Capitolo 8 - Dal medioevo ellenico alla nascita della pólis

Capitolo 8 DAL MEDIOEVO ELLENICO ALLA NASCITA DELLA PÓLIS

i concetti chiave
  • Il medioevo ellenico è caratterizzato da regressione delle attività economiche, calo demografico, decadenza delle città e isolamento delle comunità
  • Dal 1000 a.C. ca. si diffonde l’impiego del ferro, riprendono i commerci e rinasce la scrittura
  • La società aristocratica in età pre-arcaica: il basiléus e il consiglio degli anziani al vertice, insieme a un’assemblea del popolo in armi
  • IX-VIII secolo a.C.: si afferma il sistema della pólis (città-Stato)
  • Diventano centrali i concetti di uguaglianza giuridica e cittadinanza, ma donne, schiavi e stranieri ne restano esclusi
  • La “grande colonizzazione”: l’espansione sulle coste del Mediterraneo
  • Sviluppo delle colonie, commerci nel Mediterraneo e diffusione della moneta
  • I culti condivisi e gli eventi artistici e sportivi favoriscono lo sviluppo di un’identità greca

1. Il medioevo ellenico

Dopo il crollo rapidissimo della civiltà micenea, avvenuto intorno al 1200 a.C., l’area greca entrò in un lungo periodo di generale instabilità e regresso, che gli storici hanno definito con espressioni come “secoli bui”, “età oscura” o “medioevo ellenico”. Questa fase si concluse solo nell’VIII secolo a.C., epoca in cui si colloca convenzionalmente l’inizio dell’età arcaica.
Il declino riguardò l’economia, le strutture politiche, la cultura. Tuttavia, questo periodo non fu privo di importanti novità, che rappresentarono le premesse della successiva rinascita economica, sociale e politica della Grecia. Per questa ragione, la definizione di medioevo ellenico è oggi ritenuta troppo riduttiva e viene generalmente ristretta soltanto ai secoli XII e XI.

I “secoli bui” dopo il crollo della civiltà micenea

La fine dell’organizzazione palaziale micenea aprì una fase recessiva che coinvolse tutti gli ambiti socio-economici. Tornò a prevalere un’economia di sussistenza, l’abbandono dell’agricoltura determinò un ripiegamento sulle attività pastorali, gli scambi commerciali subirono una netta contrazione fino a ridursi a poca cosa, soprattutto sulla lunga distanza. La recessione si accompagnò a un forte calo demografico (la popolazione si ridusse di circa il 75% rispetto a quella del XIII secolo a.C.) e al fenomeno di dispersione degli insediamenti sul territorio. Si delinearono in questo periodo i confini di tante microregioni separate e non comunicanti. L’isolamento fu favorito dalle condizioni ambientali del mondo greco (la presenza di barriere naturali, come i rilievi), mentre in epoca micenea il processo era stato contrastato da una certa tendenza all’accentramento.
L’architettura di opere imponenti scomparve: le mura che difendevano le cittadelle micenee non furono più ricostruite, mentre le tombe circolari di famiglia lasciarono il posto a sepolture più semplici e riservate ai singoli individui.
Al pari dell’architettura, sparì la scrittura: utilizzata nel mondo minoico-miceneo prevalentemente per esigenze economiche e commerciali, legate a particolari strutture palaziali, il suo impiego, ora che queste esigenze erano venute meno, cessò completamente.
Si verificarono infine vasti fenomeni di mobilità delle popolazioni. Nelle ampie migrazioni che interessarono tutta l’area egea si colloca quella che un tempo veniva definita invasione dorica ( p. 140), per indicare uno spostamento improvviso e violento dei Dori che intorno al 1200 a.C. avrebbero occupato e sottomesso buona parte della Grecia continentale e insulare, provocando tra l’altro la fine dei regni micenei. Durante questo spostamento, i Dori si sarebbero mescolati alle altre due principali etnie greche, quelle degli Eoli e degli Ioni.
In realtà, è ormai fuori discussione che l’“invasione” dorica sia da attribuire alla sfera della leggenda (che si sovrappone con il mito del “ritorno degli Eraclidi”, i discendenti di Eracle cacciati dalla Grecia in tempi remoti). Il movimento dei Dori fu piuttosto una migrazione di lunga durata interna al mondo greco, parte di un più vasto spostamento, durato circa due secoli, che interessò tutto il Mediterraneo orientale e che gli studiosi chiamano “migrazione egea”. Nel suo ambito ebbe luogo anche la “migrazione ionica” – spesso definita prima colonizzazione –, ossia lo spostamento delle genti che occupavano l’Attica e l’Eubea verso le coste dell’Asia minore, detta anche Ionia (costa centrale dell’attuale Turchia). Proprio nelle città ioniche si sarebbero registrati i primi evidenti segni di una ripresa economica e culturale, anche grazie ai loro contatti con i prosperi regni del Vicino Oriente: a Mileto, a Smirne (oggi Izmir), a Efeso.

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La transizione dall’età del bronzo all’età del ferro

La principale novità emersa durante il medioevo ellenico riguarda l’impiego sempre più esclusivo del ferro per la produzione di armi, strumenti agricoli e oggetti di uso quotidiano. Non è chiaro se la transizione dal bronzo al ferro e la conoscenza delle tecniche di lavorazione sia stata una conseguenza della migrazione dorica o se, come è più probabile, provenisse dal Vicino Oriente, ma è certo che in questo periodo il ferro sostituì largamente il bronzo. Il principale vantaggio dell’uso del ferro era la facilità di reperire la materia prima, ampiamente disponibile in Grecia, e la possibilità di realizzare strumenti di lavoro più efficaci e resistenti, come gli aratri con il vomere in ferro che permettevano di dissodare i terreni più facilmente e più in profondità.
Nell’area egea l’uso del ferro era già noto da tempo, ma probabilmente era stato avversato dalle oligarchie guerriere o perché ne ignoravano i vantaggi o forse più semplicemente per un’inerzia che li portava a non promuovere le innovazioni tecniche e produttive. È ciò che lasciano intendere i ritrovamenti nelle tombe dell’area, i cui resti (punte di lance, spade, frammenti di elmi ecc.) sono quasi esclusivamente in bronzo; l’unica eccezione è rappresentata dalle tombe del sito di Lefkandi, nell’isola di Eubea, dove sono state ritrovate spade e punte di ferro.
Il crescente uso del ferro si legò a una nuova classe di guerrieri perché essendo relativamente meno costoso del bronzo era accessibile a un gruppo meno ristretto. Per questa ragione, l’impiego del ferro su vasta scala significò rompere con la rigidità sociale propria del mondo miceneo. Con la diffusione delle tecniche di lavorazione dei metalli, inoltre, crebbe un settore di artigiani specializzati, progressivamente svincolati dal lavoro agricolo e pastorale, in grado di produrre armi ma anche oggetti più pregiati (monili, statue), presto apprezzati fuori dai confini della Grecia. La presenza locale del ferro permetteva a questi artigiani di gestire tutte le fasi della lavorazione, dall’approvvigionamento della materia prima alla sua commercializzazione: i piccoli centri rientrarono così in contatto con le grandi rotte mercantili.

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Segnali di ripresa: il commercio e l’affermazione dell’alfabeto

La migrazione ionica del X secolo e la diffusione della lavorazione del ferro sono le spie di una ripresa economica che interessò tutta la Grecia a partire dal 1000 a.C. circa.
L’agricoltura tornò a essere produttiva, la popolazione crebbe dando vita a nuovi insediamenti urbani, gli scambi ripresero. Tra il 1000 e l’800 a.C. lentamente tornò a formarsi un mercato mediterraneo. Dalla Grecia venivano esportati olive, olio, vino, vetro, schiavi, che venivano scambiati con cereali e legname. Insieme ai mercanti fenici, i Greci diedero vita a un interscambio a larghissimo raggio: dopo il 900 a.C. alcuni di loro arrivarono fino all’India e alla Cina, dove acquistavano avorio, spezie, profumi, pietre preziose e tessuti pregiati.
La ripresa dei commerci stimolò nuovamente l’impiego della scrittura. La lingua greca dell’età del bronzo aveva continuato a essere parlata, nelle sue varianti regionali, anche dopo la caduta dei regni micenei; nel momento in cui fu nuovamente necessario disporre di uno strumento di trascrizione della lingua orale, però, esso venne individuato non più nella scrittura sillabica di derivazione micenea (la Lineare B), di cui si era persa memoria, ma in un nuovo alfabeto fonetico, derivato da quello fenicio: nacquero così le varie forme dialettali della lingua greca. Anche se le prime attestazioni dell’uso dell’alfabeto greco risalgono all’VIII secolo a.C., si ritiene che la nascita della nuova scrittura sia da collocarsi nel IX secolo, o comunque nella fase finale del medioevo ellenico.
Analogamente all’introduzione del ferro, anche l’adozione dell’alfabeto fonetico ebbe conseguenze sociali e culturali importanti: la scrittura ideografico-sillabica micenea, con i suoi numerosi segni pittografici, richiedeva anni di apprendimento, ed era perciò prerogativa esclusiva dei ceti dominanti; l’alfabeto, invece, era potenzialmente molto più semplice da diffondere. Utilizzato all’inizio per attestati di proprietà o iscrizioni funerarie o votive, esso venne adottato poi nell’uso amministrativo e, infine, per impieghi non professionali, come la scrittura di testi poetici o mitologici. L’importanza della nuova scrittura alfabetica è mostrata anche, per contrasto, dall’immobilismo cui furono condannati i territori non coinvolti dalla sua diffusione, incapaci di contrastare l’intraprendenza e l’autonomia dei mercanti greci, come avvenne in Egitto e in Mesopotamia, interessati in misura minore dalle “invasioni” e ancora legati alla scrittura tradizionale.

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La società pre-arcaica: una società aristocratica

Sebbene, come si è visto, già in età pre-arcaica siano evidenti i segnali della nascita di un ceto di mercanti e di artigiani, il governo rimase nelle mani di una nobiltà chiusa e autoritaria, rafforzatasi dopo la fine delle monarchie micenee. Sembra che anche durante il medioevo ellenico siano esistite strutture istituzionali assimilabili a piccoli “regni” locali, ma il sovrano che vi stava al vertice, il cosiddetto basiléus (termine che nella gerarchia di potere presso i Micenei designava un funzionario minore), non era un monarca posto al di sopra di tutti gli altri e dotato di pieni poteri: governava infatti la comunità affiancato da un consiglio degli anziani (i gérontes) e da un’assemblea del popolo in armi (le cui deliberazioni non avevano però valore vincolante), in una struttura sociale diversa da quella di età micenea. Il basiléus era a capo della propria comunità e si distingueva per ricchezza e abilità organizzative, tra cui la capacità di garantire l’approvvigionamento di materie prime e guidare l’esercito, ma il suo potere restava fortemente limitato dall’aristocrazia terriera.
Questa classe sociale era raccolta in fratrìe, ossia casate discendenti da un unico antenato (che spesso si identificava non in un personaggio storicamente determinabile ma in una figura mitologica, per esaltare il prestigio della casata), legate tra loro da vincoli di supporto reciproco, e divise in gruppi parentali più piccoli, i ghéne, clan composti da poche famiglie. Ogni fratrìa, probabilmente, governava un ôikos, l’unità di base abitativa e produttiva che inquadrava la popolazione e accomunava diversi strati sociali (dai nobili agli schiavi, passando attraverso vari gradi intermedi). I capi degli ôikoi più potenti potevano aspirare a diventare basiléus.
La legittimazione dei nobili a governare derivava dalla nascita e dalla ricchezza, ma era fondata anche sull’areté, ossia la “virtù”, intesa come saggezza ma soprattutto come abilità e valore in guerra. In base a questi elementi i nobili si definivano áristoi, i “migliori”. La loro forza risiedeva nel monopolio dell’uso delle armi, fondamentale in una società che poneva al centro gli ideali eroici della forza fisica e della guerra come atto onorevole: gli stessi valori degli eroi cantati da Omero – la nostra principale fonte per la conoscenza del medioevo ellenico ( Sotto la lente, p. 148) –, sempre pronti al litigio e al combattimento. Essi coltivavano un vero e proprio culto del corpo maschile e del “bello” inteso come manifestazione della forza muscolare, mentre nutrivano un profondo disprezzo per ogni altro tipo di attività manuale, per il lavoro e per il denaro.
Lavoro agricolo, artigianato e commercio erano praticati dal resto della comunità, il popolo (démos): contadini, piccoli proprietari terrieri, pastori, artigiani, mercanti, marinai. All’ultimo gradino della scala sociale si trovavano gli schiavi, generalmente nemici catturati in guerra o contadini impoveriti dalle carestie e dallo sfruttamento imposto dai proprietari terrieri, presso i quali, per sopravvivere, erano spesso costretti a indebitarsi, fino a dover cedere i propri beni e persino la propria persona.

Terre, mari, idee - volume 1
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