Scritto tra l’ottobre del 1829 e l’aprile del 1830, è l’ultimo canto pisano-recanatese a essere
composto (benché sia collocato nei Canti prima della Quiete dopo la tempesta e del Sabato
del villaggio, scritti in precedenza) e approfondisce la meditazione leopardiana sull’essenza
della vita umana, facendo parlare in prima persona il personaggio fittizio di un pastore nomade.
METRO Canzone libera di 6 strofe di diversa misura, formate da endecasillabi e settenari liberamente rimati.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
5 Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
10 la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
15 altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
20 il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
25 per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
30 cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
35 abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
>> pag. 126
Nasce l’uomo a fatica,
40 ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
45 Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
50 altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
55 Se la vita è sventura
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
60 e forse del mio dir poco ti cale.
>> pag. 127
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
65 che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
70 il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
75 a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
80 star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
85 dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
90 Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
95 girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
100 Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
>> pag. 128
105 O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
110 ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
115 e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
120 sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
125 non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
130 a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
>> pag. 129
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
135 e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
140 mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
Dentro il testo
I contenuti tematici
Nello Zibaldone Leopardi narra di aver letto nel settembre del 1826 sulla rivista scientifica francese “Journal des Savants” il resoconto di un viaggiatore russo nelle steppe dell’Asia centrale, nel quale si raccontava che i pastori kirghisi abitanti in quelle regioni «trascorrono la notte seduti su un sasso a contemplare la luna, e a improvvisare parole molto tristi su arie che non lo sono meno». Da qui deriva con ogni probabilità lo spunto per il componimento, che segna il passaggio dai canti incentrati sul ricordo (come A Silvia) a quelli che si svolgono direttamente attorno a un nucleo di meditazione filosofica, affrontando il tema di un’infelicità esistenziale vista ormai come legge universale. La tragedia di questa condizione si abbatte così a prescindere dalle sovrastrutture della civiltà e della cultura, essendo incombente sul destino di tutti gli uomini. Per questo il poeta sceglie di affidare il proprio pensiero a un pastore, cioè a un alter ego immerso in un tempo indefinibile, in uno spazio desertico e sterminato, figura estranea ai meccanismi del progresso, testimone di un dolore eterno, cosmico e senza eccezioni, connaturato all’esistenza in quanto tale: anche l’illusione di un armonico e primitivo stato di natura lontano dalla corruzione dei tempi moderni si rivela ormai come un’irrealizzabile utopia.
>> pag. 130
Dando la propria voce a un pastore nomade dell’Asia, il poeta rivolge alla luna ansiose domande sul senso della vita umana e sul mistero dell’universo, interrogativi che gli individui si pongono da sempre. L’interrogazione presenta da subito una contraddizione rivelatrice: il dimmi del v. 1, replicato nei vv. 16 e 18, si scontra infatti con il primo attributo conferito alla luna, silenziosa (v. 2): ciò tuttavia non induce al silenzio il pastore, che presuppone nella reticente interlocutrice un sapere a lui ignoto; anzi, tale convinzione si accentua nel corso del canto, in un climax* che parte in forma dubitativa per poi giungere a una assoluta certezza: tu forse intendi, v. 62; E tu certo comprendi, v. 69; Tu
sai, tu certo, v. 73; Mille cose sai tu, mille discopri, v. 77; Ma tu per certo, / giovinetta immortal,
conosci il tutto (vv. 98-99).
Successivamente (vv. 105-132) il pastore si rivolge con la stessa supplica (dimmi, v. 129) al gregge, che ritiene più felice dell’uomo, poiché inconsapevole e dunque libero dal tedio che opprime gli esseri umani raziocinanti quando vengono meno le sensazioni, tanto piacevoli quanto dolorose, e l’animo si ritrova come svuotato dinanzi alla vanità e all’insignificanza dell’esistenza. Infine, nell’ultima strofa, egli immagina una felicità che potrebbe essere possibile se solo la sua condizione fosse diversa (come, per esempio, quella di un astro o di un tuono, che spaziano nel cielo). Ma subito dopo la constatazione della realtà lo porta a concludere che, con ogni probabilità, la vita è funesta per ogni essere, sia esso un individuo o un animale.
