4 - L’evoluzione delle póleis

Unità 4 LE ORIGINI E L’ETÀ ARCAICA >> Capitolo 8 – Dal medioevo ellenico alla nascita della pólis

Di un’embrionale consapevolezza del legame tra i vari popoli che occupavano il suolo greco vi è comunque traccia fin dal medioevo ellenico. Tale legame era fondato innanzitutto sull’esistenza di una lingua condivisa – pur distinta nelle varianti regionali dei dialetti dorico, ionico-attico, arcadico ed eolico – che contribuì a mantenere un’identità comune. Con la rinascita economica, sociale e politica della Grecia, e soprattutto con la grande colonizzazione del Mediterraneo, questa consapevolezza si rafforzò. L’elemento linguistico rimaneva fondamentale – non è un caso che i Greci definissero tutti gli stranieri barbari – ma non era l’unico: un ruolo importante ebbero appunto le narrazioni mitologiche e letterarie risalenti all’epoca micenea, raccolte nell’Iliade e nell’Odissea, che contribuirono a radicare la consapevolezza delle comuni radici storiche; le usanze quotidiane e le tradizioni popolari, per esempio nelle forme che regolavano le relazioni di parentela, nelle norme sull’eredità dei patrimoni familiari e nelle tipologie delle feste e delle celebrazioni; infine la diffusione di culti religiosi comuni. Questo processo di formazione identitaria, già avanzato in età arcaica, sarebbe poi giunto a compimento dopo le guerre persiane, alle soglie dell’età classica.

4. L’evoluzione delle póleis

Grazie alle colonie la vita economica, istituzionale e culturale della pólis subì un’evoluzione. La diffusione della moneta, come si è detto, fu un aspetto importante del consolidamento della sovranità cittadina (attraverso il monopolio della coniazione), ma favorì anche i commerci e quindi l’ascesa sociale e politica del ceto mercantile, con conseguenze sugli equilibri di potere interni alle città.
L’esperienza delle colonie, inoltre, accelerò anche nella madrepatria le tendenze isonomiche sia nella ripartizione delle ricchezze, sia nello sviluppo delle prime legislazioni scritte (i codici di Locri e Reggio furono un modello per l’Atene del VI secolo a.C.).

Caratteri comuni e diversi modelli di governo

Il panorama delle póleis nel VII e nel VI secolo a.C. era segnato da una grande varietà di ordinamenti. In quest’epoca, infatti, coesistettero regimi aristocratici, oligarchici, timocratici, tirannici, persino monarchici (sebbene con re dotati di poteri molto limitati), e nel VI secolo alcune esperienze (minoritarie) di tipo democratico.
A fronte di questa varietà, però, la pólis continuò a mantenere alcune caratteristiche generali che non solo la legavano alle sue origini, ma che costituivano un comune denominatore al di là delle differenze di regime politico. Isonomia, autonomia e cittadinanza rimanevano i suoi tratti distintivi, così come la presenza di due istituzioni fondamentali, comuni pressoché a tutte le póleis: l’assemblea dei cittadini (ecclesía ad Atene e apélla a Sparta) e il consiglio degli aristocratici (bulè), organismo più ristretto e dall’accesso più selettivo.
Altra caratteristica comune a tutte le póleis – oligarchiche, aristocratiche o democratiche che fossero – era l’assenza di un meccanismo di rappresentanza politica. Non esisteva cioè un sistema di delega della sovranità attraverso l’elezione di rappresentanti: tutti i cittadini che avevano diritto di partecipare all’assemblea (molti o pochi secondo il grado di apertura democratica delle diverse città) dovevano recarvisi di persona. Questo spiega perché un tale sistema politico non si estese mai su aree più ampie (di dimensione “nazionale”); e mette anche in luce come un tale meccanismo istituzionale tendesse a operare una selezione implicita in favore dei ceti privilegiati: spesso infatti i piccoli contadini o gli artigiani non potevano partecipare alle assemblee per la difficoltà di abbandonare campi e botteghe.
Nel definire il diritto di partecipazione alla vita politica, al criterio della proprietà della terra o della nobiltà di nascita si affiancò nel corso del tempo quello della ricchezza accumulata con l’attività lavorativa. Laddove il denaro assunse un’importanza analoga al valore simbolico della discendenza da antenati prestigiosi o della proprietà terriera, gli ordinamenti politici si evolvettero in regimi timocratici aperti alla partecipazione dei cittadini maschi al di sopra di un certo reddito, calcolato appunto non soltanto in termini di patrimonio immobiliare ma anche di ricchezza mobiliare (denaro, merci, animali, mezzi di trasporto).

 >> pagina 163 

Il conflitto permanente: legislatori e tiranni

La nascita della pólis aveva dunque rappresentato il tentativo di risolvere sul piano politico un conflitto di natura economica (quello tra grandi proprietari terrieri, contadini poveri e il resto del popolo). Il senso di appartenenza alla comunità, condiviso da gran parte della popolazione, e gli stessi meccanismi istituzionali di partecipazione mostrano che l’esperimento aveva avuto in molti casi successo ma, allo stesso tempo, la permanente conflittualità di tante città greche non era affatto tramontata.
Proprio perché nella pólis non c’era un sovrano autocratico a comandare, le decisioni dell’assemblea erano frutto di discussioni e compromessi che miravano a trovare un punto di equilibrio tra gli interessi divergenti dei proprietari terrieri, dei mercanti, dei contadini e dei piccoli artigiani. Per evitare che il confronto divenisse lacerante, già nell’VIII secolo a.C. comparvero le figure istituzionali dei legislatori, eletti per un tempo limitato con poteri e funzioni di pacificatori tra le diverse fazioni interne. La loro azione – sfidando gli interessi dell’aristocrazia, dalla quale pure spesso provenivano – mirava a trovare un compromesso tra gli interessi in contrasto e a porre fine all’arbitrio delle norme tradizionali, interpretate, in mancanza di testi scritti, da giudici di rango aristocratico in base agli interessi nobiliari. L’adozione di una legislazione scritta (che abbiamo trovato attestata, come accennato, per la prima volta in due città della Magna Grecia) segnò una svolta cruciale, mitigando la durezza di alcune leggi antiche, operando una semplificazione del linguaggio giuridico e soprattutto rendendo pubblico e controllabile l’insieme delle norme, in modo da sottrarle all’arbitrio interpretativo dei nobili.
Nonostante ciò, tuttavia, i conflitti interni alle città proseguirono, in alcuni casi sotto forma di vere e proprie guerre civili combattute con tradimenti, condanne all’esilio, assassinii, spesso anche tra i membri dello stesso ceto sociale, che condividevano legami di parentela.
Come risposta a questa conflittualità, nel corso del VII secolo a.C. in molte città si affermò la tirannide come forma di governo. Individui particolarmente influenti nella propria comunità, che avevano ricoperto cariche istituzionali o che avevano svolto la funzione di pacificatori dei contrasti, invece di cedere il potere alla conclusione del loro mandato cominciarono a governare esautorando l’assemblea e il consiglio degli aristocratici. I tiranni erano spesso essi stessi aristocratici, ma ponendosi in contrasto con il consiglio dei nobili, e giungendo talora al potere con l’appoggio o la complicità dei mercanti, assumevano di fatto una posizione antinobiliare. Più controverso fu invece il rapporto dei tiranni con il popolo, in favore del quale, in alcuni casi, promossero misure redistributive (specialmente attraverso la promozione di opere pubbliche, che davano lavoro alla popolazione urbana), ma non riforme sociali di ampio respiro.
I tiranni si imposero soprattutto nelle zone più progredite civilmente ed economicamente, e svincolati com’erano da condizionamenti troppo rigidi, contribuirono in misura determinante a fare delle póleis che governavano, talvolta per lunghi decenni, vere potenze locali o quantomeno in alcuni casi a ristabilire una dialettica più equilibrata tra aristocratici e classi emergenti, rendendo possibili sviluppi democratici delle istituzioni. Il ricordo positivo dell’azione politica dei tiranni durò a lungo nelle città: come i Dinomenidi Gelone e Gerone, che fecero di Siracusa la massima città dell’Occidente; sempre a Siracusa, ricordiamo il tiranno Agatocle.
La tirannide tuttavia non fu esente da degenerazioni, laddove approfittando dei privilegi e dell’autorità i tiranni, soprattutto quelli di seconda e terza generazione, cioè succeduti ai padri in condizioni politiche e sociali ormai profondamente mutate, imposero un potere arbitrario, svincolato da ogni controllo (e che spesso ebbe termine soltanto con il loro assassinio).

 >> pagina 164 

5. Religione e cultura nel mondo greco arcaico

Nell’antichità, la religione aveva un ruolo fondamentale: contribuiva a rinsaldare i rapporti sociali, costituiva un freno alla violenza privata, garantiva la legittimità del potere, aiutava gli esseri umani a esorcizzare la paura dei fenomeni naturali. Per i Greci, oltre a tutti questi motivi, la religione fu importante anche in quanto fattore di formazione dell’identità collettiva.

La religione degli antichi Greci

La religione greca era politeistica, e a un certo numero di culti panellenici si affiancava una grande quantità di culti particolaristici, propri delle singole comunità. Essa risentiva inoltre delle più svariate influenze, avendo accolto suggestioni dalla Mesopotamia, dall’Egitto e perfino dall’India (da cui mutuò alcuni nomi di divinità, sebbene con caratteri e significati talvolta diversi). Per queste ragioni, il  pántheon greco fu sempre particolarmente affollato e mutevole nel tempo.
Alcuni dèi, su tradizione indoeuropea, personificavano le forze della natura; altri culti, come quelli delle divinità femminili legate alla fertilità della terra, provenivano da consuetudini delle popolazioni paleolitiche. Vi era inoltre il culto degli eroi (legati alla tradizione delle singole comunità, ma talvolta noti a tutti i Greci, come nel caso di Eracle), uomini che per doti particolari erano entrati in comunicazione con il mondo degli dèi, assumendone alcune prerogative.
Ogni divinità presiedeva a un particolare aspetto dell’esistenza umana o della vita quotidiana. Di conseguenza, la pratica religiosa dei Greci era scandita da frequenti rituali volti a ottenere l’aiuto degli dèi nelle più svariate occasioni: la nascita o la morte di un membro della famiglia, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta dei giovani, la necessità di purificare una casa o un’intera comunità ritenuta colpita dalla sventura (per esempio a causa di un’epidemia). La gamma dei rituali andava dalla preghiera individuale svolta all’interno delle abitazioni private, alla libagione (l’offerta di vino, latte o acqua e miele, versati a terra da una coppa), al sacrificio di primizie dei campi, alimenti o unguenti e profumi bruciati su un altare, o di animali, anch’essi bruciati oppure uccisi e poi cotti e consumati dalla comunità dei cittadini (con l’esclusione di giovani, donne, schiavi e stranieri, che non godevano del diritto di cittadinanza).

• SOTTO LA LENTE • RELIGIONI

L’affollato olimpo greco

Le divinità greche erano raffigurate prevalentemente con sembianze antropomorfe e descritte con caratteri, vizi e virtù del tutto simili a quelli degli esseri umani: erano facili all’ira, gioivano o soffrivano per amore, coltivavano affetti e amicizie, erano vittime di gelosie e antipatie reciproche. Si differenziavano dagli umani in quanto immortali (ma non eterni: avevano cioè avuto una nascita, però non potevano morire), ma erano anch’essi sottomessi ai capricci del destino, che i Greci rappresentavano come un dio o una dea ciechi, figli del Caos e della Notte, cui perfino Zeus – il padre degli dèi – doveva sottomettersi.
Secondo la tradizione, la sede degli dèi era la cima del monte Olimpo, forse perché era la vetta più alta della penisola greca ed era spesso avvolta da nubi che ne accrescevano il fascino e il mistero. Qui risiedevano le divinità comuni a tutti i Greci (dodici, secondo un canone fissato molto tempo dopo l’età arcaica, nel IV secolo a.C.): Zeus, padre di tutti gli dèi e dio del cielo; Hera, sua consorte e protettrice della famiglia; Apollo, dio del sole e protettore della danza, della musica e della poesia; Afrodite, dea della bellezza e dell’amore; Ares, della guerra; Atena, della sapienza e dell’astuzia; Poseidone, del mare; Demetra, dell’agricoltura e delle piante; Dioniso, del vino e della natura; Artemide, della caccia e dei boschi; Ermes, protettore dei viandanti e dei mercanti, ma anche di ladri e truffatori; Efesto, fabbro degli dèi e dio del fuoco e della metallurgia. Questa lista si arricchiva in ogni città di culti specifici, oppure veniva modificata con la sostituzione di alcuni dèi e l’introduzione di figure diverse (per esempio, Eros, dio dell’amore, o Ade, dio dell’oltretomba).

 >> pagina 165 

Templi e santuari

Mentre in età micenea i luoghi di culto si trovavano all’interno del palazzo reale, nella pólis i santuari – spazi sacri delimitati da un recinto – erano luoghi accessibili a tutti i cittadini. Il santuario poteva essere costituito da un semplice terreno recintato e dotato di un altare sul quale venivano compiuti i sacrifici, oppure contenere piccoli edifici, detti “tesori”, che raccoglievano le offerte dedicate alle divinità, gli arredi sacri e gli oggetti utilizzati nelle processioni rituali. Nel corso del tempo, poi, i santuari cominciarono a ospitare veri e propri templi ( Testimonianze della storia, p. 166) contenenti una “cella” dove si trovava la statua della divinità cui era dedicato l’edificio. Il tempio greco non era un luogo di preghiera, ma la dimora della divinità, e al suo interno potevano entrare solo i sacerdoti o gli iniziati.
In tutte le città era presente un’area sacra dedicata al culto, in genere nel punto più alto del territorio, in cui si veneravano specifiche divinità, protettrici della comunità fin da tempi antichissimi. La celebrazione dei riti loro dedicati era affidata alle autorità cittadine. Non esisteva infatti, in Grecia, un clero o una casta sacerdotale simile a quella delle civiltà del Vicino Oriente: le pratiche di culto erano affidate a cittadini appositamente delegati allo scopo (talvolta anche alle donne, unico caso di partecipazione femminile ad aspetti della vita pubblica) o alle cariche politiche più elevate, che svolgevano questi compiti per un periodo limitato.
Esistevano anche santuari panellenici, dedicati alle divinità venerate da tutti i Greci, e in quanto tali importanti per la formazione di un’identità culturale comune, superiore ai particolarismi che pure costituivano la caratteristica di fondo della civiltà greca. I santuari panellenici più importanti, gli unici nei quali operavano veri e propri sacerdoti e sacerdotesse stabili, erano quelli di Delfi e dell’isola di Delo, sedi del culto di Apollo, e di Olimpia, in cui si venerava Zeus. Nel santuario di Delfi risiedeva la Pizia, una sacerdotessa che dava oracoli, cioè responsi su questioni riguardanti eventi futuri. Le autorità cittadine che la consultavano erano tenute a conformarsi ai suoi responsi, o piuttosto a interpretarli, considerata la loro natura spesso volutamente ambigua (fatto che mostra come i Greci fossero ben consapevoli di essere gli artefici del proprio destino, al di là dell’intervento degli dèi). Il responso oracolare non era l’unica forma di divinazione praticata dai Greci, che interrogavano gli dèi anche attraverso l’osservazione del volo degli uccelli o l’esame delle viscere degli animali, ma era comunque la più affermata e importante.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana