Unità 5 L’ETÀ CLASSICA >> Capitolo 10 – Le guerre persiane

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La guerra nel mondo greco

La guerra a fondamento della società
La pratica della guerra era profondamente radicata nella vita delle póleis (come in tutte le comunità antiche), ed era a fondamento della stessa mentalità greca, non solo a Sparta, ma anche ad Atene. Le guerre combattute erano però sottoposte a precisi vincoli e limitazioni, ambientali, politici e culturali. Le operazioni belliche si svolgevano in estate, quando le condizioni meteorologiche le permettevano, e gli eserciti si scontravano su campi di battaglia dai confini delimitati. Talvolta si mirava all’annientamento del nemico, ma uno dei maggiori obiettivi era piuttosto quello di sottrarre risorse e forze giovani da rendere schiavi; inoltre, parte integrante della strategia di guerra era la distruzione delle campagne, finalizzata a mettere in crisi l’approvvigionamento alimentare dei nemici, ma soprattutto il saccheggio brutale e sistematico di campagne e città (con la spartizione del bottino si ripagava l’impegno di soldati e generali oltre che dello Stato).

Le modalità di combattimento
Dal VII secolo a.C. il combattimento oplitico divenne la modalità di confronto bellico prevalente. Anche se sul campo di battaglia erano presenti altri reparti (la cavalleria, impiegata specialmente con funzioni di avanguardia o esplorazione, la fanteria leggera, gli arcieri), gli opliti erano il nerbo dell’esercito e i protagonisti delle battaglie. La falange era una formazione così compatta, coesa e organizzata che proprio da questo traeva la sua forza: l’unico pericolo da cui dovevano guardarsi gli opliti era il panico. Per il resto era la solidarietà a tenere unita la formazione: protetti da metà dello scudo del compagno, fondamentale era la fiducia cieca nella determinazione e nella fermezza dei commilitoni. Fu proprio la compattezza della falange oplitica, forte delle corazze di bronzo, degli scudi ben posizionati e delle lance di frassino a punta di ferro, ad avere la meglio sull’enorme esercito persiano schierato a Maratona, armato solo di archi, frecce e fionde e poco organizzato.

Le battaglie navali
Le navi che componevano la flotta erano chiamate triremi. Diffusasi in buona parte del mondo greco nel corso del VI secolo a.C., questa tipologia di nave divenne predominante nel V secolo, in particolare ad Atene. Il termine (dal latino triremis, mutuato dal greco triéres) indicherebbe proprio i tre ordini di remi, manovrati da tre file di rematori disposte sfalsate, in senso verticale. Rispetto alle navi con un solo ordine di remi, le triremi avevano una spinta maggiore pur mantenendo la stessa lunghezza delle navi precedenti (fra i 30 e i 40 metri).
Nelle battaglie navali, obiettivo principale di una nave era quello di frantumare i remi della nave avversaria, speronarla e affondarla, per questo il suo equipaggio era formato soprattutto da rematori e pochi opliti: i nobili disprezzavano questo tipo di combattimento poiché non potevano mettere in mostra quel valore individuale che solo il confronto corpo a corpo poteva esaltare. Gran parte del successo in una battaglia navale infatti dipendeva dal coraggio del comandante e dall’abilità del pilota, a cui tutto l’equipaggio (circa 170 rematori, oltre a ufficiali, marinai, opliti e fanti, per un totale di circa 200 uomini) affidava la propria sorte. Il pilota stava seduto sul cassero (il castello di poppa) e manovrava una coppia di timoni laterali, due remi più grandi degli altri sospesi obliquamente sullo scafo. I timoni erano piccoli, e perciò manovrabili senza eccessivo sforzo: l’abilità di un pilota non risiedeva nella sua forza fisica, ma nell’intuito e nella freddezza.

Terre, mari, idee - volume 1
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Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana