La riforma amministrativa di Clistene
Clistene viene spesso visto come l’ultima delle figure tradizionali di legislatori che avevano operato nelle póleis di età arcaica con l’obiettivo di disinnescare i conflitti che dilaniavano il tessuto politico e sociale delle comunità, e al tempo stesso come il primo uomo politico dell’Atene classica. La sua azione riformatrice, infatti, portò a un ampliamento della partecipazione dei cittadini alla vita della pólis proprio nel momento in cui, dopo la fine della tirannide dei pisistratidi, Atene sembrava dover tornare al suo passato oligarchico (come aveva sperato Sparta al momento del suo intervento nelle vicende ateniesi).
Eletto arconte nel 508 a.C., Clistene fece approvare una serie di misure per evitare il riprodursi dell’instabilità dei decenni precedenti. Egli si pose l’obiettivo di indebolire
il radicamento territoriale delle grandi famiglie (che avevano costituito le fazioni in lotta) e di «rimescolare il démos» (come disse Aristotele) con una riforma amministrativa dell’Attica.
Fino ad allora, l’Attica era stata divisa in oltre cento “demi” (villaggi rurali o quartieri cittadini), e la sua popolazione raggruppata in quattro tradizionali tribù, ritenute discendenti da nobili capostipiti. Clistene procedette invece a una divisione del territorio in tre zone o “distretti”:
- la città, con i territori pianeggianti attorno ad Atene;
- la costa, cioè il litorale dell’Attica;
- l’entroterra, collinare e montuoso.
Ognuna di queste zone fu ulteriormente suddivisa in 10 ▶ trittìe, per un totale di 30 trittie, che a loro volta inquadravano i vecchi demi (ogni cittadino venne da quel momento identificato dal proprio nome, da quello del padre e da quello del demo di nascita o di residenza).
Questa suddivisione fu collegata a una ripartizione della popolazione in 10 tribù amministrative, secondo un meccanismo che mirava a spezzare qualsiasi solidarietà interna alla tribù basata sulla collocazione geografica, sulla condizione sociale dei suoi membri o sull’appartenenza familiare.
Ogni tribù, infatti, era composta da una trittia della città, da una della costa e da un’altra dell’entroterra: ciò significa che nessuna tribù poteva farsi portatrice di un interesse specifico dettato da ragioni geografiche (le esigenze e gli interessi della costa, per esempio, erano rappresentati in ogni tribù, nella quale convivevano accanto a quelli dell’entroterra e della città). Ma il “rimescolamento” avveniva anche sul piano sociale: poiché la città era abitata in maggioranza dagli aristocratici, la costa da mercanti e artigiani e l’interno dai piccoli proprietari terrieri, la creazione di tribù formate da una trittia per ogni distretto territoriale assicurava la rappresentanza degli interessi di tutti gli strati sociali della pólis all’interno di ogni tribù, senza che una classe sociale potesse prevalere sulle altre. Infine, la ripartizione delle tribù su più distretti, con trittie lontane fra loro, rendeva più difficile l’influenza nella vita politica delle famiglie aristocratiche, che non potevano più far leva sul loro radicamento territoriale. Si trattava, complessivamente, di un’ingegnosa soluzione per costringere tutti a sentirsi parte di una comunità, al di sopra degli interessi particolaristici.