Linguaggi gestuali e segnici in Italia
L’Arte informale si sviluppa anche in Italia, maturando, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, declinazioni
concentrate sul valore del
gesto e del segno. In questi anni, infatti, mentre Roma diventa un crocevia di relazioni culturali tra l’Europa
e l’America, molti artisti italiani elaborano linguaggi che rifiutano qualunque tipo di realismo
o di naturalismo in favore di espressioni grafiche e materiche in cui si decantano,
in maniera più o meno filtrata, condizioni emotive personali o istanze di impegno sociale.
Tra questi autori Emilio Vedova (Venezia 1919-2006), che ha preso parte alla Resistenza,
alla fine della guerra si dedica a una pittura fortemente debitrice nei confronti dell’insegnamento
cubista. In seguito passa a un astrattismo informale impulsivo e vibrante, emblematicamente
rappresentato dal Ciclo della protesta n. 3 (9). A partire
dalla denuncia di un’angoscia individuale l’arte di Vedova si carica di passionalità politica,
esplicitando una protesta decisa e ribadita nei confronti di tutte le forme di ingiustizia o di sopraffazione.
Il valore dell’opera sta nella resa dell’impeto gestuale dell’artista attraverso pennellate lunghe
e vigorose e macchie di colore contrastanti.
Anche Carla Accardi (Trapani 1924-Roma
2014) inizia la sua attività alla fine degli anni Quaranta con una prima produzione di ascendenza
postcubista; nel decennio successivo evolve la sua ricerca espressiva in un linguaggio del tutto
originale, grazie al quale si inserisce a pieno titolo nella cultura gestuale e segnica sviluppata
parallelamente in altri Paesi da artisti come Georges Mathieu. I segni sinuosi che l’Accardi delinea
con fluide pennellate di colore a tempera appaiono ripetuti e variati in aggregazioni estremamente
rigorose eppure dinamiche, contrassegnate da una notevole tensione
ottica. L’opera Grande integrazione (10) crea un’ambigua condizione
percettiva: la piatta sovrapposizione dei segni bianchi sullo sfondo nero induce a leggere la composizione
in modo del tutto bidimensionale; d’altra parte, le rarefazioni e gli addensamenti che si possono
apprezzare nell’affollarsi delle linee e delle curve sembrano suggerire la strutturazione di uno
spazio fluttuante.
Pur abbandonando la bicromia bianco-nero, in Viola rosso (11) la pittrice continua a esplorare le frontiere della riduzione cromatica in un inusuale
accostamento di toni. Su di uno sfondo viola si susseguono calligrafici segni rossi che mutano progressivamente
nel profilo e nella dimensione. Essi brulicano sulla tela in fitte successioni e, pur essendo organizzati
in più registri di andamento orizzontale, creano una forte sensazione di profondità e movimento.
Se l’opera dell’Accardi si distingue per la libertà di articolazione morfologica dei segni e per
lo slancio spaziale delle composizioni, quella di Giuseppe Capogrossi (Roma 1900-1972)
è singolare per l’insistita concentrazione su di un solo segno “a forchetta”, formato
da un semicerchio attraversato da una corda a sua volta tagliata da due segmenti paralleli.
Come dimostra il quadro Superficie 470 (12), l’artista
ripropone il suo emblema grafico decine di volte, variandone i formati, le proporzioni, i colori
e gli orientamenti ma mantenendolo intatto, fin quasi a cristallizzarlo nella sua ermetica espressività.
In questo modo Capogrossi non si interroga sui significati che possono essere comunicati attraverso
il segno, ma sull’essenza del segno stesso, che significa di per sé, per le sue
qualità strutturali e per le possibilità di interazione visiva che può instaurare con altri segni
uguali nel campo bidimensionale della tela.
I processi di negazione della forma e di valorizzazione della materia propri dell’Arte informale
investono anche le ricerche plastiche dello scultore Pietro Consagra (Mazara del
Vallo 1920-Milano 2005), che dagli anni Cinquanta avvia un percorso di progressiva astrazione e articolazione
di piani separati e paralleli, destinato a risolversi nella completa frontalità dell’immagine.
Come evidenzia Colloquio
maggiore (13), l’artista realizza le sue sculture assemblando blocchi
di legno o di bronzo, o separandoli e svuotandoli con tagli e incisioni; egli stesso afferma «queste sculture le
ho curate deliberatamente da una parte sola, lasciando quella retrostante alla funzione meccanica
aggregata. Ciò per accentuare la scelta frontale nel modo più esplicito e unico, con un solo punto
di vista per l’osservazione».