3 Pensare le culture nella storia dell’antropologia

3. Pensare le culture nella storia dell’antropologia

3.1 LA CONCEZIONE FUNZIONALISTA DI CULTURA

Come abbiamo visto, a partire da Tylor il primo concetto antropologico di cultura suscita fra gli studiosi un ampio dibattito. Si cerca di raffinarlo sempre meglio, definendone in modo articolato il contenuto e gli ambiti di applicabilità. Dopo l’evoluzionismo sorgono altri importanti paradigmi dell’antropologia che si differenziano proprio per il modo di intendere la cultura.

Il funzionalismo è un paradigma che si diffonde in Gran Bretagna a partire dagli anni Venti del Novecento grazie all’opera di Bronisław Malinowski ▶ L’AUTORE |, a cui si deve anche la prima ricerca etnografica sul campo, fra i nativi delle isole Trobriand del Pacifico occidentale.

Per Malinowski i costumi devono essere analizzati nel loro contesto attuale, in cui il ricercatore si immerge direttamente. Non è importante chiedersi, per esempio, come un dato rituale o una certa istituzione politica si siano sviluppati nel corso dei secoli, né come siano diventati quello che sono oggi, mentre li si osserva. È importante chiedersi: qual è la loro funzione nel “qui e ora” del contesto sociale in cui vengono osservati? I funzionalisti privilegiano dunque un’analisi soprattutto sincronica dei fenomeni culturali ritenendo assai difficile compiere un’analisi diacronica di lungo periodo nelle società extraoccidentali, in particolare in quelle cosiddette “a oralità primaria”, cioè prive di fonti scritte o documenti d’altro tipo utili per riscostruirne la storia precedente all’epoca coloniale.

La concezione funzionalista della cultura si delinea chiaramente a partire dalla cosiddetta “metafora organica” con cui Malinowski e i suoi allievi rappresentavano la società: come un qualunque organismo necessita per vivere di elementi fra loro interconnessi a sistema, ciascuno dei quali assolve a una ben precisa funzione (per esempio i polmoni e il cuore assolvono rispettivamente alle funzioni respiratoria e circolatoria indispensabili per la vita dell’organismo), così i molti tratti di una cultura – il sistema politico, le credenze, le forme rituali e così via – hanno ciascuno una ben precisa funzione, indispensabile al mantenimento dell’equilibro complessivo della società, affinché essa non si disgreghi.

Malinowski parlava di bisogni di base e di bisogni derivati, per assolvere ai quali vi sono, in ogni società, determinate istituzioni culturali (per esempio, al bisogno di trasmissione della conoscenza corrispondeva l’educazione come risposta culturale organizzata).

Esempio: i Sámi della Lapponia sono dotati di un sistema di parentela bilaterale | ▶ unità 7, p. 227 |, ovvero di una organizzazione sociale in cui i gruppi di parenti sono molto aperti e flessibili, rendendo subito immediati e cooperativi i rapporti. Una tipica spiegazione funzionalista di questo tratto della cultura sámi è che vivendo da secoli in un contesto caratterizzato da severe condizioni ambientali, come le zone di tundra dell’Artico europeo, la funzione della parentela bilaterale sarebbe quella di far sì che le famiglie di pastori mobili di renne trovino persone sempre disponibili ad aiutarsi fra loro in ogni regione del vastissimo territorio della Lapponia.

Il funzionalismo è stato spesso criticato per due motivi:

  • per un’analisi alquanto statica e astorica delle società, che vengono astrattamente immaginate in equilibrio, laddove sono in realtà caratterizzate da conflitti e continui mutamenti;
  • per la tendenza a spiegazioni semplicistiche e riduzioniste, in cui la complessa rete di elementi culturali necessaria a spiegare un costume o un’istituzione viene spesso ridotta a pochi fattori causali.

l’autore  Bronisław Malinowski

Bronisław Kasper Malinowski (1884-1942) nasce a Cracovia in una famiglia aristrocratica. Studia matematica e fisica all’università e, appena laureato, si appassiona all’antropologia leggendo Il ramo d’oro di James Frazer. Una volta trasferitosi a Londra nel 1910, inizia il dottorato in antropologia sociale alla London School of Economics. Studente brillante, nel 1914 parte per una ricerca in Papua Nuova Guinea dove vive per circa trenta mesi con la popolazione locale. Tornato in Europa, nel 1922 inizia a insegnare antropologia sociale alla London School of Economics e pubblica Argonauti del Pacifico occidentaleè considerato uno dei fondatori della scuola funzionalista britannica. Alcune tra le sue opere più famose sono Crimini e costumi nelle società selvagge (1926) e I giardini corallini e la loro magia (1935). Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trasferisce negli Stati Uniti, dove insegna all’univerisità di Yale dal 1938 fino alla sua morte. Nel 1967 avviene la pubblicazione postuma dei suoi diari di campo.

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3.2 LA CONCEZIONE STRUTTURALISTA DI CULTURA

A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss  L’AUTORE | delinea un approccio all’analisi dei fenomeni culturali basato sul concetto di struttura: la teoria dello strutturalismo antropologico. Si tratta di una concezione completamente nuova che emerge in particolare in alcune delle sue opere più importanti come Le strutture elementari della parentela (1949) e Antropologia strutturale (1958). Lévi-Strauss rielabora una serie di spunti teorici tratti dai linguisti russi, in particolare da Roman Jakobson (1896-1982), conosciuto nel 1942 mentre era insegnante alla New School for Social Research di New York.

La struttura, per Lévi-Strauss, non è l’insieme concreto delle parti costitutive di una costruzione, come in senso architettonico è la struttura di un edificio, con gli architravi, i pilastri, i muri portanti e così via; non è una organizzazione di elementi materiali esterna, per così dire, agli individui stessi: la struttura per Lévi-Strauss è uno schema concettuale della mente umana. È una sorta di forma mentis presente a livello inconsapevole (l’“inconscio strutturale”) che caratterizza il pensiero umano in ogni angolo del mondo e in ogni momento del tempo, rendendo pensabile e rappresentabile la realtà. Da questo punto di vista, non c’è alcuna differenza fra il pensiero dei “selvaggi” e il pensiero occidentale. La struttura, secondo Lévi-Strauss, si caratterizza per una logica di opposizioni binarie a fondamento di ogni manifestazione culturale: maschio/femmina, alto/basso, crudo/cotto, destra/sinistra, vivo/morto, natura/cultura e così via.

La molteplicità delle forme culturali che osservano gli antropologi nelle varie parti del mondo – il caleidoscopio apparentemente eterogeneo di miti, racconti, sistemi di credenze, forme di organizzazione sociale e così via – si può scomporre in elementi costitutivi elementari di cui si constata la continua ricomparsa in combinazioni diverse. La struttura è ciò che rende possibili e coerenti queste combinazioni.

Esempio: possiamo osservare tanti tipi di cristalli diversi, tutti però riconducibili alla formula matematica che definisce la struttura generale del cristallo.

Analogamente, in popolazioni diverse si possono riscontrare tanti racconti mitici differenti sulle stesse tematiche. Ma scomponendo formalmente questi racconti, dal punto di vista della trama, delle azioni, dei protagonisti, secondo l’analisi strutturalista di Lévi-Strauss, emergono degli elementi costitutivi di base, i  mitemi: una sorta di mattoncini logici che, combinati fra loro in vari modi, determinano i vari tipi di miti.

Gli elementi costitutivi non hanno un valore autonomo in sé, ma lo assumono rispetto agli altri elementi dell’insieme. Culture diverse realizzano combinazioni differenti per rendere pensabili ed esprimibili tanti particolari aspetti dell’esperienza umana: la vita, la morte, le relazioni sociali, il matrimonio e così via.

Nonostante fosse un paradigma molto influente in tanti ambiti della cultura occidentale del Novecento, dalla linguistica alla psicoanalisi, dalla critica letteraria alle scienze sociali, lo strutturalismo antropologico è stato criticato per vari motivi:

  • per un dissolvimento della dimensione storica delle società, perché la struttura inconscia è un dispositivo presente da sempre nella mente umana, al di là del mutamento storico, in quanto essa è ciò che rende pensabile il mutamento storico stesso;
  • per il presupposto di una concezione della natura umana unica e invariabile al di là delle diversità storiche e culturali;
  • per l’incapacità di tematizzare il mondo sensoriale e affettivo degli esseri umani, che se da un lato è quanto rende vitale ogni fenomeno culturale, dall’altro non può essere ridotto, nella sua complessità, ai soli termini della struttura come processo mentale logico-astratto.

l’autore  Claude Lévi-Strauss

Claude Lévi-Strauss (1908-2009) nasce a Bruxelles in una famiglia di origini ebraiche. È uno degli autori più prolifici e longevi del XX secolo. Si laurea in filosofia all’università della Sorbona nel 1931, ma l’influenza della sociologia di Émile Durkheim (1858-1917) e di Marcel Mauss (1872-1950) fu decisiva per la sua formazione sociologica e antropologica. Nel 1935 si trasferisce in Brasile per insegnare sociologia all’università di San Paolo, svolgendo brevi ricerche sul campo in Amazzonia e nel Mato Grosso. Tornato in Francia nel 1939, all’inizio della Seconda guerra mondiale, si trova costretto a fuggire negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni semitiche, dove, mentre insegna alla New School for Social Research di New York, viene influenzato dalla scuola di Boas e dai lavori del linguista Roman Jakobson. Da qui inizierà a elaborare il suo pensiero sul metodo strutturalista che si concretizza nell’articolo L’analisi strutturalista in Linguistica e in Antropologia, pubblicato nel 1945. Torna in Francia nel 1950, dove ricopre la cattedra di storia delle religioni comparate all’École pratique des hautes études. Muore nel 2009 a Parigi.

Tra le sue opere più importanti ricordiamo: Le strutture elementari della parentela (1949), Tristi Tropici (1955), Antropologia strutturale (1958), Il totemismo oggi (1962), Il pensiero selvaggio (1962).

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3.3 LA CONCEZIONE INTERPRETATIVA DI CULTURA

Per spiegare la concezione interpretativa di cultura proposta dall’antropologo americano Clifford Geertz ▶ L’AUTORE | all’inizio degli anni Settanta del Novecento, partiamo dal cosiddetto “esempio dell’occhiolino”.

Immaginiamo che un insegnante svolga la lezione in aula davanti ai suoi allievi e che un antropologo vi assista dotato di una macchina fotografica. Durante la lezione, l’antropologo osserva che un allievo contrae più volte rapidamente l’occhio destro come se avesse un tic. L’antropologo scatta una foto all’allievo ritraendo il suo volto nell’istante in cui l’occhio si chiude per effetto della contrazione muscolare. Più avanti, sempre durante la lezione, l’antropologo nota che un ragazzo si rivolge a un suo compagno di classe chiudendo di scatto l’occhio destro, cercando di non farsi notare. Poniamo in questo caso che il ragazzo non abbia un tic nervoso ma che stia ammiccando al suo compagno, forse per ironizzare sull’insegnante. L’antropologo scatta allora una seconda foto che ritrae, come la precedente, il volto del ragazzo nell’istante in cui l’occhio si chiude. Durante la pausa, l’antropologo è incuriosito da un gruppetto di studenti sulla porta dell’aula, fra i quali uno tenta goffamente di chiudere di scatto l’occhio destro suscitando sorrisetti ironici e battute da parte degli altri. Immaginiamo anche in questo caso che lo studente non abbia un tic, che non stia nemmeno ammiccando, ma che stia invece facendo una divertente parodia di un amico per i suoi compagni di classe. L’antropologo scatta e ottiene una foto del tutto simile alle precedenti.

Immaginiamo infine che l’antropologo rivolga distrattamente lo sguardo fuori dalla finestra dell’aula. Nel palazzo di fronte c’è una finestra aperta che dà su una stanza da bagno in cui l’antropologo vede di profilo un ragazzo davanti allo specchio che contrae rapidamente, più volte, l’occhio destro. Il nostro antropologo si affretta ancora una volta a fotografare. Immaginiamo che quel ragazzo del palazzo di fronte, davanti allo specchio, sia un giovane attore di una compagnia teatrale: deve entrare in scena, fare l’occhiolino alla protagonista e poi uscire. Siccome teme che non gli venga bene, si esercita più volte in casa prima della prova generale. In questo caso non è un ammiccamento, né un tic e nemmeno una parodia. Potremmo dire che si tratta di una prova.

Ora, rispetto a uno qualunque dei protagonisti di questa storia, Geertz ci esorta a chiederci: che cosa fa?

Se rispondiamo: «Chiude rapidamente l’occhio destro per effetto di una contrazione muscolare», diamo una descrizione rada (thin description); se invece rispondiamo: «Sta facendo una parodia di un suo amico in modo ironico e goffo per suscitare a sua volta simpatia fra i suoi compagni di classe…» facciamo una descrizione densa (thick description).

La descrizione rada non è sbagliata: è ciò che catturano le varie foto, ovvero l’aspetto fisico, oggettivo e visibile dell’azione, che è sempre utile e importante da considerare. Ma ciò non basta per comprendere effettivamente ciò a cui stiamo assistendo, perché, come è del tutto evidente, quel medesimo atto ha significati molto diversi per i vari protagonisti della nostra storia.

Per Geertz l’antropologia culturale è una disciplina interpretativa che si trova costantemente in oscillazione fra questi due tipi di descrizione: si parte dal livello rado, oggettivo, visibile, e si cerca di renderlo via via più denso. In particolare, la descrizione densa può essere così definita: una descrizione che non si propone soltanto di cogliere gli aspetti concreti, o le cause storiche, o gli effetti economici dell’agire sociale, ma che cerca di cogliere i significati che l’azione ha per chi la compie in quel momento. I cosiddetti “significati nativi” diventano quindi gli elementi più importanti, gli atomi costitutivi di base di ogni cultura.

Nella concezione interpretativa della cultura è importante indagare i sistemi politici, le forme di parentela, le cerimonie, i rituali, i miti nella loro complessità storica, sociale ed economica, ma è importante soprattutto cercare di cogliere il senso che essi hanno nell’esperienza quotidiana delle persone che vi credono e che li praticano.

Esempio: consideriamo la popolazione Fore della Papua Nuova Guinea, che come gli Shuar dell’Amazzonia praticavano fino agli anni Cinquanta del Novecento rituali di antropofagia. Se l’antropofagia shuar era un atto cannibalico compiuto in un contesto di guerra contro i propri nemici, per i Fore aveva un significato completamente diverso: non era legato alla guerra, ai nemici, ai combattimenti, ma a ciò che gli antropologi chiamano “sepoltura per ingestione”, cioè un atto compiuto nei confronti di un parente defunto molto amato. I Fore credevano che, ingerendone una piccola porzione, avrebbero ospitato per sempre il defunto nel proprio corpo; nella loro cultura era la forma più alta di onore e di rispetto.

Nella sua opera fondamentale, Interpretazione di culture (1973), Geertz dimostra che: «l’antropologia culturale non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una disciplina interpretativa in cerca di significati». Per Geertz le culture sono testi. Sono fatte di azioni, comportamenti, idee, percezioni, che non si possono spiegare in senso definitivo come un fisico spiega un fenomeno naturale ricavandone una formula matematica; si possono solo comprendere tentando di interpretarne i significati.

La concezione interpretativa della cultura, in forme più o meno ampliate e aggiornate rispetto alla iniziale teoria geertziana, è oggi il paradigma teorico di riferimento più utilizzato nell’antropologia contemporanea. Il principale problema che questa prospettiva pone deriva dall’inaccessibilità diretta dei significati nativi. Il significato non può essere colto in senso oggettivo, completo e definitivo come si coglie una mela da un albero, ma può essere solo gradualmente interpretato e tradotto, parlando, agendo e vivendo a stretto contatto con i propri interlocutori. È quindi una prospettiva di ricerca che non può prescindere dalla soggettività storico-culturale del ricercatore.

l’autore  Clifford Geertz

Clifford Geertz (1926-2006) nasce a San Francisco in un contesto rurale nel periodo della Grande Depressione, che, come egli stesso ha ricordato, non gli dava aspettative di poter andare all’università. Il servizio prestato per la Marina degli Stati Uniti dal 1943 al 1945, però, gli dà questa opportunità. Laureatosi nel 1950 all’Antioch College (Ohio), prosegue gli studi presso il Department of Social Relations dell’università di Harvard a Boston, dove consegue il dottorato nel 1956, interessandosi di letteratura, arte e scienze sociali. Compie le prime ricerche sul campo a Giava (1952) e a Bali (1958) con la moglie Hildred Storey Geertz, anche lei antropologa. Nel 1970 diventa il primo professore di scienze sociali all’Institute for Advanced Study di Princeton. Postosi criticamente nei confronti dello strutturalismo e degli approcci funzionalisti dell’antropologia britannica, è considerato il padre dell’antropologia interpretativa. Muore a Filadelfia nel 2006. Tra le sue opere più famose: Antropologia interpretativa (1983) e Opere e vita: l’antropologo come autore (1988).

per lo studio

1. In che cosa consiste la metafora organica del funzionalismo?

2. Che cosa si intende con l’espressione “descrizione densa”?

3. Perché Geertz considera le culture dei testi?


  Per discutere INSIEME 

La conoscenza per l’antropologia è di tipo relazionale: è prodotta cioè dall’interazione tra ricercatore e interlocutori. La situazione sociale dell’intervista, strumento molto usato dagli antropologi, influisce sulle informazioni che se ne ricavano. Dividetevi in coppie, scegliete un argomento a piacere, per esempio un fatto di cronaca che vi ha colpito o le impressioni sull’ultimo film che avete visto, e provate a intervistarvi a vicenda sperimentando sia la posizione dell’intervistato sia quella dell’intervistatore. Poi discutete insieme di come vi siete sentiti nei due diversi ruoli.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane