La riflessione sulla lingua

Il primo Ottocento – L'autore: Alessandro Manzoni

 T5 

Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti

Adelchi, coro dell’atto III


Posto alla fine del terzo atto, è il primo dei due cori della tragedia. I franchi invadono la Pianura padana, mettendo in fuga i longobardi, che da tempo vi spadroneggiavano. Le popolazioni italiche assistono ansiose nella speranza che la sconfitta degli antichi oppressori si traduca nella loro emancipazione. Ma la voce del coro si incarica di dissipare le illusioni: un padrone sostituisce l’altro e la libertà non può arrivare per mano straniera.
Composto in pochi giorni, nel gennaio del 1822, il testo è sottoposto a un lungo lavoro di correzione, per eliminare i riferimenti troppo espliciti alle strategie politiche della Restaurazione, che non avrebbero passato il vaglio della censura austriaca.


METRO 11 strofe di doppi senari, rimati AABCCB (la rima in B è sempre tronca).

        Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti,
        dai boschi, dall’arse fucine stridenti,
        dai solchi bagnati di servo sudor,
        un volgo disperso repente si desta;
5     intende l’orecchio, solleva la testa
        percosso da novo crescente romor.

        Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
        qual raggio di sole da nuvoli folti,
        traluce de’ padri la fiera virtù:
10   ne’ guardi, ne’ volti confuso ed incerto
        si mesce e discorda lo spregio sofferto
        col misero orgoglio d’un tempo che fu.

        S’aduna voglioso, si sperde tremante
        per torti sentieri, con passo vagante,
15   fra tema e desire, s’avanza e ristà;
        e adocchia e rimira scorata e confusa
        de’ crudi signori la turba diffusa,
        che fugge dai brandi, che sosta non ha.

        Ansanti li vede, quai trepide fere,
20   irsuti per tema le fulve criniere,
        le note latebre del covo cercar;
        e quivi, deposta l’usata minaccia,
        le donne superbe, con pallida faccia,
        i figli pensosi pensose guatar.

 >> pag. 278 

25   E sopra i fuggenti, con avido brando,
        quai cani disciolti, correndo, frugando,
        da ritta, da manca, guerrieri venir:
        li vede, e rapito d’ignoto contento,
        con l’agile speme precorre l’evento,
30   e sogna la fine del duro servir.

        Udite! quei forti che tengono il campo,
        che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
        son giunti da lunge, per aspri sentier:
        sospeser le gioie dei prandi festosi,
35   assursero in fretta dai blandi riposi,
        chiamati repente da squillo guerrier.

        Lasciâr nelle sale del tetto natio
        le donne accorate, tornanti all’addio,
        a preghi e consigli che il pianto troncò:
40   han carca la fronte de’ pesti cimieri,
        han poste le selle sui bruni corsieri,
        volaron sul ponte che cupo sonò.

        A torme, di terra passarono in terra,
        cantando giulive canzoni di guerra,
45   ma i dolci castelli pensando nel cor:
        per valli petrose, per balzi dirotti,
        vegliaron nell’arme le gelide notti,
        membrando i fidati colloqui d’amor.

        Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
50   per greppi senz’orma le corse affannose,
        il rigido impero, le fami durâr:
        si vider le lance calate sui petti,
        a canto agli scudi, rasente agli elmetti,
        udiron le frecce fischiando volar.

55   E il premio sperato, promesso a quei forti,
        sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
        d’un volgo straniero por fine al dolor?
        Tornate alle vostre superbe ruine,
        all’opere imbelli dell’arse officine,
60   ai solchi bagnati di servo sudor.

 >> pag. 279 

        Il forte si mesce col vinto nemico,
        col novo signore rimane l’antico;
        l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
        Dividono i servi, dividon gli armenti;
65   si posano insieme sui campi cruenti
        d’un volgo disperso che nome non ha.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Come spiega nella prefazione al Conte di Carmagnola, Manzoni nelle sue tragedie riprende dai modelli classici l’espediente dei cori, piegandoli però ad assumere una diversa funzione: ne fa dei «cantucci» che si riserva per commentare le vicende, sostituendo la propria voce a quella dei personaggi. In questa occasione, interrotta l’azione nel momento in cui i franchi trionfano, il poeta non propone in partenza una meditazione personale, ma ripercorre gli eventi adottando il punto di vista di una terza componente rimasta sinora nell’ombra, ovvero i popoli italici che assistono sbigottiti alla sconfitta dei loro signori longobardi (vv. 1-30).
In armonia con lo spirito evangelico, Manzoni concentra la propria attenzione sugli umili, in opposizione alla prospettiva della tragedia classica, per la quale si dovrebbero ritenere degne d’interesse soltanto le gesta di eroi e grandi personaggi. Egli realizza così, allo stesso tempo, gli obiettivi delineati nella lettera a Chauvet e nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica: completa cioè il nudo referto dei documenti storici integrandoli con i sentimenti di una massa di uomini passati sulla terra senza lasciare traccia. Il volgo disperso (vv. 4 e 66), le «genti meccaniche» che nell’Adelchi restano relegate nel coro del terzo atto balzeranno in primo piano nei Promessi sposi, in tutta la loro vitale individualità.

Agli italici, che fanno da spettatori al corso della Storia, il poeta indirizza una fremente apostrofe* (vv. 31-66). In primo luogo propone un flash back* sulle rinunce, sulle fatiche e sui rischi affrontati dai franchi nel corso della campagna militare. Nel descrivere gli invasori giunti da Oltralpe, Manzoni a tratti sembra cedere al fascino della saga barbarica, ma in realtà l’insistenza sul loro coraggio e vigore risulta funzionale al passaggio successivo, in quanto essa alimenta l’interrogativo retorico rivolto agli italici: perché illudersi? A che pro sperare che un esercito straniero intervenga gratuitamente per restituire la libertà a un popolo che ha dimenticato le antiche glorie, ormai ridotto a volgo disperso in stato di schiavitù?
Incapaci di agire, gli italici non possono che assistere agli avvenimenti, con il cuore in tumulto. Ma questa è già una sconfitta: ancora una volta gli autentici vinti, al di là delle apparenze, sono loro. I longobardi, che non si sono mai fusi con le popolazioni locali (ma la storiografia moderna ha poi smussato questa tesi troppo netta), troveranno presto un accordo con i nuovi oppressori: col novo signore rimane l’antico; / l’un popolo e l’altro sul collo vi sta (vv. 62-63).

 >> pag. 280 

In tal modo Manzoni lancia un evidente monito ai patrioti a lui contemporanei, che – un millennio più tardi – si trovavano a fronteggiare situazioni non troppo dissimili. Tramontato il Regno d’Italia, satellite della Francia napoleonica, il ritorno degli Asburgo aveva dissipato molti generosi sogni d’autonomia. L’Adelchi, scritto all’indomani della repressione violenta con cui l’Austria aveva reagito ai moti del 1821, risente fortemente del clima di tensione che allora si respirava a Milano.
Le conseguenze politiche della Restaurazione e il dominio repressivo dell’Austria insegnano come libertà e rispetto si debbano conquistare con le proprie forze, ma non solo: le sconfitte dei carbonari sono le sconfitte di un progetto elitario, che non aveva cercato né trovato vasta condivisione popolare. Manzoni, indifferente al mito romantico dell’eroe solitario, ritiene invece che sia fondamentale suscitare il più possibile la volontà del popolo intorno all’idea di nazione. Il rinnovamento della società italiana e la conquista dell’indipendenza devono essere perseguiti da tutti gli italiani, non solo dagli intellettuali, ai quali pure spetta il compito di sensibilizzare l’opinione pubblica.

Le scelte stilistiche

L’uso di versi parisillabi quali i doppi senari*, in cui gli accenti sono fissi, conferisce al coro cadenze regolari e incalzanti, molto adatte a scene belliche e di folla. Questo ritmo, che mima l’andamento di una poesia popolare, ricalca i caratteri della ballata romantica. Se il lessico si mantiene su un registro elevato, con abbondante presenza di aulicismi (tema, desire, brandi, latebre, speme), scarseggiano tuttavia le perifrasi auliche, e soprattutto la sintassi appare molto lontana dalla tendenza all’uso delle subordinate secondo il costrutto latino tipica di poeti come Parini o Monti.
Alla semplicità della metrica fa riscontro infatti la semplicità della sintassi, in cui prevalgono le proposizioni coordinate per asindeto* (si desta; / intende l’orecchio, solleva la testa, vv. 4-5), mai troppo estese: nessun periodo oltrepassa la misura della strofa. Insieme alle numerose figure della ripetizione (inaugurate dall’insistita anafora* dei primi tre versi), sono questi i mattoni su cui Manzoni costruisce i continui crescendo che danno al lettore l’impressione complessiva di una drammatica concitazione.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Come viene descritto il comportamento dei longobardi, incalzati dai franchi?


2 Chi viene invitato a tornare ai solchi bagnati di servo sudor (v. 60)?

ANALIZZARE

3 Rintraccia tutte le espressioni che descrivono i franchi. In quali atteggiamenti vengono ritratti e quali caratteristiche complessive vengono loro attribuite?


4 Quale figura retorica riconosci al v. 20? E quale al v. 24?


5 Individua e colloca nella tabella tutte le espressioni che ricadono nella sfera del “vedere” e dell’“agire”.


Vedere
Agire
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

INTERPRETARE

6 Confronta la situazione storica descritta nel brano con quella attuale in cui scrive Manzoni: quali analogie e quali differenze cogli?

PRODURRE

7 Quale pittore o disegnatore (anche di fumetti) a tuo parere potrebbe efficacemente ritrarre la scena a cui gli italici assistono? Spiega i motivi della tua scelta in un testo argomentativo di circa 20 righe.


 >> pag. 281 

La riflessione sulla lingua

Ai tempi di Manzoni erano in pochi a capire il toscano, e pochissimi in grado di parlarlo, persino fra i ceti colti. Ne dà testimonianza lo scrittore stesso in una vivace pagina del trattato Della lingua italiana: «Supponete dunque che ci troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo, in milanese, del più e del meno. Capita uno, e presenta un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette di parlar milanese, e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come prima, dite se ci troviamo in bocca quell’abbondanza e sicurezza di termini che avevamo un momento prima; dite se non dovremo, ora servirci d’un vocabolo generico o approssimativo, dove prima s’avrebbe avuto in pronto lo speciale, il proprio; ora aiutarci con una perifrasi, e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare, anzi non ci si pensava; veniva da sé; ora anche adoprar per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come si dice da noi».
Nella seconda introduzione al Fermo e Lucia, addirittura, Manzoni riconosce nel milanese l’unica lingua «nella quale ardirei promettermi di parlare […] tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo [vocabolo straniero]; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui». In realtà l’autore conosce molto bene anche il francese, perfezionato negli anni trascorsi a Parigi e periodicamente esercitato nelle lettere. In una di esse, scritta all’amico Claude Fauriel nel 1806, confessa di aver visto «con un piacere misto d’invidia il popolo di Parigi intendere ed applaudire alle commedie di Molière», mentre in Italia l’eccessivo scarto fra lingua scritta e lingua parlata rende impossibile agli scrittori l’effetto di erudire «la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell’utile, e di rendere in questo modo le cose un po’ più come dovrebbono essere».

Il problema della popolarità del linguaggio, che tormenta Manzoni sin dalla gioventù, diviene pressante nel momento in cui egli si volge alla stesura del romanzo, rendendosi conto ben presto dell’estrema difficoltà del compito, moltiplicata dalla latitanza di un uso linguistico comune nella penisola e di una norma universalmente riconosciuta.
Di qui i dubbi che accompagnano la transizione dall’eclettismo del Fermo e Lucia al “toscano-milanese” della ventisettana (ovvero l’edizione del 1827), figlio di febbrili spogli di vocabolari e altre fonti libresche. Subito dopo, il viaggio a Firenze, con la celebre “risciacquatura dei panni in Arno”, contribuisce a orientare l’autore verso l’uso vivo del ceto colto cittadino. A questa opzione è improntata la revisione linguistica del romanzo, che sfocia nell’edizione definitiva, comparsa in dispense fra il 1840 e il 1842.

 >> pag. 282 

D’altra parte, alla produzione creativa Manzoni accompagna intense riflessioni teoriche, che avrebbero dovuto convergere nel trattato Della lingua italiana, al quale lavora per decenni, scrivendone cinque redazioni senza mai giungere a un esito ritenuto soddisfacente. Nelle carte di questo «eterno lavoro», pubblicate solo nel XX secolo, lo scrittore articola le sue idee in materia di lingua, ragionando sul concetto di “uso” e confutando le posizioni espresse in merito da puristi e Classicisti. Nelle pagine di Sentir messa, egli insiste sui vantaggi del toscano, unico idioma utilizzato dagli italiani di varia provenienza per comunicare tra loro.
La tesi “fiorentinista” viene pubblicamente espressa e difesa dallo scrittore in interventi più estemporanei, a cominciare dalla Lettera sulla lingua italiana a Giacinto Carena, pubblicata nel 1850, in cui auspica la redazione di un vocabolario dell’uso vivo e caldeggia l’individuazione di una capitale linguistica da assumere a modello. Come il latino fu la lingua di Roma e il francese è la lingua di Parigi, il fiorentino sarà la lingua dell’Italia. L’unità politica non può, secondo Manzoni, prescindere dall’unità linguistica: la nuova nazione dovrà porsi e risolvere il problema. Queste convinzioni impregnano i numerosi interventi, pubblici e privati, che negli anni della vecchiaia Manzoni instancabilmente dedica a una questione che ritiene non puramente estetica, ma innanzitutto sociale e politica.

 T6 

La Relazione al ministro Broglio

Il ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio, all’inizio del 1868, istituisce una commissione incaricata di occuparsi delle strategie con cui promuovere «in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia». Ne affida la presidenza a Manzoni, che in breve tempo consegna e fa stampare su varie riviste una Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla, dove ribadisce gli orientamenti più volte espressi in precedenza, rimarcando la necessità di una diffusione capillare del fiorentino parlato.

Una nazione dove siano in vigore vari idiomi e la quale aspiri ad avere una lingua
in comune, trova naturalmente in questa varietà un primo e potente ostacolo al
suo intento.
In astratto, il modo di superare un tale ostacolo è ovvio ed evidente: sostituire a
5 que’ diversi mezzi di comunicazione d’idee un mezzo unico, il quale, sottentrando
a fare nelle singole parti della nazione l’ufizio essenziale che fanno i particolari
linguaggi,1 possa anche soddisfare il bisogno, non così essenziale, senza dubbio,
ma rilevantissimo, d’intendersi gli uomini dell’intera nazione tra di loro, il più
pienamente e uniformemente che sia possibile.
10 Ma in Italia, a ottenere un tale intento, s’incontra questa tanto singolare quanto
dolorosa difficoltà, che il mezzo stesso è in questione;2 e mentre ci troviamo
d’accordo nel voler questa lingua, quale poi essa sia, o possa, o deva3 essere, se ne
disputa da cinquecento anni.

 >> pag. 283 

Una tale, si direbbe quasi, perpetuità4 di tentativi inutili potrebbe, a prima vista,
15 far credere che la ricerca stessa sia da mettersi, una volta per sempre, nella gran
classe di quelle che non hanno riuscita, perché il loro intento è immaginario, e il
mezzo che si cerca non vive che nei desideri.
Lontani per sé da un tale scoraggimento,5 e animati dall’autorevole e patriottico
invito del sig. Ministro, i sottoscritti6 non esitano a esprimere la loro persuasione,
20 che il mezzo c’era, come c’è ancora; che il non avere esso potuta esercitare la sua
naturale attività ed efficacia, è avvenuto per la mancanza di circostanze favorevoli,7
senza però, che una tale mancanza abbia potuto farlo dimenticare, né renderlo
affatto inoperoso; e che questa sua debole attività è quella che ha data occasione ai
tanti sistemi che hanno potuto sovrapporglisi come le borraccine e i licheni a un
25 albero che vegeti stentatamente.8
Questo mezzo, indicato dalla cosa stessa, e messo in evidenza da splendidi
esempi,9 è: che uno degl’idiomi, più o meno diversi, che vivono in una nazione,
venga accettato da tutte le parti di essa per idioma o lingua comune […].
In verità, pensando a que’ due gran fatti delle lingue latina e francese, non si
30 può a meno di non ridere della taccia di municipalismo10 che è stata data e si vuol
mantenere a chi pensa che l’accettazione e l’acquisto dell’idioma fiorentino sia il
mezzo che possa dare di fatto all’Italia una lingua comune. Senza il municipalismo
di Roma e di Parigi non ci sarebbe stata, né lingua latina, né lingua francese. […]
Riconosciuta poi che fosse la necessità d’un tal mezzo, la scelta d’un idioma
35 che possa servire al caso nostro, non potrebbe esser dubbia; anzi è fatta. Perché è
appunto un fatto notabilissimo questo: che, non c’essendo stata nell’Italia moderna
una capitale che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province a adottare
il suo idioma, pure il toscano, per la virtù d’alcuni scritti famosi al loro primo
apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in molti altri, e
40 resa facile da alcune qualità dell’idioma medesimo, che non importa di specificar
qui, abbia potuto essere accettato e proclamato per lingua comune dell’Italia,11
dare generalmente il suo nome (così avesse potuto dar la cosa) agli scritti di tutte
le parti d’Italia, alle prediche, ai discorsi pubblici, e anche privati, che non fossero
espressi in nessun altro de’ diversi idiomi d’Italia. E la ragione per cui questa denominazione
45 sia stata accettata così facilmente, è che esprime un fatto chiaro, uno di
quelli la di cui virtù è nota a chi si sia. Ognuno infatti, che non sia preoccupato da
opinioni arbitrarie e sistematiche,12 intende subito che per poter sostituire un linguaggio
novo a quello d’un paese, bisogna prendere il linguaggio d’un altro paese.
S’aggiunga un altro fatto importante anch’esso, cioè che, o tutti o quasi tutti
50 quelli che negano al toscano la ragione di essere la lingua comune d’Italia, gli concedono
pure qualcosa di speciale, una certa qual preferenza, un certo qual privilegio
sopra gli altri idiomi d’Italia […].
È da osservarsi, del rimanente, che la denominazione di lingua toscana non
corrisponde esattamente alla cosa che si vuole e si deve volere, cioè a una lingua

 >> pag. 284 

55 una; mentre il parlare toscano è composto d’idiomi pochissimo dissimili bensì13
tra di loro, ma dissimili, e quindi non formanti una unità. Ma l’improprietà del
vocabolo non potrà cagionare equivoci, quando si sia, in fatto, d’accordo nel concetto;
in quella maniera che le denominazioni di latino, di francese, di castigliano,
quantunque derivate, non da delle città, ma dai territori, non hanno impedito che
60 per latino s’intendesse il linguaggio di Roma, come, per francese e per castigliano,
s’intendono quelli di Parigi e di Madrid.
Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle
nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario.
E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito14 per l’Italia
65 non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente.

      Dentro il testo

I contenuti tematici

Infervorato dall’incarico ricevuto dal ministero, che lo chiama a intervenire operativamente sulla questione che più gli stava a cuore, l’ormai vecchio Manzoni si pone al lavoro e in pochi mesi appronta la Relazione, che suscita accese discussioni. La componente fiorentina della commissione, in particolare, dissente sul ruolo secondario che in essa viene attribuito agli scrittori, ritenuti tradizionalmente modelli fondamentali in materia di lingua. Manzoni, convinto che la questione della lingua nel nuovo contesto nazionale sia un’urgenza sociale prima che una questione letteraria, assegna, come si è detto, un ruolo cruciale alla parlata della classe colta fiorentina. Approva per questo motivo l’invio di maestri toscani in tutto il paese, e incoraggia la compilazione di un vocabolario dell’uso vivo, che bandisca gli usi storici degli autori dei secoli andati e funga da punto di riferimento per una serie di dizionari bilingui, atti a suggerire il corrispondente fiorentino corretto dei termini dialettali.

Il ruolo di Manzoni nel promuovere la sovrapposizione fra italiano e lingua parlata a Firenze (che in quegli anni era capitale del Regno) è senza dubbio decisivo, ma più sotto forma di esempio pratico che come proposta teorica. Già alla fine dell’Ottocento, infatti, I promessi sposi diventano nelle scuole del Regno una fondamentale palestra di lingua. I tormentati ripensamenti linguistici che avevano accompagnato la stesura del romanzo vengono così premiati da un esito che supera ogni più rosea aspettativa.

      Verso le competenze

COMPRENDERE

1 Sintetizza il contenuto del brano in circa 5 righe.

ANALIZZARE

2 Individua ed esamina i passi in cui si espongono le ragioni del privilegio accordato al toscano.

INTERPRETARE

3 In che senso Manzoni sminuisce il ruolo degli scrittori in materia di lingua, e per quali motivi?

PRODURRE

4 Per ciò che riguarda la lingua, oggi un problema analogo si pone con i numerosi stranieri presenti in Italia che conoscono l’italiano solo in parte. Fai una ricerca sull’argomento e illustra i risultati in un testo espositivo di circa 30 righe.


Al cuore della letteratura - volume 4
Al cuore della letteratura - volume 4
Il primo Ottocento