. I popoli italici: un mosaico di presenze

Le prime tracce umane dell’epoca neolitica nella penisola italica risalgono al V-IV millennio a.C. Le incisioni rupestri, insieme ai grandi monumenti megalitici quali dolmen, menhir e cromlech, si trovano in abbondanza in molte aree della penisola e permettono di studiare la geografia degli insediamenti e di conoscerne la diffusione.

V millennio a.C.: i Camuni

Tra i più antichi insediamenti neolitici vi sono quelli della val Camonica, nell’Italia settentrionale, risalenti al V millennio a.C.
Grazie alle numerose incisioni rupestri realizzate in un lungo arco di tempo e attribuite nell’ultima fase (I millennio a.C.) ai Camuni, siamo venuti a conoscenza di alcuni aspetti della vita di questi popoli: sappiamo per esempio che, nelle attività agricole, era utilizzato l’aratro. La posizione geografica degli insediamenti camuni, che traevano vantaggio dalla protezione naturale offerta dai rilievi alpini, spiega in parte la lunga durata di questa cultura, sopravvissuta fino alla fine del I secolo a.C., quando venne assorbita da Roma.

II millennio a.C.: palafitte e terramare

Poco più a est e più a sud, sulle rive dei numerosi laghi e fiumi della zona, comparvero invece, nel II millennio a.C., i primi villaggi di palafitte, formati da capanne costruite su pali di legno, che le mantenevano all’asciutto ed evitavano i danni dovuti a improvvisi innalzamenti del livello delle acque (a ulteriore protezione dalle piene dei fiumi, i villaggi erano talvolta cintati con argini e terrapieni). Le palafitte rappresentavano inoltre un’efficace difesa dagli animali pericolosi e dagli attacchi di tribù ostili.
I corsi d’acqua erano molto importanti per queste popolazioni, che li utilizzavano come vie di comunicazione e di trasporto più efficienti di quelle terrestri; ne sono testimonianza i ritrovamenti di relitti di numerose piroghe scavate in un unico fusto d’albero, ma anche, a dimostrazione della diffusione della pratica della navigazione, resti di imbarcazioni più solide, in grado di affrontare il mare aperto.
Gli insediamenti palafitticoli, intorno alla metà del II millennio a.C., si diffusero anche in un’area oggi compresa nella regione Emilia-Romagna, tra i fiumi Po e Panaro; qui, però, le palafitte erano costruite sulla terraferma, con lo scopo di proteggere le abitazioni dagli allagamenti dovuti allo straripamento del Po e degli altri corsi d’acqua minori. Le capanne erano addossate l’una all’altra e le tribù che vi abitavano praticavano la caccia, le attività agricole e l’allevamento. Il nome con cui esse vengono identificate – cultura delle terramare – fu coniato nell’Ottocento, al momento della scoperta dei primi resti archeologici, e deriva da un’espressione del dialetto emiliano, terra marna, che significa “terra grassa”, o “fertile”, in riferimento all’abitudine dei terramaricoli di gettare i resti dei loro pasti nei terreni sottostanti le abitazioni, per contribuire a renderli più fertili. Tale cultura scomparve intorno al 1200 a.C., forse a causa di una catastrofe naturale o in seguito a un rilevante cambiamento climatico.
Presso tutte queste comunità la caccia, la pesca, la raccolta e forme embrionali di allevamento costituivano le principali attività economiche; meno sviluppata era l’agricoltura. Diffusa era invece la metallurgia, in particolare la lavorazione del bronzo che, a partire dal 1500 a.C., sostituì quella del rame.

