L’Arte povera

   9.  DAL DOPOGUERRA ALLA FINE DEL NOVECENTO >> I maestri e i movimenti del secondo Novecento

L’Arte povera

A differenza di numerose altre correnti artistiche del secondo dopoguerra, nate gradualmente e in maniera fluida, l’Arte povera ha un luogo e una data d’inizio ben precisi: la galleria La Bertesca di Genova nel settembre del 1967. In questo contesto il critico Germano Celant (Genova 1940) organizza una collettiva intitolata appunto “Arte povera”, dove sono esposti i lavori di alcuni giovani artisti italiani che assimilano e al contempo superano la Pop Art, negando l’esclusiva riproduzione dell’immagine massificata e ritornando alla materia. La scelta dell’aggettivo “povera” ha due significati: il primo riguarda l’impiego di materiali comuni di varia natura, poco costosi se non addirittura di recupero; il secondo si riferisce alla volontà di creare un’ arte umile e proletaria che sia contrapposta a quella ricca, concepita all’interno delle dinamiche consumistiche per il sistema capitalista. Questo intento, volutamente politico e dichiaratamente marxista, affianca i poveristi ai movimenti di protesta operai e studenteschi che nascono in questi anni in Italia e in molti altri paesi occidentali.

Michelangelo Pistoletto

Il torinese Michelangelo Pistoletto (Biella 1933) realizza una delle opere manifesto dell’Arte povera: si tratta della Venere degli stracci (94), dove una riproduzione in cemento bianco di una Venere neoclassica è rivolta verso una montagna di stracci colorati in un provocatorio accostamento carico di contrasti. Pur rappresentando un simbolo dell’arte aulica del passato, il calco è infatti un modesto prodotto di quel mondo industriale moderno che si vuole criticare; inoltre la forma equilibrata della dea è contaminata irreversibilmente dal disordine contemporaneo che si materializza attraverso il cumulo degli abiti di poco conto scartati dalla società dei consumi.

Mario Merz

Uno dei tratti salienti dell’Arte Povera è la rivalutazione dell’analogia tra arte e vita. La ricerca di Mario Merz (Milano 1925-Torino 2003), per esempio, si muove in tal senso, unendo materiali naturali e componenti tecnologici economici e di facile reperimento. Zebra (Fibonacci) (95) è un’installazione a muro in cui una testa imbalsamata di zebra è affiancata da tubi al neon che riproducono i numeri della serie di Fibonacci. Quest’ultima, teorizzata dall’omonimo matematico agli inizi del XIII secolo per descrivere la proliferazione dei conigli, è utilizzata da Merz per evocare il concetto di crescita progressiva. L’elemento organico concreto è morto, ma è ovviamente estremamente realistico; quello tecnologico materializza l’astratta legge matematica elaborata dall’uomo per descrivere lo sviluppo biologico. La relazione tra le due parti induce a riflettere sul rapporto tra natura e artificio; inoltre l’idea di un’espansione vitale potenzialmente infinita viene incorporata in un’installazione artistica che può crescere di dimensione, spostando i numeri lateralmente a seconda del contesto espositivo.

Giuseppe Penone

Un approccio naturalistico più esplicito è sperimentato da Giuseppe Penone (Garessio 1947), che lavora a diretto contatto con il processo vitale degli alberi. Nelle sue opere il vero autore è l’elemento vegetale stesso, che reagisce all’intervento dell’uomo. Dal 1968, nella serie Continuerà a crescere tranne che in quel punto (96-97), Penone inserisce calchi della sua mano su tronchi di alberi; crescendo, le piante finiscono con il registrare l’impronta di Penone in opere dove un atto creativo semplice ed empatico si fonde con i processi biologici spontanei della natura.

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Alighiero Boetti

Alighiero Boetti (Torino 1940-Roma 1994) manifesta infine uno spirito ludico e ironico combinando organicamente caratteri poveristi e concettuali. Le sue prime realizzazioni sono elementari cataste di componenti prefabbricati, ma ben presto inizia a dedicarsi a opere più complesse, contrassegnate da un’espressività impersonale e replicativa in cui privilegia tecniche anonime come il ricamo, la fotocopiatura e il fotomontaggio. Mappa (98) è emblematica in tal senso. Si tratta di uno dei grandi arazzi che Boetti fa realizzare durante uno dei suoi frequenti viaggi in Afghanistan. La scelta operativa consiste nel disegnare su una tela una mappa politica del mondo consegnandola poi ad alcune artigiane afgane che si occupano di ricamarla. Ogni Paese è campito con i colori della propria bandiera, mentre i bordi del tessuto riportano scritte relative al periodo e al luogo di esecuzione. Gli arazzi vengono realizzati a più riprese in un lungo intervallo di tempo, tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, registrando le variazioni dei confini degli Stati. In questo modo la serie diventa testimonianza dell’evolversi della storia. L’artista si è limitato a ricalcare una geografia e non si è nemmeno occupato in prima persona del ricamo: l’unico valore dell’opera è insito nel concetto di documentazione.

Dossier Arte - volume 3 
Dossier Arte - volume 3 
Dal Neoclassicismo ai giorni nostri