Le scelte stilistiche
La pretesa del pastore di comunicare con la luna, interpellandola sui grandi quesiti che turbano il suo animo, si rivela ingenua, in quanto irrealizzabile. Quello che, nella sua innocenza, vorrebbe essere un dialogo non è che un monologo, uno sconsolato interrogarsi su sé stesso, situazione di cui peraltro lo stesso pastore sembra a un certo punto prendere coscienza (dico fra me pensando, v. 85; Così meco ragiono, v. 90). Tuttavia il suo canto rimane semplice, quasi monotono sia nel linguaggio sia nella sintassi: per suscitare la reazione della luna, la sollecita in modo infantile ripetendo le domande nel vano tentativo di comprendere (si notino le anafore* di Che fai?, due volte al v. 1 e dimmi, ai vv. 1, 16 e 18) e omaggiandola con epiteti* diversi (Vergine, v. 37; Intatta, v. 57;
solinga, eterna peregrina, v. 61; giovinetta immortal, v. 99). A dispetto della drammaticità dei contenuti, anche la rima in -ale che chiude ogni strofa conferisce al testo l’inflessione di una cantilena.
Per esprimere il carattere assoluto della sofferenza esistenziale, Leopardi insiste in tutto il componimento sulla rappresentazione del cammino come metafora* di un disperato tentativo di sfuggire alla natura. Al pastore errante (nell’aggettivo si fondono l’idea del suo nomadismo e l’errare del suo pensiero: O forse erra dal vero, v. 139) si aggiunge l’immagine allegorica del vecchierel bianco (v. 21), destinato a chiudere il proprio faticoso e frenetico viaggio nell’abisso orrido (v. 35) del nulla. Né d’altra parte un movimento fittizio, creato dall’immaginazione, è in grado di produrre un esito diverso da quello reale: se anche il pastore, e con lui tutta l’umanità, potesse volare come un uccello sulle nubi o dilagare come un tuono da una cima all’altra dei monti, non potrebbe comunque sottrarsi alla condanna decretata dalla natura e fissata dal poeta con un’ultima, lapidaria e inequivocabile sentenza: È funesto a chi nasce il dì natale (v. 143).
>> pag. 131
Verso le competenze
COMPRENDERE
1 Sintetizza i contenuti dei due discorsi rivolti dal pastore rispettivamente alla luna e al suo gregge.
2 Che cosa rappresenta l’abisso orrido (v. 35)?
3 Qual è il significato, per Leopardi, del pianto del neonato (vv. 41 ss.)?
ANALIZZARE
4 La seconda strofa è tutta occupata da una figura retorica. Quale?
5 Analizza la sintassi dei vv. 24-32. Evidenzia le strutture scelte da Leopardi e spiegane le ragioni espressive.
6 Inserisci nella tabella le parole e le espressioni che si riferiscono alle aree semantiche del dolore e quelle che rimandano al motivo del tedio.
Aree semantiche
Parole ed espressioni
dolore
tedio
7 Qual è il valore del gerundio sedendo al v. 120?
A Condizionale.
B Temporale.
C Causale.
D Concessivo.
INTERPRETARE
8 Che cosa intende dire Leopardi con la frase Ma
tu mortal non sei, / e forse del mio dir poco ti cale (vv. 59-60)?
9 Perché al v. 72 l’andar del tempo viene definito tacito?
PRODURRE
10 Il motivo del viaggio collega questo canto al Dialogo
della Natura e di un Islandese ( ► T7, p. 52). Confronta il passo delle Operette morali con questo canto in un testo argomentativo di circa 20 righe.
La tua esperienza
11 Leopardi esprime in questo componimento il tedio e il profondo disagio interiore che esso determina. Hai mai provato direttamente questa sensazione oppure conosci qualcuno che ne soffre e che te ne ha parlato? Anche se non hai sperimentato direttamente tale stato d’animo, quale ritieni possa essere un modo per liberarsi dalla cappa di malessere che esso provoca? Motiva la tua risposta in un testo di circa 30 righe.
La luna e le sue letture
Due pastori, un uomo e, su un mulo, una donna spingono un gregge di pecore al crepuscolo, mentre il cielo è già rischiarato da una falce di luna. L’autore di questo poetico disegno a pastello è il francese Jean-François Millet (1814-1875), uno dei primi artisti a raffigurare contadini e lavoratori con una nobile dignità fino ad allora sconosciuta, in modo umano e partecipe della loro fatica, con un’attenzione alla vita dei campi e alle sue differenti attività in ogni momento della giornata e in ogni stagione dell’anno. I suoi dipinti però non sono realistici: spesso gli schemi compositivi denunciano matrici classiche o il riferimento a soggetti religiosi. In questo caso, la luce che s’irradia dalla luna diventa quasi mistica e i due pastori assomigliano a Maria e Giuseppe mentre fuggono dal re Erode verso l’Egitto.