Unità 4 LE ORIGINI E L’ETÀ ARCAICA >> Capitolo 9 – Sparta e Atene: due modelli contrapposti

2. Atene in età arcaica e le riforme di Solone

Per quasi tutta l’età arcaica la storia di Atene non fu molto diversa da quella di Sparta e delle altre città greche guidate da regimi oligarchici. Ma a partire dalla fine del VII secolo a.C. Atene, il cui peso era stato fino ad allora piuttosto ridotto, iniziò un percorso evolutivo che la portò a darsi un ordinamento statale, costituzionale e giuridico cui molto più tardi verrà attribuito il nome di  democrazia.

Atene e l’Attica

Atene si trova in una stretta pianura, chiamata Mesogea (“terra di mezzo”), delimitata dai rilievi dell’Attica, regione prevalentemente montuosa separata dalla Grecia centrale e dalla Beozia dal massiccio del monte Citerone e dal monte Parnitha. Le risorse idriche dell’area erano anticamente (e sono tuttora) molto scarse: il lago di Maratona si trova a oltre 40 km di distanza da Atene, e il fiume Cefiso – secondo la testimonianza di Strabone – non era altro che un torrente, completamente secco in estate. Il clima inoltre era piuttosto arido. L’Attica era dunque un territorio più difficile della Laconia, ma in compenso era per vocazione aperta al mare, in virtù della sua natura peninsulare. Proprio il mare, nel corso del tempo, avrebbe costituito la grande fortuna di Atene.

Le istituzioni ateniesi in età arcaica

Atene, come Sparta e molte altre póleis, sorse dal sinecismo di piccole comunità più antiche. Dopo un’iniziale fase monarchica, per gran parte dell’età arcaica il potere rimase nelle mani di un certo numero di famiglie dell’aristocrazia terriera, i cui membri erano chiamati eupàtridi (“nati da buoni padri”). Fino al VII secolo a.C., più che uno “Stato”, Atene e l’Attica erano un insieme di proprietà terriere di poche grandi famiglie (gli Alcmeonidi, i Filaidi, i Medontidi, i Licomedi, tra le più importanti), che esercitavano un potere incontrastato sia sui contadini, spesso indebitati e sull’orlo della schiavitù, sia su un ceto di artigiani e commercianti in via di espansione.
Non si sa con certezza come si sia passati dall’antico regime monarchico a un governo oligarchico, però sappiamo che, nel VII secolo a.C., il sistema di governo prevedeva l’elezione di nove magistrati, gli arconti, scelti ogni anno tra gli eupatridi. Uno degli arconti manteneva la denominazione di re (basiléus), ma non le prerogative regali, ricoprendo di fatto il ruolo di sommo sacerdote. L’arconte più importante, posto a capo dell’amministrazione urbana, era l’epònimo (da epí, “sopra”, e ónoma, “nome”), così chiamato perché negli atti ufficiali cittadini il suo nome identificava l’anno in cui governava; l’arconte polemarco (da pólemos, “guerra”) era invece il comandante supremo dell’esercito.
I restanti sei arconti erano detti tesmotèti (cioè “custodi delle leggi”; thésmoi sono infatti le leggi, in particolare quelle ritenute di origine divina).
A fine mandato gli arconti entravano a far parte del consiglio degli anziani, chiamato areòpago dal nome del luogo in cui si riuniva (il colle di Ares, dio della guerra), e vi restavano a vita; questo consiglio aveva funzioni di controllo dell’attività degli arconti e di amministrazione della giustizia. L’areopago fu a lungo il baluardo del potere aristocratico perché, in mancanza di leggi scritte, i suoi membri interpretavano le norme consuetudinarie nell’interesse della nobiltà.
Esisteva infine un’assemblea più ampia, denominata ecclesìa, cui prendevano parte i cittadini maschi e di condizione giuridica libera. L’ecclesia eleggeva gli arconti e poteva approvare o respingere le loro proposte di legge, ma non aveva la facoltà di prendere decisioni definitive.

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I conflitti interni alla città e la legislazione di Dracone

Nel lungo periodo il potere degli aristocratici, basato sul possesso della terra, sullo sfruttamento intensivo dei contadini e sul controllo delle istituzioni, era destinato a incrinarsi. Come a Sparta, la politica aggressiva degli Ateniesi verso le altre città dell’Attica rese necessario aprire le file dell’esercito a ceti diversi dalla nobiltà, purché in grado di acquistare le armi. La riforma oplitica dell’esercito coinvolse così anche Atene, con le conseguenze politiche e sociali che abbiamo già visto a Sparta e in generale nelle póleis di età arcaica: una pressante richiesta di allargamento della cittadinanza, considerata un diritto derivante dal servizio reso alla comunità con l’arruolamento.
A indebolire il potere autocratico della nobiltà ateniese intervennero inoltre altri tre fattori: l’intenso sviluppo dei commerci e della pirateria, favoriti dalla posizione geografica dell’Attica (assenti invece a Sparta); la severità, assai maggiore che altrove, delle norme sui debiti (che portavano facilmente i contadini insolventi alla schiavitù); e infine gli scontri interni alle famiglie aristocratiche, in particolare in merito alla distribuzione della terra.
I primi due fattori agirono in un senso analogo a quello della riforma oplitica, fornendo motivi per una rivendicazione di maggiore equità sociale e, indirettamente, di maggiore peso nel governo della città. I ceti più dinamici volevano ottenere un ruolo attivo nel governo, mentre la miseria delle classi inferiori era causa di malcontento sociale che si traduceva a sua volta nella rivendicazione di diritti politici.
A questi motivi di instabilità si aggiunsero infine i conflitti interni alla nobiltà. La crisi agraria si fece acuta nel VII secolo a.C., causando frequenti dispute nell’ambito delle quali alcune grandi famiglie formarono alleanze con i ceti mercantili contro altri clan nobiliari. In questa situazione, intorno al 636 o al 632 a.C., Cilone, un aristocratico noto per aver vinto i giochi olimpici del 640 a.C., tentò di imporre la tirannide, ma gli Alcmeonidi, con i loro contadini, glielo impedirono, massacrando lui e i suoi sostenitori rifugiatisi nel recinto sacro dell’acropoli (l’atto sacrilego costò alla famiglia degli Alcmeonidi lo sdegno della comunità e l’esilio temporaneo).
Anche a seguito di questo episodio, nel 621 a.C. venne emanato un nuovo codice di leggi, opera, secondo la tradizione, del legislatore Dracone. Proverbiali per la loro durezza (nasce da qui l’aggettivo “draconiano” riferito a un provvedimento di legge particolarmente severo), forse solo in parte reale, esse tutelavano i privilegi nobiliari ma introducevano anche due novità importanti: costituivano le prime leggi scritte nella storia di Atene e, pur non avendo carattere costituzionale, suggerivano l’idea dell’esistenza di uno “Stato” al di sopra delle parti, con piena legittimità di giurisdizione. Entrambe queste novità furono sgradite alla nobiltà e rappresentarono invece un potenziale vantaggio per i ceti popolari cittadini, per i contadini e per i debitori insolventi, che potevano per la prima volta appellarsi a provvedimenti scritti contro l’arbitrio interpretativo dei giudici di origine aristocratica.

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Le riforme di Solone

I conflitti interni alla città non cessarono nemmeno dopo l’emanazione delle leggi di Dracone. Così, in una situazione di grave instabilità e tensione, si decise di affidare il governo a Solone, nelle vesti di “legislatore” e di “pacificatore”. Anche se non abbiamo molte notizie sulla sua figura, ne conosciamo l’opera meglio di quella di altri legislatori, sia perché molte fonti successive ne hanno tramandato la memoria, considerandolo il padre delle istituzioni ateniesi, sia perché egli stesso espose i suoi pensieri e le sue aspirazioni in scritti poetici giunti fino a noi, in modo frammentario, all’interno di testi di altri autori.
Cominciò così, dopo il 594 a.C., il tentativo di Solone di affermare la eunomía, ovvero un ordinamento di leggi condivise che assicurasse la concordia interna alla città. È tuttavia molto discussa la reale paternità di molte riforme tradizionalmente a lui attribuite. Sappiamo per certo che egli introdusse alcune importanti norme in ambito economico e agrario: l’abolizione totale delle ipoteche e dei debiti e della schiavitù per debiti, ottenuta mediante il divieto di emettere prestiti sulla persona. Si trattò di interventi radicali e straordinari, che aiutarono un ampio numero di contadini a tornare in possesso delle terre precedentemente alienate per debiti (la misura aveva infatti valore retroattivo). Pur essendo contrari agli interessi dei nobili, che si vedevano sottratti sia le terre tornate agli originari proprietari, sia gli schiavi liberati, i provvedimenti soloniani non costituirono però una vera e propria riforma agraria. Egli, infatti, non procedette a una complessiva redistribuzione della terra, finendo per deludere tutti i soggetti coinvolti dalle sue misure: i nobili, per i motivi indicati, ma anche i contadini poveri o senza terra, che non videro soddisfatte le loro aspirazioni alla proprietà.

La riforma militare e censitaria

Alcune riforme attribuite a Solone toccarono, tra le altre cose, la monetazione, i pesi e le misure, e aspetti legati al matrimonio e in generale all’ôikos sul piano etico e familiare, ma poco sappiamo a questo proposito; maggiormente attestati sono invece i suoi interventi relativi a una riforma costituzionale e militare, anche se gli storici tendono oggi a ritenere che alcune delle sue novità siano state in realtà introdotte in epoche successive. Questa riforma comportava innanzitutto la divisione della popolazione – escluse le donne, i giovani, gli schiavi e gli stranieri – in quattro classi militari in base al censo, cioè alla ricchezza, calcolata in frumento, prodotta ogni anno dalle terre di ciascun cittadino:

  • i pentacosiomedìmni, proprietari di terreni che producevano più di 500 (pentakósioi) medimni di grano (corrispondenti a circa 50 kg) o 500 metrèni di olio o di vino (un metreno equivaleva a circa 40 litri);
  • i cavalieri, proprietari di terre che producevano almeno 300 medimni, un reddito sufficiente a mantenere un cavallo;
  • gli zeugìti, proprietari di terre che producevano almeno 200 medimni, un reddito sufficiente a mantenere una coppia di buoi;
  • i teti (“debitori”), individui con redditi inferiori a 200 medimni o nullatenenti.

Le prime due classi costituivano la cavalleria dell’esercito cittadino. Gli zeugiti, che grazie al loro reddito erano in grado di acquistare un’armatura pesante, erano invece gli opliti. I teti erano arruolati come fanti dotati di armature leggere oppure venivano impiegati come rematori sulle navi.
Dal punto di vista politico, pentacosiomedimni e cavalieri potevano accedere alle cariche di arconti, e perciò all’areopago; alle classi inferiori era invece concessa solo la partecipazione all’ecclesia, che con Solone acquisì però maggiori poteri, come quello di eleggere gli arconti, prima scelti solo dai membri dell’aristocrazia. All’interno dell’ecclesia, inoltre, venivano ora sorteggiati i giudici dell’elièa, un tribunale introdotto per limitare i privilegi nobiliari sottraendo all’areopago l’esclusività sull’amministrazione della giustizia. I membri delle prime tre classi, infine, potevano essere eletti nel consiglio dei quattrocento (la cui storicità è però messa in discussione dagli studiosi), un organo con funzioni solo consultive che non poteva opporsi alle scelte operate dagli arconti, suddiviso su base territoriale fra le tribù dell’Attica.
Al sistema soloniano venne dato il nome di timocrazia (da timé, “censo”), per sottolineare come il censo fosse diventato la base della partecipazione politica; il processo di allargamento della cittadinanza oltre i confini dell’aristocrazia di nascita fu una conseguenza dello sviluppo economico della comunità e della partecipazione alla guerra di una parte più ampia della popolazione. In realtà, come si è visto, la ricchezza era ancora basata sulla terra perché veniva calcolata in natura, e non in termini monetari: ciò precludeva ai ceti arricchitisi con il commercio o l’artigianato di entrare a far parte delle classi più alte. Tuttavia, al fine di rafforzare le file dell’esercito – obiettivo che aveva determinato l’urgenza delle riforme soloniane – anche a costoro venne concesso di investire i propri patrimoni nell’acquisto di terre, perché potessero diventare proprietari terrieri, condizione richiesta ai non nobili (artigiani, mercanti, stranieri) per l’acquisizione della cittadinanza.

passato&presente

Come il debito è arrivato a governare il mondo

Il debito è vecchio quasi quanto l’uomo

Un antico testo di lingua vedica risalente al X secolo a.C., il Śatapatha Brāhmaṇa, afferma: «Quando nasce, ogni essere umano è nato con un debito dovuto agli dèi, ai santi, ai padri e agli uomini». Questo spiegherebbe perché, già prima dell’affermazione dei primitivi sistemi monetari, in Grecia, nel Vicino Oriente, in Egitto e forse anche in Cina il debito rappresentò uno dei flagelli sociali più devastanti; era così diffuso che si potrebbe persino dire che l’economia antica si reggeva in gran parte sul debito dei poveri.

L’origine del debito: una rottura insanabile

Ma come e perché si contraevano debiti? Si è calcolato che un contadino ateniese fosse costretto a destinare il 65-75% del raccolto a tasse e affitti; la parte restante doveva bastare a mantenere la famiglia e a conservare le sementi per l’anno successivo. L’economia familiare contadina viveva dunque su un equilibrio molto precario: spesso ci si indebitava per acquistare le sementi (come avviene ancora oggi in alcune parti del mondo, per esempio in America Latina e in India), e il prestito ottenuto diventava, con l’aumento della famiglia, sempre più difficile da restituire.
L’origine del debito come forma di scambio economico è l’indizio di una profonda rottura nei rapporti tra gli individui. In un periodo più arcaico, infatti, in molte realtà – dal Vicino Oriente alla stessa Grecia – si faceva affidamento sulla figura del “grande distributore”, che altri non era se non il capofamiglia presso il quale il villaggio accumulava le riserve alimentari: in caso di necessità, ciò che era stato accumulato veniva redistribuito. A un certo punto (ma mancano fonti che ci spieghino quando o perché), però, avvenne una rottura radicale, testimoniata anche dal fatto che nelle lingue indoeuropee i sinonimi di “debito” fanno riferimento ai concetti di “colpa” e “peccato”. Il debito si diffuse, fino a diventare la ragione per schiavizzare altri individui. Il debitore insolvente, infatti, pagava consegnando se stesso e perdendo la libertà, sottomettendosi a un creditore che poteva contare su leggi non scritte e sul monopolio delle armi.

Il debito cambia faccia

Nel corso della storia, il debito non è scomparso dalle società cosiddette avanzate, ma ha cambiato non poco fisionomia e natura, divenendo un fenomeno decisamente più complesso. L’economista Ludwig von Mises, per esempio, intorno al 1930 ne ha messo in luce un importante aspetto paradossale: «Ai tempi di Solone ateniese, delle vecchie leggi agrarie di Roma e del Medioevo, i creditori erano generalmente ricchi e i debitori poveri. Ma in questa era [l’attuale] di prestiti e di obbligazioni, di banche di pegno, di casse di risparmio, di polizza di assicurazione sulla vita, di sussidi dell’assicurazione sociale, sono piuttosto le masse popolari con un reddito modesto i creditori».
Nelle economie avanzate, infatti, i piccoli risparmiatori di norma affidano i loro modesti capitali al credito pubblico, alle banche o alle assicurazioni le quali, grazie ai grandi capitali accumulati, possono prestare soldi, oltre che a piccoli richiedenti, anche a grandi imprese industriali, commerciali o immobiliari e perfino agli Stati. Così i piccoli risparmiatori diventano, indirettamente, creditori, con il rischio di doverne pagare le conseguenze nel caso in cui i grandi debitori non possano onorare i loro debiti causando il fallimento delle banche. Non si tratta in verità di un fenomeno del tutto nuovo, ma è divenuto assai rilevante nella società contemporanea.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

SOLONE LEGISLATORE E POETA

Oltre che legislatore, Solone fu poeta, convinto assertore del valore della parola nell’esercizio della vita politica. Dei suoi scritti ci restano alcuni frammenti, utili a ricostruire qualche aspetto della sua biografia ma soprattutto a interpretare il suo progetto politico e le ragioni che lo motivavano. Nei brani qui proposti, egli rivendica i successi della sua azione riformatrice, svolta per il bene di Atene.



“Questo mi detta il cuore d’insegnare agli Ateniesi: il Malgoverno è fonte di rovina; il Buongoverno è fonte d’ordine e di misura, getta spesso i colpevoli in catene, appiana asprezze, limita la sazietà, cancella la prepotenza, secca in boccio i fiori del male, addrizza le sentenze storte, mitiga la superbia, sopisce la discordia, la bile dei dissidi funesti: allora gli uomini non hanno che saggezza ed equità.
Detti al popolo tanto potere quanto basta, nulla togliendo alla sua dignità né dandogliene di più; e anche a quelli che avevano potenza ed erano ammirati per le loro ricchezze, provvidi che nessuna offesa fosse arrecata. E resistetti protetto da un forte scudo di fronte agli uni e agli altri, e non permisi che nessuno dei due gruppi prevalesse ingiustamente.

E in quest’Atene fondata dai numi quante persone riportai, vendute ingiustamente o giustamente! E gli esuli per la fame, che a furia di vagare, non parlavano più la nostra lingua, e quanti in patria, turpemente schiavi, tremavano agli umori dei padroni li ho fatti tutti liberi. Al potere, io conciliai la forza e la giustizia e compii ciò, secondo le promesse.
Per sancire i diritti di ciascuno scrissi norme per umili e potenti. […] In mezzo a questi io stetti, termine di confine. Se una volta fossi stato d’accordo coi nemici, e poi con gli altri nei loro complotti, di molti la città sarebbe vedova. Mi rinsaldai perciò da tutti i lati: lupo tra molti cani mi aggirai.”


Solone, Fr. 3 D.3; Fr. 5 D.2; fr. 24 D., trad. di F.M. Pontani, Einaudi, Torino 1969


PER FISSARE I CONCETTI
  • Quali sono i buoni risultati che ottiene il Buongoverno secondo Solone?
  • Quali meriti attribuisce Solone alla propria azione di governo?

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana