L’Espressionismo nordico

   5.  DAL POSTIMPRESSIONISMO AL SIMBOLISMO >> Il Postimpressionismo

L’Espressionismo nordico

L’Espressionismo sposta l’interesse dell’arte verso l’interiorità più profonda dell’essere umano; il mezzo per raggiungere questo risultato è l’impiego di colori vivaci, innaturali rispetto al soggetto, ma forti di una portata emotiva. Col termine “espressionismo” si indicano di norma le manifestazioni della pittura tedesca e francese d’avanguardia dell’inizio del Novecento; alcune avvisaglie espressioniste, tuttavia, si riscontrano già in alcuni artisti della fine del XIX secolo, la cui opera muove dalla lezione degli impressionisti per superarla in senso antinaturalistico e dunque postimpressionistico. Nello stesso 1884 in cui gli artisti francesi si organizzavano come “Indépendants”, a Bruxelles un gruppo di venti artisti, anch’essi rifiutati dalla linea dell’arte ufficiale, montava il Salon des XX (Salone dei Venti) con un programma primaverile di esposizioni improntate a una maggiore apertura verso le partecipazioni straniere e le tendenze neoimpressioniste. Tra i membri fondatori del Salone belga vi è anche James Ensor, artista che raramente si mosse dal Belgio, sviluppando un linguaggio autonomo quanto incisivo, capace di denunciare il proprio disagio di fronte all’evolversi della società contemporanea.

James Ensor: la rivoluzione espressionista in Belgio

James Ensor (Ostenda 1860-1949) abbandona presto gli studi per dedicarsi all’arte e, nel 1877, entra all’Accademia Reale di Belle Arti di Bruxelles, frequentata negli stessi anni anche da Fernand Khnopff (► p. 216). Nel 1881, sempre nella capitale belga, tiene una Esposizione personale con opere dalle tinte profondamente cupe che contraddistinguono la sua prima produzione. I soggetti appartengono ancora alla tradizione fiamminga, come le nature morte, i ritratti, gli interni intimi e borghesi sottesi da una profonda malinconia. La sottile vena simbolista di questa prima fase vira verso soluzioni stilistiche inedite a partire dal 1885, quando Ensor rielabora l’uso dei colori brillanti degli impressionisti abbinati alle immagini dei più bizzarri maestri fiamminghi come Hieronymus Bosch e Peter Bruegel il Vecchio. Ne risulta una pittura visionaria, distante da una ricerca naturalistica e specchio del divario tra l’uomo e la natura, carattere specifico del Postimpressionismo. Ensor non nasconde anche un irriverente attacco ai costumi borghesi, tanto che il suo Ingresso di Cristo a Bruxelles (38), opera del 1888, viene rifiutato dal Salon des XX e resta per anni nello studio dell’artista.

Ingresso di Cristo a Bruxelles

Più che per la tecnica – che mescola un blando accademismo con la lezione dell’Impressionismo mista alla grande tradizione dell’arte olandese, soprattutto per l’uso delle ombre – la pittura di Ensor colpisce per la visionarietà del soggetto. Il dipinto mostra una parata rocambolesca nella quale a malapena si riesce a identificare la figura del Cristo che, benché sia al centro della scena circondato da una grande aureola dorata, è completamente soffocato dalla miriade di personaggi. Dall’orizzonte una massa inquietante prende forma fino a definirsi in primo piano come una folla di volti abbruttiti, violenti, deformi, fino al parossismo dello scheletro. Quest’ultimo, vestito di verde e nero in primo piano, accentua il senso di grottesco della parata, che si manifesta come la metafora di una società avida e corrotta che Ensor denuncia attraverso la sua pittura. La processione è la materializzazione di una visione dell’artista nella quale il Cristo, emblema del massimo sacrificio per la cultura cattolica, entra idealmente in città in un inutile tentativo di redenzione. Tra slogan banali e la musica della banda, la folla sembra accogliere Gesù – che ha i tratti dello stesso Ensor – ma in realtà si pone arrogantemente in primo piano senza rispettare alcun ordine.

Autoritratto circondato da maschere

Dieci anni più tardi Ensor si ritrae ancora contornato da volti grotteschi e scheletri nel celebre Autoritratto circondato da maschere (39), in cui indossa egli stesso un buffo cappello piumato, come lo scheletro della precedente tela. Il dipinto appare come la materializzazione visiva della presa di distanza dell’artista dal mondo che lo circonda, costituito da travestimenti, scheletri e volti deformi. Per esteso, le maschere diventano la metafora stessa della vita pervasa da meschinità, falsità e amoralità.
La predominanza del rosso nei primi piani, che tende a sbordare dai confini del disegno, sottolinea ancora una volta l’aspetto grottesco: le teste scalano verso lo sfondo creando un senso di profondità in uno spazio in cui non vi è prospettiva; tutto è teso all’accentuazione di un senso claustrofobico. Al centro, l’artista fissa con sguardo consapevole lo spettatore, in un chiaro rimando formale alla ritrattistica fiamminga del Seicento, a Rembrandt e a Frans Hals (1582- 1666 ca.) (40) .

Dossier Arte - volume 3 
Dossier Arte - volume 3 
Dal Neoclassicismo ai giorni nostri