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1800 a.C.: la civiltà nuragica in Sardegna

In Sardegna si affermò verso il 1800 a.C. la civiltà dei nuraghi, che avrebbe mantenuto il controllo della parte centrale dell’isola fino alla conquista romana (III secolo a.C.). Il termine “nuraghe” deriva da un vocabolo sardo, nurra, il cui significato è “cumulo di pietre”, “cavità”: in un primo momento i nuraghi erano infatti torri in pietra isolate a forma di tronco di cono, mentre in seguito, inglobando altre costruzioni, assunsero l’aspetto di veri castelli fortificati. Insieme alla loro conformazione, anche la funzione dei nuraghi si è evoluta nel tempo, trasformandoli da strutture puramente difensive a centri di controllo e organizzazione della popolazione. I nuraghi erano abitati dai guerrieri, mentre i contadini e i pastori vivevano nelle capanne sparse attorno alla cittadella fortificata, nella quale si rifugiavano solo in caso di pericolo.
È verosimile che i Sardi fossero anche abili marinai: se ne conoscono gli intensi contatti via mare con i Fenici, che nel corso del I millennio a.C. fondarono diverse colonie sulle coste della Sardegna. Non è escluso che i Sardi fossero tra i cosiddetti “popoli del mare” che intorno al 1200 a.C. effettuarono incursioni sulle coste dell’Egitto ( p. 103).

Movimenti migratori

All’inizio del II millennio a.C., dunque, nella penisola erano insediate numerose popolazioni neolitiche che avevano origini molto diverse e che rimasero a lungo separate e indipendenti.
A modificare questo quadro furono, a partire dalla prima metà del II millennio a.C., i movimenti migratori di popoli di origine indoeuropea ( p. 76), i quali, provenienti dall’Asia, si erano mossi già nei secoli precedenti verso l’Europa centrale e la penisola balcanica. L’ultima fase della loro migrazione li condusse dall’area del medio Danubio e dei Carpazi alla penisola italica, dove penetrarono attraverso i valichi alpini (oltrepassati durante le stagioni estive, quando il clima mite permetteva di percorrere anche i sentieri in quota). Altri arrivarono via mare, dall’Adriatico, e si diressero verso il territorio pugliese. Non bisogna immaginare però una migrazione organizzata e unitaria; si trattò piuttosto di un afflusso costante, durato oltre due secoli, di tribù e di gruppi, in un periodico alternarsi di guerre e di fasi di convivenza pacifica, durante le quali si ebbero anche fenomeni di integrazione tra i diversi popoli.

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I millennio-VIII secolo a.C.: Villanoviani e Messapi

Intorno al 1000 a.C., nell’area compresa fra le attuali regioni dell’Emilia-Romagna e della Toscana, comparve la civiltà villanoviana (così denominata perché i primi resti archeologici a essa riconducibili sono stati scoperti vicino a Villanova, nei pressi di Bologna). I Villanoviani formavano una società dominata da famiglie nobili, vivevano in villaggi fortificati situati sulle alture e praticavano l’agricoltura e l’allevamento. La civiltà villanoviana sviluppò anche l’artigianato metallurgico, che alimentò i primi traffici commerciali con l’Oriente, sfruttando le miniere di ferro presenti nella zona. Anche la penisola italica entrò dunque, nel X secolo a.C., nell’età del ferro.
I Messapi erano invece un’antica popolazione italica che viveva in un’area corrispondente alla Murgia meridionale e al Salento (all’incirca i territori di Lecce, Brindisi e Taranto). “Messapia” (che significa forse “terra tra i due mari”) è in verità una denominazione data dai Greci, e in effetti le notizie che abbiamo di questa popolazione risalgono al momento in cui essa venne in contatto con il mondo greco, intorno al IX-VIII secolo a.C.
Dal 272 a.C. i Messapi entreranno a far parte del territorio di Roma.

VI-III secolo a.C.: i Celti

Tra le popolazioni nomadi di origine indoeuropea che nel II millennio a.C. si erano stabilite in varie regioni dell’Europa vi erano i Celti. Tra il VI e il III secolo a.C. le loro ampie migrazioni interessarono anche l’Italia. I Celti che penetrarono in Italia – chiamati Galli dai Romani – erano divisi in varie tribù che conquistarono vaste zone nella parte settentrionale e centrale della penisola: gli Insubri si stabilirono nell’area dell’attuale città di Milano, i Boi si stanziarono in Emilia e i Sénoni occuparono le coste adriatiche nei pressi dell’attuale città di Senigallia (l’antica Sena Gallica, che da loro prende nome).
Dediti all’agricoltura, i Galli introdussero anche in Italia alcune innovazioni che migliorarono le rese agricole. Grazie alle loro competenze in ambito metallurgico inventarono il vomere di ferro, che consentì notevoli progressi nelle tecniche di coltivazione. A loro si deve inoltre la bonifica di ampie zone paludose della pianura padana, che continuò comunque a essere sfruttata a lungo quasi solo per l’allevamento di erbivori (in particolare bovini ed equini).
Un’altra importante caratteristica dei popoli celtici riguarda le sepolture. Essi praticavano l’incinerazione, ossia la cremazione dei defunti, al posto della semplice sepoltura delle salme. Il corpo del defunto veniva bruciato, le ceneri raccolte in un’urna decorata (spesso con motivi geometrici) e chiusa da un coperchio a scodella rovesciata; l’urna era poi calata in un pozzetto che veniva riempito con terra e scaglie di tufo. La pratica della cremazione era in uso anche presso i Villanoviani, ma non presso i Messapi: non si diffuse infatti in modo uniforme, anche se tra il 1300 e il 700 a.C. la ritroviamo in un’area molto estesa. Per definire i popoli che hanno adottato tale modalità di sepoltura, forse influenzata dal contatto con le civiltà del Vicino Oriente, si parla di “civiltà dei campi di urne”: le urne infatti, calate nei loro pozzetti, venivano raggruppate una accanto all’altra su terreni piatti, in vaste necropoli, senza alcuna tomba o monumento commemorativo.

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La penisola italica entra nella storia

I primi contatti commerciali tra quelli che possiamo genericamente chiamare gli “italici” e gli altri popoli mediterranei risalgono al 1300-1200 a.C., quando le coste dell’Italia meridionale e centrale furono raggiunte dalle navi mercantili micenee. Attraverso questi contatti, le tecniche di navigazione rimaste fino ad allora patrimonio delle civiltà del Mediterraneo orientale si diffusero anche tra le popolazioni costiere della penisola italica.
A partire dall’VIII secolo a.C. la colonizzazione fenicia e greca del Mediterraneo interessò anche le coste italiche. Nella Sicilia occidentale e in Sardegna furono fondati numerosi empori fenici, mentre nella Sicilia orientale e nella parte meridionale della penisola sorsero le ricche e potenti colonie greche. Oltre a diffondere le innovazioni tecnologiche e le merci provenienti dall’Oriente, la colonizzazione dell’Italia favorì la conoscenza delle tradizioni culturali e delle espressioni artistiche delle civiltà orientali. Grazie alla presenza dei coloni greci, in particolare, si affermò l’uso della scrittura: le prime testimonianze di testi scritti ritrovate in Italia risalgono proprio alla seconda metà dell’VIII secolo a.C. Nei secoli successivi, in seguito agli intensi contatti commerciali stabiliti dai Greci con l’entroterra, si diffuse in tutta la penisola l’alfabeto fonetico che, successivamente elaborato dai popoli italici, è giunto fino a noi. Con la diffusione della scrittura, anche l’Italia entrò appieno nella storia, tre millenni dopo il Vicino Oriente.

La nascita della scrittura in Italia

Il più antico testo scritto finora ritrovato in territorio italiano è riferibile alla cultura greca: si tratta di un’incisione praticata su una coppa di ceramica proveniente dall’isola di Ischia, in Campania. Il primo insediamento sull’isola avvenne nel 775 a.C. a opera dei coloni di Calcide, città dell’isola greca di Eubea. L’iscrizione fu incisa su una coppa per il vino, realizzata a Rodi nel 730 a.C. circa e importata a Ischia da mercanti greci. Il testo stabilisce un confronto tra il recipiente e la coppa di Nestore (il mitico re di Pilo), resa celebre dalla descrizione contenuta nell’Iliade. L’iscrizione riporta queste parole: «Era certo piacevole bere nella coppa di Nestore, ma chi berrà da questa coppa sarà subito preso dal desiderio di Afrodite, dalla bella corona». L’incisore allude al desiderio d’amore – di cui Afrodite è la dea – provocato dal vino.

Terre, mari, idee - volume 1
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Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana