3 - Pisistrato e Clistene: dalla tirannide alla democrazia

Unità 4 LE ORIGINI E L’ETÀ ARCAICA >> Capitolo 9 – Sparta e Atene: due modelli contrapposti

3. Pisistrato e Clistene: dalla tirannide alla democrazia

L’avvento della tirannide, che dal VII secolo a.C. riguardò molte città greche, come abbiamo visto era stato scongiurato ad Atene tra il 636 e il 632 a.C., con l’uccisione di Cilone e dei suoi seguaci. Un nuovo tentativo tirannico, questa volta destinato al successo, tornò però a minacciare il sistema oligarchico nel corso del VI secolo a.C.

La tirannide ad Atene

Nonostante gli sforzi di Solone per porre fine ai contrasti interni alla pólis, la conflittualità tra i clan nobili non cessò nei decenni successivi alla sua uscita di scena. Seguirono anzi anni di conflitti e di anarchia, nel corso dei quali lottarono tra loro tre fazioni aristocratiche, corrispondenti alle tre realtà territoriali delle famiglie che le guidavano: i pediaci, capeggiati da Licurgo, che giudicavano le riforme di Solone troppo radicali; i parali, capitanati da Megacle, della famiglia degli Alcmeonidi, più disponibili nei confronti delle rivendicazioni di mercanti e artigiani per l’accesso alle cariche politiche; i diacri, guidati da Pisistrato, che appoggiava le richieste dei teti di una redistribuzione della terra.
Pisistrato, membro di una famiglia nobile, si era fin da giovane appassionato alla vita politica, mostrando spregiudicatezza e pragmatismo. Nel 561 a.C. fu arconte polemarco nella guerra contro Megara (alla quale Atene strappò il porto di Nisea e, forse, Salamina); forte dei successi bellici – e contro il parere di Solone – egli ottenne di disporre di 300 guardie del corpo armate di mazza, con le quali prese il controllo dello Stato. Il suo primo governo durò sei anni, dopo i quali venne esiliato. Fece ritorno in patria con l’aiuto di Megacle e degli Alcmeonidi, ma dopo qualche anno venne bandito nuovamente. Arricchitosi grazie alle rendite delle miniere d’oro di cui si era impadronito in Macedonia e in Tracia, si servì di un esercito mercenario e del sostegno militare di alcune città greche, come Eretria, per riprendere il potere una seconda volta. Così, nel 546 a.C., accolto con favore da piccoli contadini, artigiani e mercanti – larga parte della popolazione – Pisistrato assunse la carica di tiranno, che mantenne fino alla morte, nel 528-527 a.C.

I provvedimenti di Pisistrato

Durante la sua tirannide, Pisistrato promosse una politica favorevole ai piccoli proprietari terrieri, agli artigiani e ai commercianti, i gruppi sociali che lo avevano appoggiato: sostenne i contadini poveri con il prestito delle sementi, forse finanziate con una tassa imposta ai grandi proprietari; appoggiò la costruzione di navi da carico e da guerra, al fine di favorire i commerci e il ruolo marittimo di Atene. Promosse inoltre la coniazione della prima moneta ateniese, la dracma ( p. 157), divenuta poi simbolo della città, con la figura della dea Atena e della civetta, animale a lei sacro. Atene divenne in questo periodo una potenza regionale, acquisendo possedimenti nell’Egeo e nell’Ellesponto. Pisistrato accompagnò l’espansione territoriale con un’attenta strategia di alleanze, nell’ottica di garantirsi il mantenimento del potere ma anche di far uscire Atene dall’isolamento in cui si trovava. A questo scopo strinse legami con la “Società dei tiranni” (di cui facevano parte Ligdami e Policrate, tiranni rispettivamente di Nasso e Samo), con i nobili della Tessaglia, con la monarchia macedone, con Argo, Corinto e perfino con Sparta.
Al pari di altri tiranni dell’epoca, Pisistrato comprese che per mantenere il consenso era indispensabile curare anche la dimensione ideologica e culturale della sua azione. Fece dunque realizzare importanti opere pubbliche – finanziate con i proventi delle miniere d’oro del Pangeo e della regione di Recelo – come il nuovo tempio dedicato ad Atena, sull’acropoli, e le mura difensive, opere che oltretutto davano lavoro alle classi più povere e attiravano maestranze specializzate e artisti da tutto il mondo greco. Regolamentò inoltre le feste religiose delle Panatenee e introdusse le nuove feste “panatenaiche”, aperte a tutti gli abitanti dell’Attica, con lo scopo di rafforzare il senso di appartenenza alla comunità. Al fine di costruire una “memoria pubblica”, ordinò la trascrizione dei poemi omerici su papiro, chiamando gli aedi di Chio a darne lettura; organizzò infine le prime forme di rappresentazione teatrale, recitazioni di opere poetiche sul passato leggendario degli eroi ateniesi.

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Ippia, Ipparco e la fine della tirannide

Pisistrato ottenne un largo consenso, tanto che, a differenza di molti tiranni a lui contemporanei, eliminati con la violenza, poté mantenere a lungo il potere e morire di morte naturale. Quasi si trattasse di una successione monarchica, il potere passò al figlio Ippia, sostenuto dal fratello Ipparco. Il governo dei due fratelli dovette confrontarsi però con una situazione che stava rapidamente cambiando. L’ascesa economica di Cartagine aveva parzialmente eroso il predominio commerciale greco, mentre all’orizzonte si profilava un’altra grave minaccia, quella dell’aggressivo impero persiano, che nel 514 a.C. aveva conquistato ampie zone della Tracia, impadronendosi di alcune città greche del mar Nero ( Capitolo 10), e aveva costretto il regno macedone a divenire suo vassallo.
È probabile che l’espansione persiana avesse danneggiato i Pisistratidi, a causa della perdita delle miniere che essi possedevano in Tracia. Nel frattempo, comunque, ad Atene cresceva l’opposizione ai tiranni. Nel 514 Ipparco venne ucciso da una congiura aristocratica guidata da Armodio e Aristogitone; ma la caduta definitiva della tirannide avvenne con l’intervento esterno di Sparta, che in questa fase stava attuando una politica di sostegno ai regimi oligarchici delle altre póleis. Nel 511 a.C. l’alcmeonide Clistene e Isagora promossero una rivolta sostenuta dall’esercito spartano, grazie al quale Ippia venne esiliato. Analoga sorte subì però lo stesso Clistene; solo dopo alterne vicende egli riuscì a rientrare in città e, nel 508 a.C., venne eletto arconte.

La riforma amministrativa di Clistene

Clistene viene spesso visto come l’ultima delle figure tradizionali di legislatori che avevano operato nelle póleis di età arcaica con l’obiettivo di disinnescare i conflitti che dilaniavano il tessuto politico e sociale delle comunità, e al tempo stesso come il primo uomo politico dell’Atene classica. La sua azione riformatrice, infatti, portò a un ampliamento della partecipazione dei cittadini alla vita della pólis proprio nel momento in cui, dopo la fine della tirannide dei pisistratidi, Atene sembrava dover tornare al suo passato oligarchico (come aveva sperato Sparta al momento del suo intervento nelle vicende ateniesi).
Eletto arconte nel 508 a.C., Clistene fece approvare una serie di misure per evitare il riprodursi dell’instabilità dei decenni precedenti. Egli si pose l’obiettivo di indebolire il radicamento territoriale delle grandi famiglie (che avevano costituito le fazioni in lotta) e di «rimescolare il démos» (come disse Aristotele) con una riforma amministrativa dell’Attica.
Fino ad allora, l’Attica era stata divisa in oltre cento “demi” (villaggi rurali o quartieri cittadini), e la sua popolazione raggruppata in quattro tradizionali tribù, ritenute discendenti da nobili capostipiti. Clistene procedette invece a una divisione del territorio in tre zone o “distretti”:

  • la città, con i territori pianeggianti attorno ad Atene;
  • la costa, cioè il litorale dell’Attica;
  • l’entroterra, collinare e montuoso.

Ognuna di queste zone fu ulteriormente suddivisa in 10 trittìe, per un totale di 30 trittie, che a loro volta inquadravano i vecchi demi (ogni cittadino venne da quel momento identificato dal proprio nome, da quello del padre e da quello del demo di nascita o di residenza).
Questa suddivisione fu collegata a una ripartizione della popolazione in 10 tribù amministrative, secondo un meccanismo che mirava a spezzare qualsiasi solidarietà interna alla tribù basata sulla collocazione geografica, sulla condizione sociale dei suoi membri o sull’appartenenza familiare.
Ogni tribù, infatti, era composta da una trittia della città, da una della costa e da un’altra dell’entroterra: ciò significa che nessuna tribù poteva farsi portatrice di un interesse specifico dettato da ragioni geografiche (le esigenze e gli interessi della costa, per esempio, erano rappresentati in ogni tribù, nella quale convivevano accanto a quelli dell’entroterra e della città). Ma il “rimescolamento” avveniva anche sul piano sociale: poiché la città era abitata in maggioranza dagli aristocratici, la costa da mercanti e artigiani e l’interno dai piccoli proprietari terrieri, la creazione di tribù formate da una trittia per ogni distretto territoriale assicurava la rappresentanza degli interessi di tutti gli strati sociali della pólis all’interno di ogni tribù, senza che una classe sociale potesse prevalere sulle altre. Infine, la ripartizione delle tribù su più distretti, con trittie lontane fra loro, rendeva più difficile l’influenza nella vita politica delle famiglie aristocratiche, che non potevano più far leva sul loro radicamento territoriale. Si trattava, complessivamente, di un’ingegnosa soluzione per costringere tutti a sentirsi parte di una comunità, al di sopra degli interessi particolaristici.

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Le nuove istituzioni ateniesi

Accanto alla riforma amministrativa, Clistene delineò un nuovo ordinamento istituzionale che avrebbe resistito, sostanzialmente immutato, per tutta l’età classica. Per garantire l’imparzialità delle istituzioni, affidò il compito di proporre le leggi al consiglio dei 500, o bulè (da boúlomai, “decidere”), composto da membri sorteggiati in ognuna delle 10 tribù (nella misura di 50 per tribù, con l’esclusione dei teti). Il sorteggio venne previsto anche per i giudici dell’eliea (il tribunale), anch’essi scelti all’interno di ogni tribù. L’approvazione delle leggi spettava invece all’ecclesia, alla quale partecipavano tutti i cittadini maschi al di sopra dei vent’anni di età, organizzati nelle 10 tribù amministrative.
Il predominio aristocratico venne limitato con la riduzione dei poteri degli arconti, che divennero 10 (in modo che ogni tribù avesse un suo magistrato). Inoltre, per scongiurare l’avvento di nuove tirannidi, all’ecclesia fu data la facoltà di mandare in esilio chi fosse sospettato di mire autocratiche, attraverso una procedura detta ostracismo, utilizzata per la prima volta nel 487 a.C. contro il pisistratide Ipparco di Carmo.
Come già era stato per le riforme di Solone, l’assetto amministrativo era la base non solo dei meccanismi elettorali e assembleari, ma anche dell’arruolamento militare. Ogni tribù era infatti tenuta a fornire un reggimento di opliti e una squadra di cavalieri, mentre il comando dell’esercito venne conferito a 10 strateghi (uno per tribù) eletti annualmente. Con il tempo, gli strateghi sarebbero diventati le più importanti cariche politiche della pólis.

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Un ordinamento democratico?

Il “rimescolamento” ottenuto con la formazione delle nuove tribù, come si è detto, aveva lo scopo di evitare l’insorgere di altri conflitti interni alla pólis, ma anche di allargare la base della partecipazione alla vita della città. Clistene chiamava isonomia ( p. 149) l’ordinamento cui mirava. Le tendenze isonomiche, come abbiamo visto descrivendo i caratteri generali della pólis, erano un elemento proprio di tutte le città greche, pur in misura e secondo modalità anche molto diverse, ma l’ordinamento di Clistene costituì un passo avanti decisivo nella direzione dell’uguaglianza dei cittadini, anche rispetto all’operato di Solone. La cittadinanza, infatti, veniva ora concessa indipendentemente dal possesso di un lotto di terreno, con un suo conseguente ampliamento: l’uguaglianza davanti alla legge prescindeva ormai dalla discendenza (come era stato per quasi tutta l’età arcaica) o dalla ricchezza (come avevano stabilito le riforme di Solone). In assemblea ogni cittadino aveva gli stessi diritti formali, e anche se il cittadino povero e analfabeta non poteva far valere il proprio diritto di parola, aveva pur sempre a sua disposizione l’arma del voto.
L’ordinamento realizzato da Clistene è stato definito, molto più tardi, democrazia. Se con questo termine si vuole intendere il “governo del popolo” o il “governo di tutti”, l’Atene di Clistene (e dell’età classica) rimase assai lontana da tale obiettivo: basti pensare al fatto che dall’allargamento della partecipazione rimanevano escluse le donne, cui non veniva assegnata parità di diritti politici e neppure civili, gli schiavi e gli stranieri, i metèci, che pur risiedendo ad Atene non possedevano la cittadinanza. Malgrado questi evidenti limiti, tuttavia, la riforma di Clistene contribuì in misura decisiva a fare di Atene un laboratorio politico del tutto originale rispetto alle altre città antiche, secondo una direttrice di sviluppo diametralmente opposta a quella che aveva scelto Sparta, chiusa a qualsiasi innovazione del proprio sistema politico e a qualsiasi estensione dell’isonomia al di fuori della stretta minoranza degli spartiati.

Terre, mari, idee - volume 1
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Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana