2 - La nascita della pólis

Unità 4 LE ORIGINI E L’ETÀ ARCAICA >> Capitolo 8 – Dal medioevo ellenico alla nascita della pólis

• SOTTO LA LENTE • LETTERATURA

I poemi omerici come fonte storica

L’Iliade e l’Odissea – attribuiti alla figura mitica del cantore cieco Omero – sono i due poemi epici posti a fondamento, tra l’età arcaica e quella classica, della cultura greca. Il primo narra le ultime drammatiche settimane della guerra tra Achei e Troiani, culminata con la morte e la sepoltura dell’eroe troiano Ettore, mentre il secondo racconta il tormentato viaggio di ritorno di Ulisse (Odisseo, in greco) all’isola di Itaca dopo la conclusione del conflitto. Sebbene il focus narrativo sia assai ristretto, i due poemi ci restituiscono, attraverso dialoghi e flashback, il panorama avvincente di un’intera epoca.
Ma di quale epoca si parla? Sarebbe un errore pensare che le vicende narrate siano vere (o anche solo verosimili), e soprattutto che il contesto sociale e istituzionale che emerge dai poemi sia quello che essi dichiarano di voler descrivere: la cosiddetta “età degli eroi”, corrispondente all’età del bronzo e dunque al periodo miceneo della storia greca. Dai poemi emerge una stratificazione cronologica molto più complessa, che ha portato gli studiosi a concludere che i due poemi siano il risultato di una lunghissima tradizione orale: sfruttando i formulari tradizionali dei canti trasmessi oralmente i poeti aggiungevano, interpolavano, integravano, fino a quando i testi vennero scritti e fissati così in una forma canonica. Questo processo di trascrizione avvenne, secondo alcuni storici, nell’VIII secolo (tra il 750 e il 700 a.C.); più che delle vicende dell’età del bronzo, quindi essi ci parlano dell’età del ferro, più vicina all’epoca della loro “cristallizzazione” in una forma scritta stabile. Ecco perché Omero rappresenta ancora oggi la principale fonte di conoscenza del medioevo ellenico.
Numerosi indizi conducono a questa ipotesi. Per esempio, se le armi sono prevalentemente in bronzo, non mancano riferimenti al ferro, quando l’eroe acheo Achille offre, tra i premi per i giochi funebri in onore dell’amico Patroclo, un disco di ferro a chi riuscirà a lanciarlo più lontano di tutti (Iliade, XXIII, 826-835); le strutture sociali descritte sono assai diverse da quelle degli Achei, presso i quali il potere dei re non era ancora limitato dai nobili; infine, si parla già dell’usanza di incinerare i defunti, mentre i Micenei praticavano la sepoltura dei cadaveri.

2. La nascita della pólis

Nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente l’età del ferro fu un’epoca di vivaci fermenti culturali. Ogni area sperimentò sviluppi politici e istituzionali diversi: in alcune realtà, come nell’impero neoassiro, si impose lo Stato “nazionale” di potenza (con Ashurnasirpal, Tiglatpileser III e poi Sargon II); analoghe tendenze alla centralizzazione furono espresse dai Medi (soprattutto con Ciassare, 625-585 a.C.). In Grecia, invece, si formò una struttura politica e sociale del tutto originale e dalla portata rivoluzionaria: una forma di governo policentrica, la pólis – termine greco traducibile con “città-Stato” –, all’interno della quale nacquero le prime forme storiche di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.

La pólis: autonomia, uguaglianza, cittadinanza

La scarsità di fonti sulle origini del fenomeno urbano in Grecia e la grande varietà di ordinamenti e forme istituzionali che le città greche avrebbero assunto nel corso della loro storia rendono difficile offrire una definizione univoca di pólis. È tuttavia possibile delineare alcune caratteristiche generali che accomunarono le molteplici esperienze cittadine dalle origini fino all’età classica.
La pólis era anzitutto una città in quanto luogo fisico caratterizzato dalla presenza di strutture abitative e difensive e di edifici privati e pubblici (inizialmente solo religiosi) nei quali si svolgeva la vita della comunità. Nella mentalità greca, però, questa idea puramente “fisica” della città era secondaria rispetto alla pólis come insieme dei suoi abitanti, come collettività di persone che condividevano non solo il luogo di residenza o di lavoro, ma anche i culti religiosi, le tradizioni e, soprattutto, la consapevolezza di appartenere a una comunità autonoma, cioè indipendente da un potere superiore.
(quella di “Ateniesi” e “Spartani” era una concezione più importante che non semplicemente “Atene” e “Sparta”).
L’  autonomia era la principale caratteristica della pólis, che spiega anche il senso dell’espressione “città-Stato”: lungo tutto il corso della storia greca, le póleis rivendicarono sempre la propria indipendenza, rifiutando di stringere alleanze che limitassero la propria sovranità persino nei momenti di pericolo (con alcune significative eccezioni, come vedremo trattando delle guerre persiane), e anzi erano sempre pronte a combattere tra loro per difendere il territorio o la propria sfera di influenza commerciale. A dispetto di un’unità culturale e religiosa affermatasi già in epoca arcaica, infatti, il mondo greco non espresse mai un’unità politica e territoriale superiore alla città: insomma non esistette mai uno Stato greco, probabilmente a causa della «inconsistenza politica e assoluta mancanza di reciproci rapporti», come affermò lo storico Tucidide.
Accanto all’autonomia, la seconda fondamentale caratteristica della pólis era l’uguaglianza dei suoi membri di fronte alla legge, che i Greci definivano  isonomia. In verità l’uguaglianza giuridica nelle póleis riguardava una fascia assai limitata della popolazione urbana: coloro che facevano parte di questa minoranza rivendicavano il diritto di considerarsi dei pari, degli uguali, e contrastavano duramente le spinte antiegualitarie all’interno del gruppo.
In terzo luogo, e strettamente legata alla questione dell’uguaglianza, vi era quella della  cittadinanza: nelle póleis greche le decisioni di rilevanza collettiva non venivano prese da un solo individuo – un re, un capo religioso – o da una ristretta cerchia di privilegiati, ma da assemblee (più o meno ampie) di cittadini, nelle quali tutti i partecipanti potevano esprimere la propria opinione e avere diritto di voto. In alcuni casi, per esempio ad Atene, anche le cariche di governo potevano essere ricoperte da tutti i cittadini, a rotazione e per un periodo limitato; ma anche dove ciò non avveniva, tutti avevano comunque diritto a partecipare alle assemblee, che detenevano la sovranità e rappresentavano la fonte di legittimazione per l’esercizio del potere.
Il concetto di cittadinanza veniva usato dai Greci anche per sottolineare la profonda differenza tra i popoli civili (l’insieme dei cittadini) e i barbari (sudditi di un sovrano dotato di poteri illimitati), e se si riflette sulle caratteristiche delle grandi entità statali del tempo, a cominciare dai regni del Vicino Oriente, la differenza e il carattere di novità della pólis greca appaiono molto evidenti. Sarebbe però un errore assimilarne la natura alle esperienze politiche e costituzionali democratiche moderne: i concetti di isonomia e di cittadinanza furono una novità rivoluzionaria e dirompente nel mondo antico, ma rimasero molto lontani dalle idee moderne e contemporanee di uguaglianza e partecipazione alla vita politica.
Isonomia e cittadinanza non riguardavano, come abbiamo accennato, tutti gli abitanti della pólis, ma una minoranza di persone di sesso maschile e di condizione libera. Ciò significa che rimanevano esclusi da ogni forma di partecipazione politica le donne, gli schiavi e gli stranieri (chiamati meteci), ossia la grande maggioranza della popolazione. Questi limiti erano comuni alle diverse póleis, dove l’ampliamento della partecipazione non arrivò mai a coinvolgere la maggioranza della popolazione, sebbene, come vedremo, non mancarono tentativi di sviluppo più democratico delle istituzioni cittadine.

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La ripresa del fenomeno urbano: la fine del medioevo ellenico

Il contesto in cui nacque la pólis è quello della ripresa economica che portò la Grecia a superare la fase recessiva del medioevo ellenico, all’incirca tra la fine del IX e tutto l’VIII secolo a.C. I progressi dell’agricoltura, dovuti a miglioramenti tecnici e organizzativi (terrazzamenti, bonifiche, diboscamenti, dissodamenti e messa a coltura di terre marginali), avevano consentito un cospicuo incremento demografico, ma allo stesso tempo avevano acuito i conflitti sociali: tra grandi e piccoli proprietari terrieri, a causa dell’ineguale distribuzione della terra; tra i grandi proprietari terrieri e il resto del popolo – pastori, artigiani, mercanti, marinai – esclusi dal governo della comunità; tra le stesse grandi famiglie di proprietari terrieri che difendevano interessi di parte.
Una prima spinta alla ripresa del fenomeno urbano, drasticamente regredito dopo il crollo dei palazzi micenei, fu la necessità, sentita dalle famiglie aristocratiche, di abbandonare le residenze disperse sul territorio e concentrarsi in un luogo (un fenomeno che i Greci definivano “sinecismo”), in modo da poter creare strutture amministrative e militari utili a un maggiore controllo del territorio e della popolazione. L’insediamento abitativo concentrato rispondeva inoltre alle nuove esigenze economiche conseguenti alla ripresa agricola e demografica: la città, il cui territorio circostante era per lo più caratterizzato da terre destinate alla produzione agricola, attraverso il mercato e le botteghe fungeva da luogo di raccolta e scambio di beni e servizi, ed era sede ideale per la produzione artigianale.
Infine la città assunse anche la funzione di centro religioso e culturale, nel quale si svolgevano i riti, le feste, le pratiche del culto e le manifestazioni culturali. Questa funzione era lo sviluppo di una componente originaria: infatti, molto spesso (come documentano, per esempio, i ritrovamenti archeologici a Corinto e Atene) i primi insediamenti urbani erano legati a piccoli santuari votivi, nei quali si tenevano riti religiosi a cui tutta la comunità partecipava. Presso questi santuari, in origine, veniva anche amministrata la giustizia, spesso a opera di “sacerdoti” votati al culto religioso e quindi ritenuti meno coinvolti nei conflitti sociali e politici.
Le città divennero così il centro vitale di territori relativamente ricchi e prosperi che si integravano fortemente con la città. Non è un caso che lo sviluppo delle città sia stato meno fiorente (o quasi del tutto assente) in realtà periferiche e dai caratteri ambientali sfavorevoli, come la Macedonia, la Tessaglia o l’Epiro, in cui le condizioni economiche rimasero simili a quelle del medioevo ellenico anche durante l’età arcaica, con prevalenza dell’allevamento e della pastorizia.

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Altre forme di unione statale

In queste aree meno sviluppate presero forma realtà statali diverse dalla pólis: in Grecia infatti erano conosciute anche altre forme di governo del territorio, frutto di differenti tipi di associazione o alleanza.
Si ricorreva talvolta all’anfizionia, cioè all’“unione sacra” tra città che avevano in comune il culto di un medesimo dio e che erano collocate nei pressi di uno specifico santuario dedicato a tale divinità (per esempio l’anfizionia delfica, costituitasi tra gli Ioni emigrati in Asia minore che si raccoglievano attorno al santuario di Poseidone, detto Panionion, o quella tra Efeso e Mileto, nella penisola di Micale): i membri di queste associazioni si impegnavano a collaborare nell’amministrazione e nella difesa del santuario.
Frequente era anche il ricorso alla simmachia, cioè a un’alleanza militare in cui tutti gli aderenti avevano gli stessi diritti: durava il tempo necessario a risolvere il problema (militare) per cui era stata composta e poi si scioglieva. In alcuni casi, in particolare, le città si riunivano intorno a una potenza egemone (come quella del Peloponneso, che era indicata con l’espressione “i Lacedemoni e i loro alleati”). L’esempio più noto è l’alleanza contro Troia raccontata nell’Iliade, nella quale ha un ruolo egemonico il re di Micene, Agamennone, poiché è la città che mette a disposizione ben cento navi.
Altre forme associative erano chiamate “Stato comune” dai Greci, che ricorrevano ai termini sympolitéia o anche koinón (“ciò che è comune”); gli storici moderni le chiamano di preferenza  Stato federale o ▶ éthnos, poiché gli stessi Greci le indicavano con il nome del gruppo etnico maggioritario (Beoti, Focesi, Locresi ecc.). Si trattava per lo più di un insieme di villaggi uniti da deboli legami politici e istituzionali e da una discendenza comune e con forme di governo diverse. Gli abitanti di tali Stati avevano, per così dire, una doppia cittadinanza, poiché erano cittadini del villaggio in cui vivevano, ma anche dell’ éthnos cui appartenevano, e tale duplicità era evidente anche nei nomi: l’espressione “Giasone, cittadino della Tessaglia, di Fere”, per esempio, indicava che Giasone apparteneva al gruppo etnico dei Tessali e viveva nella città di Fere. Gli “Stati federali” entreranno progressivamente in crisi con il contemporaneo sviluppo delle póleis.

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L’organizzazione degli spazi

Il termine pólis indicava in origine, fin dai tempi di Micene, la rocca della città, in cui erano situati il palazzo del re e gli edifici religiosi. In genere, per esigenze di difesa, questi edifici erano posti su un’altura, detta acropoli (da ákros, “alto”). La parte bassa della città, in cui risiedeva la maggior parte della popolazione, era definita ásty. Con il tempo, però, il termine pólis passò a indicare tutta la città.
Per ragioni economiche (il sostentamento alimentare della popolazione cittadina) e sociali (i primi artefici dello sviluppo urbano, come si è visto, furono proprietari terrieri), la città e il territorio circostante (chòra) erano strettamente legati tra loro. In altre parole, la pólis non era un insediamento esclusivamente urbano, bensì un’unità di città e campagna, estesa talvolta su aree di considerevoli dimensioni. Da un certo momento in poi, nel corso dell’VIII secolo a.C., ogni pólis cominciò a marcare, con piccoli santuari rurali dedicati a una divinità, un confine tra la propria terra e quella della pólis vicina. Spesso i confini erano segnati da terre marginali e poco produttive, in genere coincidevano con i rilievi montuosi.
Anche lo spazio propriamente urbano della pólis assunse una configurazione particolare (pur nella varietà di sviluppi e di forme attestate). Dapprima le necropoli furono spostate fuori dalle mura, creando così una netta separazione tra il luogo dedicato ai morti e gli spazi riservati ai vivi. Successivamente i quartieri dispersi, per necessità di difesa, vennero uniti in una conurbazione, e gli spazi aperti tra l’uno e l’altro diventarono luoghi simili alle piazze (plateía), attorno alle quali cominciò a ruotare la vita della città: qui si svolgevano il mercato, gli spettacoli teatrali, i riti religiosi, oltre a momenti di discussione e di socialità. La principale piazza della pólis, il suo cuore pulsante, era l’agorà (da aghéiro, “raccogliere”, “radunare”), appunto luogo di incontro, di mercato, di celebrazione del culto religioso e, con lo sviluppo delle caratteristiche istituzionali proprie della pólis, di partecipazione dei cittadini alle assemblee.

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Le origini dello sviluppo istituzionale della pólis

La ripresa del fenomeno cittadino e la sua particolare fisionomia urbanistica non spiegano però le forme istituzionali e politiche che le città-Stato assunsero nella Grecia dell’VIII secolo. I motivi per i quali si avviò la stupefacente evoluzione culturale e politica, attraverso cui la pólis si diede regole proprie di governo e il diritto di scegliere i governanti in autonomia, introducendo ordinamenti politici del tutto originali, sono molto più complessi.
Si trattò di un processo lento, conflittuale e non privo di contraddizioni, il cui motore fu anzitutto il conflitto sociale. Il tentativo delle famiglie nobili di esercitare un maggiore controllo sul territorio e contenere le dinamiche sociali che mettevano in discussione il loro potere – all’origine della ripresa del fenomeno urbano – trasferì i motivi di conflitto dalle campagne ai centri cittadini. Era membro a pieno diritto della città, infatti, soltanto chi possedeva un terreno nell’area rurale, e ciò replicò il conflitto fra proprietari e contadini senza terra all’interno dello spazio cittadino. Inoltre, alla pressione sociale per una distribuzione più equa della terra si aggiunsero le rivendicazioni proprie del popolo urbano (artigiani e commercianti), anch’esso, come i contadini poveri, escluso dall’esercizio del potere. In misura più o meno ampia, le aristocrazie che avevano dominato la società nei “secoli bui” dovettero dunque fare delle concessioni a questa pressione per la partecipazione proveniente “dal basso”: nacquero così le prime forme di cittadinanza e di deliberazione assembleare.

L’organizzazione militare

L’altro grande fenomeno che portò allo sviluppo dei nuovi ordinamenti politici riguardò la sfera militare. Le crescenti necessità di difesa del territorio dagli appetiti di conquista delle città vicine non potevano più essere garantite solo dall’aristocrazia terriera: era ormai necessario coinvolgere altri ceti sociali nelle funzioni militari. D’altra parte, i piccoli contadini proprietari, ma anche gli artigiani e i mercanti che si erano arricchiti e avevano comprato case e terre, erano ormai in grado di dotarsi dell’equipaggiamento necessario a combattere e di sottoporsi all’addestramento militare. Ebbe così fine il monopolio nobiliare delle armi, con la conseguente perdita progressiva di peso politico dell’aristocrazia.
I nuovi soldati, chiamati opliti (da hóplon, “armatura”, “scudo”), portarono nelle istituzioni militari una mentalità diversa da quella di tradizione aristocratica: essi non fondavano il loro valore sull’eroismo individuale, ma sulla forza del numero, sull’organizzazione, sulla fiducia reciproca. Erano dotati di un’armatura pesante, di una lancia e di uno scudo – metà del quale serviva a difendere se stessi, e metà a proteggere il compagno a fianco – e avanzavano in una formazione compatta e serrata detta falange, che rivoluzionò il modo di combattere, determinando il superamento del duello individuale tipico dell’epica omerica. Era inevitabile che questi uomini disposti a sacrificare la propria vita e abituati a servire la collettività non tollerassero più la supremazia e le sopraffazioni dei nobili, e chiedessero quindi di partecipare attivamente alla gestione della città-Stato.

Gli opliti delle póleis greche

Negli eserciti delle città, gli opliti costituivano la fanteria pesante; erano armati di lancia e difesi da elmi, corazze e grandi scudi.
In seguito alle trasformazioni sociali che allargarono a strati più ampi della popolazione l’arruolamento nell’esercito, si affermò anche la fanteria leggera, i cosiddetti “peltasti”, dotata di armi meno costose (lo scudo di legno, detto “pelte”, e il giavellotto, ma non indossavano armatura né elmo) e dunque alla portata dei cittadini meno abbienti.
La coordinazione dei movimenti degli opliti sui campi di battaglia era guidata dal ritmo scandito dai suonatori di flauti e di tamburi, che accompagnavano le falangi in combattimento. Oltre a infondere coraggio agli opliti, tramite questi strumenti musicali si impartivano gli ordini dei comandanti, attraverso un codice sonoro che solo i soldati conoscevano. In questo modo era più facile sorprendere i nemici con attacchi o ritirate strategiche.

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3. L’espansione greca nel Mediterraneo

Nella difficoltà di ricostruire le prime fasi della storia della pólis, un dato ci viene in aiuto: la fondazione di molte colonie in quasi tutto il mondo mediterraneo nel corso dell’ VIII secolo a.C. Anche se non sappiamo con esattezza a quando risalgono i primi sviluppi delle póleis sul suolo greco, sappiamo che nell’VIII secolo i caratteri distintivi della città-Stato erano almeno in parte già affermati, tanto da poter essere esportati in terre anche molto lontane, e che quindi la loro genesi doveva avere avuto luogo in precedenza, negli ultimi secoli del medioevo ellenico. A sua volta, però, la fondazione di nuove città lontane dalla madrepatria (come furono dapprima le città dell’Asia minore, Mileto, Alicarnasso, Efeso, Smirne ecc., a cui si aggiungeranno le città della Sicilia) ebbe conseguenze importanti e persino decisive sull’evoluzione della vita comunitaria delle póleis in Grecia: si incrementarono gli scambi commerciali, con nuove possibilità di arricchirsi, e lo spirito egualitario tipico delle genti delle colonie ebbe una grande influenza sui cittadini e sulle istituzioni della madrepatria.
Per indicare la “colonia” i Greci usavano il termine apoikía, che letteralmente significa “lontano da casa” e suggerisce l’idea di “spostamento”, più che di “migrazione”. La fondazione di una colonia implicava una scelta strategica della pólis e quindi un’organizzazione articolata e anche costosa (allestimento delle navi, approvvigionamento, raccolta di sementi ecc.). Un costo particolare era richiesto dall’armamento, poiché la conquista e l’insediamento sul nuovo territorio erano spesso accompagnati da battaglie e scontri con le popolazioni indigene. Talvolta i Greci, sconfitti, dovevano rinunciare alla conquista e rivolgersi altrove.
La spedizione per fondare una colonia prendeva il via, in genere, dopo la consultazione di un oracolo, cioè dopo un responso sacerdotale che approvava l’iniziativa. Di natura religiosa era anche il ruolo e lo status acquisito dal fondatore (ecista), nonché i legami che la nuova città manteneva con quella di origine (le stesse divinità, gli stessi riti). Tuttavia, pur mantenendo un legame con la madrepatria, le colonie greche furono fin da subito molto autonome dal punto di vista politico ed economico: le nuove città, insomma, diventavano a tutti gli effetti delle póleis indipendenti, orgogliose della propria autonomia. Rispetto alla città d’origine, infatti, i cittadini delle colonie erano più liberi, meno dipendenti da un potere consolidato e meno vincolati alle tradizioni e ai luoghi comuni, più sciolti dal controllo familiare e dalle pressioni di gruppo. Non è un caso che proprio nelle colonie si sviluppò un pensiero scientifico e filosofico assai meno legato al sapere tradizionale.

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La “grande colonizzazione”

Come si è visto, nel corso della cosiddetta “prima colonizzazione” (all’incirca tra il XII e il X secolo a.C.;  p. 145), Greci di diversi gruppi etnici si erano insediati nelle isole e lungo le coste dell’Asia minore, regolando con specifici accordi le relazioni con le città di origine, dette metropoli (dal greco méter, “madre”, e pólis) o madrepatrie. Tra l’VIII e il VI secolo a.C. ebbe luogo una seconda ondata di migrazioni, detta “grande colonizzazione” (o anche “seconda colonizzazione”), in parte coincidente con l’espansione fenicia (iniziata nell’800 a.C.) e a questa simile per alcuni aspetti.
Alla ricerca di risorse naturali e materie prime, i Greci estesero i loro interessi commerciali dapprima verso la costa anatolica, poi verso il mar Nero e infine verso l’Italia meridionale. In una sorta di “concorrenza solidale” con i Fenici (i mercanti greci e fenici evitavano di approdare negli stessi luoghi, anche se, per lunghi tratti, seguivano le stesse rotte marittime), installarono magazzini ed empori in alcuni luoghi strategici: a Cirene, sulle coste libiche, a Heracleion e Naucrati, sul Nilo, forse anche ad Al-Mina in Siria. I Greci si insediarono inoltre a Pithecusa, l’isola di Ischia.
Se la prima fase della colonizzazione greca fu molto simile a quella fenicia, essa era destinata a differenziarsi in seguito. Nelle nuove terre, infatti, i Greci non si limitarono a fondare empori per il commercio, ma procedettero a una vera e propria conquista territoriale, in alcuni casi dopo guerre sanguinose, di zone per lo più pianeggianti e dunque adatte alla coltivazione e altamente produttive. La loro presenza comportò modifiche permanenti dell’ambiente fisico, delle strutture politiche e sociali, delle espressioni culturali delle aree interessate. I Greci si radicarono nelle nuove terre e vi esportarono (o meglio, vi svilupparono, come vedremo) i propri modelli di vita e di cultura. Nell’Italia meridionale, per esempio, il loro radicamento fu tale e la loro presenza così capillare (moltissime città pugliesi, lucane, campane, calabresi e siciliane hanno un’origine greca) che la sua parte peninsulare venne da loro ribattezzata Magna Grecia (“grande Grecia”), denominazione estesa talvolta anche alla Sicilia ( carta).

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Ragioni e caratteri della colonizzazione

La colonizzazione del Mediterraneo fu possibile grazie all’adozione di nuove tecniche di navigazione: navi più solide e meglio manovrabili permisero di superare il limite della navigazione costiera dell’età del bronzo e di passare con più sicurezza al mare aperto ( Sotto la lente).
I Greci cominciarono a fondare colonie lontano dalla madrepatria con un obiettivo più complesso di quello dei Fenici, che erano interessati principalmente agli scambi commerciali. L’aumento della popolazione seguito alla crescita della ricchezza complessiva della società greca aveva determinato un aumento della pressione sulle risorse disponibili, cui si diede risposta – secondo una dinamica molto frequente nell’antichità – con la ricerca di nuove terre da sfruttare.
La prima e più importante spinta alla colonizzazione, quindi, aveva a che fare con il rapporto con la terra. Nell’VIII secolo a.C., la produzione cerealicola greca non fu più sufficiente a mantenere la popolazione. Mentre i proprietari terrieri riuscivano a ottenere raccolti cospicui grazie all’estensione delle coltivazioni, i piccoli proprietari, padroni di lotti modesti e spesso poco fertili, erano costretti a indebitarsi o a vendere i terreni. La grande proprietà, inoltre, era interessata a promuovere la conversione delle terre alla produzione di olio e vino destinati all’esportazione; la diffusione di ulivi e viti, colture assai più redditizie dei cereali, aggravò però la miseria dei contadini, riducendo ulteriormente la disponibilità di grano. Le difficoltà del mondo rurale, infine, erano acuite dalla durezza delle condizioni di lavoro e dalla povertà causata dal frazionamento ereditario dei patrimoni.
In questa situazione, che diventava più critica in caso di annate particolarmente sfavorevoli, molte città decisero di fondare nuovi centri e trasferirvi una parte della popolazione rurale. Il termine latino “colonia” – nell’accezione che avrebbe avuto nel mondo romano di insediamento formato da “coloni”, cioè propriamente da “contadini” – esprime bene la natura e il senso di queste iniziative. La ripartizione delle terre conquistate veniva effettuata secondo criteri egualitari, fatto che influì sullo sviluppo in questa direzione anche della pólis in territorio greco.
Le colonie alleggerivano dunque la pressione demografica della madrepatria e davano agli emigranti nuove opportunità di vita e di lavoro, ma le ragioni della colonizzazione non furono solo di natura economica. Non mancarono infatti i motivi politici, per esempio una lotta tra fazioni all’interno di una pólis che si risolveva solo con l’esilio o l’emigrazione volontaria di uno dei gruppi in conflitto. In questo caso i fondatori erano aristocratici: di loro è rimasta memoria nella divinizzazione di cui furono fatti oggetto da parte dei coloni.
Il risultato della “grande colonizzazione” fu un tessuto di colonie (un numero difficilmente calcolabile) che andavano dalle coste del mar Nero e dell’Asia minore alle coste della Spagna, della Francia, della Sardegna e soprattutto dell’Italia meridionale.

• SOTTO LA LENTE • TECNOLOGIA

Navi da trasporto e navi da guerra

L’espansione delle attività mercantili lungo le rotte marittime mediterranee e la colonizzazione del Mediterraneo furono favorite da innovazioni tecnologiche nel settore della navigazione che i Greci appresero dai mercanti fenici, apportandovi poi importanti modifiche.
Le navi da trasporto, costruite con una chiglia larga per ospitare la maggiore quantità di carico possibile, non erano dotate di rematori, al fine di limitare le spese per gli equipaggi; sfruttavano, invece, come quelle fenicie, la spinta dei venti, grazie a una vela quadrata issata al centro dell’imbarcazione.
Più elaborate erano le navi da guerra, che potevano avere fino a tre file di rematori nelle cosiddette triremi, velocissime e maneggevoli anche in spazi molto stretti come quelli che caratterizzavano le coste e le isole greche. Si trattava di imbarcazioni lunghe fino a 40 metri, con un equipaggio di circa 200 uomini, di cui 170 erano rematori. Sulla prua erano dotate di uno sperone metallico usato per squarciare lo scafo delle navi nemiche, mentre il timone era costituito da due remi affiancati a poppa.
Le navi da guerra erano fondamentali per mantenere la supremazia marittima e per difendere le rotte commerciali dagli attacchi delle flotte nemiche e dei pirati che in quell’epoca infestavano le acque del Mediterraneo. Solo città che disponevano di notevoli risorse economiche potevano però affrontare gli elevati costi di costruzione di tali imbarcazioni e le spese per il mantenimento degli equipaggi.

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Le conseguenze della colonizzazione

Le nuove terre furono sfruttate dai coloni, in primo luogo, per la produzione di cereali (soprattutto nell’Italia meridionale), ma anche per impiantarvi le colture della vite e dell’ ulivo, che finirono per segnare i confini stessi del mondo Mediterraneo. Si venne così a formare un’estesa e fitta rete di scambi tra colonie e madrepatria che stimolò la produzione artigianale nelle città di origine (per esempio le ceramiche corinzie) e favorì l’incremento dei commerci in tutto il Mediterraneo. A loro volta sviluppo della produzione artigianale e incremento dei commerci produssero degli effetti. Tra questi vi fu la diffusione della moneta, di cui i Greci furono pionieri insieme ai Fenici.
Nel Mediterraneo, forme di scambio più complesse del baratto erano in uso già da tempo, ma la grande innovazione dei Greci – per primi quelli della Ionia – fu quella di introdurre la coniazione delle monete, realizzate con metalli resistenti e quindi durevoli nel tempo, tali da fungere da riferimento per la determinazione del valore di scambio dei beni. A garanzia di chi ne faceva uso, le póleis cominciarono anche a imprimere sulle due facce delle monete un marchio che ne certificava la validità: ogni mercante aveva così la certezza che le monete ricevute in cambio di una merce fossero di buona qualità e potessero servire per altre transazioni. Il processo fu molto lento: iniziato verso il X secolo, registrò una svolta quando nel V secolo a.C. ad Atene venne introdotta la dracma, che si diffuse rapidamente in tutta l’area di commercio greco.
La diffusione della moneta non fu importante solo dal punto di vista economico, ma rappresentò un tassello di una più complessiva rivoluzione culturale: la ricchezza, fino a quel momento calcolata sulla quantità di terra posseduta, cominciò a fondarsi anche sui patrimoni monetari. Anche i nobili, loro malgrado, avrebbero dovuto a poco a poco adattarsi a questa realtà, come testimonia Alceo, aristocratico poeta di Lesbo (morto nel 560 a.C.): «Ormai l’oro è l’unica cosa che può compensare l’educazione»; conta solo il denaro, «non c’è altro metro di giudizio».

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana