3 La Scuola di Chicago e l’interazionismo simbolico

3. La Scuola di Chicago e l’interazionismo simbolico

3.1 LA SCUOLA DI CHICAGO E GLI STUDI SULLA CITTÀ

A partire dagli anni Venti del secolo scorso, negli Stati Uniti inizia a prendere forma un indirizzo di studio della società che, nel corso dei decenni successivi, si distinguerà in maniera profonda sia dalla tradizione struttural-funzionalista di Parsons sia dalla teoria critica di matrice europea, rappresentata dalla Scuola di Francoforte.

Si tratta di una tradizione che prende avvio con la cosiddetta “Scuola di Chicago”, dal nome della città in cui se ne posero le basi di studio. Prima della Seconda guerra mondiale, alcuni sociologi attivi presso l’università di Chicago si specializzarono nello studio dei problemi sociali che emergevano nei nuovi contesti urbani, quale rapido risultato dei processi di urbanizzazione, generati dalla nascita delle industrie alla fine dell’Ottocento, e di migrazione dall’Europa verso gli Stati Uniti.

I ricercatori legati a questa tradizione di studi ritenevano l’ambiente urbano un fattore capace di influenzare il comportamento degli individui e delle comunità: per questa ragione era per loro fondamentale studiare la forma e le caratteristiche dell’ambiente urbano in rapporto alle dinamiche relazionali fra gli individui che vi abitavano e vi lavoravano.

Uno dei libri più significativi su questo argomento, scritto nel 1925 da due dei fondatori della Scuola di Chicago, Robert Ezra Park | ▶ L’AUTORE | e Ernest Watson Burgess | ▶ L’AUTORE, p. 322 |, è intitolato La città e incentrato sulle trasformazioni sociali della città di Chicago nella prima metà del Novecento.

Una delle idee portanti del libro è che la città possa essere analizzata come un ambiente in cui tutto è in relazione; da qui la sua suddivisione in zone, caratterizzate da attività differenti e da gruppi diversi di persone che vi abitano e vi lavorano. Questo approccio di studio viene chiamato modello di analisi delle zone concentriche della città. I due sociologi notano, infatti, che nelle grandi città americane è ricorrente l’esistenza di una zona centrale – solitamente caratterizzata dalla presenza del quartiere degli affari – circondata da una seconda zona circolare costituita da zone di transizione, che raccolgono, generalmente, costruzioni industriali ed edifici in disuso. Segue un terzo cerchio, caratterizzato dalle zone residenziali dei lavoratori e degli operai, che includono anche le case dei ceti popolari. Una quarta zona è poi rappresentata dalla cerchia residenziale, composta dalla cerchia di case residenziali delle classi medie mentre, al limite della città, si rilevano le zone suburbane più distanti, costituite dalle case dei pendolari.

Se questo modello viene messo a confronto con la struttura delle città italiane, si notano forti differenze che sono spesso determinate dalla loro impostazione medievale e rinascimentale. Tuttavia, il modello dimostra ugualmente la sua validità perché rivela, in tutti i casi, che l’organizzazione della vita sociale è, in ogni luogo, in relazione con la forma dell’ambiente fisico urbano.

L’idea alla base del libro di Park e Burgess è che le città costituiscono ambienti con un proprio equilibrio, organizzati in base a particolari dinamiche, come la suddivisione di determinate zone tra differenti gruppi sociali. Essi notano, per esempio, che alcune parti della città si organizzano in modo distinto da altre poiché abitate da gruppi con caratteristiche economiche, sociali e culturali omogenee.

Di fondamentale importanza il fatto che questo modello servirà a Park, Burgess e altri studiosi della Scuola di Chicago come punto di partenza per analizzare alcuni dei problemi sociali tipici delle grandi città, come la criminalità e la disoccupazione.

l’autore  Robert Ezra Park

Robert Ezra Park (1864-1944) è un sociologo americano, noto soprattutto per il suo lavoro di ricerca sulle minoranze etniche, in particolare afroamericane, oltre che sull’“ecologia umana”, un’espressione da lui stesso creata per riferirsi al comportamento dei gruppi nello spazio urbano. Dopo aver svolto attività di giornalista, inizia a insegnare sociologia ad Harvard nel 1904, per poi trasferirsi all’università di Chicago. Qui avvia una grande quantità di ricerche sul campo, esplorando alcuni importanti problemi sociali ancora oggi fondamentali, come le relazioni etniche, le migrazioni e le disuguaglianze sociali.

l’autore  Ernest Watson Burgess

Ernest Watson Burgess (1886-1966) è un sociologo americano che dedica il proprio lavoro allo studio delle trasformazioni della famiglia come unità base della società e delle trasformazioni sociali della città di Chicago. Rivolge la sua attenzione anche all’istituzione del matrimonio: nel suo libro Predire successo o fallimento nel matrimonio (1939) sviluppa un sistema scientifico per prevedere il tasso di riuscita di un’unione coniugale. Dopo aver ricevuto il dottorato dall’università di Chicago nel 1913, insegna sociologia in altri atenei, per poi ritornare nella stessa Chicago, dove inizia una solida collaborazione con Robert Ezra Park.

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  esperienze attive

Le differenti zone della tua città Prova a identificare in che modo nella città o nel paese in cui vivi esistono differenti zone, associate a gruppi sociali diversi, come hanno fatto Park e Burgess in relazione alla Chicago di inizio Novecento. È possibile secondo te identificare una zona “centrale”, caratterizzata dal quartiere degli affari, dove per esempio ci sono i negozi più costosi? C’è invece una zona residenziale, dove vivono le classi medie? E, infine, c’è una zona simile a quella che i sociologi della Scuola di Chicago definivano come “di transizione”, con costruzioni industriali o edifici in disuso, spesso accompagnata da forme di marginalità sociale? Come ulteriore esercitazione potresti scegliere una di queste zone, quella che ti sembra più interessante o più facilmente raggiungibile, recarti in questa parte della città e descrivere in un tema le persone che incontri e le situazioni che colpiscono maggiormente la tua curiosità.

3.2 L’interazionismo simbolico

Dopo la Seconda guerra mondiale, la tradizione teorica e i metodi di ricerca della Scuola di Chicago continuano a orientare con forza studiosi attivi in altre università statunitensi. In questa fase, la linea teorica sociologica capace di maggiore dialogo con l’impostazione sviluppatasi a Chicago è quella dell’interazionismo simbolico. Si tratta di un approccio sociologico sviluppatosi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, che continua a essere molto influente anche nella sociologia contemporanea.

Dal punto di vista teorico, l’interazionismo simbolico affonda le sue origini nella filosofia americana pragmatista e in particolare nel lavoro di George Herbert Mead (1863-1931). Egli considerava gli individui come protagonisti delle interazioni e dei ruoli sociali, invece che come soggetti passivi influenzati da grandi strutture e sistemi sociali (come nelle descrizioni del sistema sociale date da Comte, Marx, Durkheim e, poi, da Parsons).

Le idee di Mead sono state riprese dal suo allievo Herbert George Blumer (1900-1987), che ne ha tradotto i principi filosofici in ambito sociologico, coniando tra l’altro l’espressione “interazionismo simbolico”. Per Blumer, gli individui agiscono rispetto al mondo che li circonda in base ai significati che essi attribuiscono alle persone e agli oggetti che incontrano. Tuttavia, tali significati sono creati nel corso dell’interazione tra gli stessi attori sociali, i quali dunque contribuiscono attivamente a creare i significati fondamentali per la vita di gruppo.

Esempio: alcuni bambini giocano con le figurine. Le figurine sono normalmente dei prodotti da collezione da raccogliere in un album ma, quando i bambini se le scambiano, nel corso delle loro interazioni, attribuiscono un particolare valore ad alcune di esse, identificando per esempio delle differenze specifiche tra una figurina e un’altra, e in tal modo stabiliscono un intero mondo di significati attorno a questi semplici oggetti, creando spesso nuovi giochi di gruppo. Nel corso delle loro interazioni, dunque, attraverso l’attribuzione creativa di particolari significati, i bambini contribuiscono a dare forma ai riferimenti e alle regole del proprio passatempo basato sulle figurine.

Vediamo ora più in dettaglio il lavoro di due dei sociologici considerati tra i maggiori rappresentanti della tradizione dell’interazionismo: Erving Goffman e Howard Becker.

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3.3 Goffman e l’approccio drammaturgico alla società

Erving Goffman | ▶ L’AUTORE | è il più noto esponente di un ramo della sociologia conosciuto come “microsociologia”, un termine che viene utilizzato, in contrasto con “macrosociologia”, per descrivere quelle applicazioni della disciplina che non si occupano della società dal punto di vista delle sue strutture (come nel caso di Parsons), ma si concentrano sulla comprensione delle forme di interazione tra i singoli individui. Pur non avendo mai dichiarato un’esplicita adesione all’interazionismo simbolico, Goffman ne è considerato l’esponente di maggior spicco, proprio perché, più e meglio di altri, è riuscito a descrivere come le persone costruiscono la propria identità attraverso i più semplici e banali comportamenti di ogni giorno, interagendo con gli altri individui.

l’autore  Erving Goffman

Erving Goffman (1922-1982) è uno dei più importanti sociologi nord-americani della seconda metà del Novecento. Ottiene il dottorato all’università di Chicago nel 1953, compiendo i suoi studi nel solco della tradizione di ricerca della Scuola di Chicago, ma venendo poi influenzato anche dal lavoro di altri studiosi, tra cui in particolare Émile Durkheim. Nel 1958 inizia a insegnare all’università della California a Berkeley, dove successivamente diventa professore di sociologia, sviluppando una propria prospettiva originale, incentrata sulla teoria dell’interazionismo simbolico e sull’approccio definito “drammaturgico”.

La metafora del teatro
Il primo e forse più celebre lavoro di Goffman è intitolato La vita quotidiana come rappresentazione, pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1956 e ripubblicato successivamente negli Stati Uniti nel 1959. In questo libro egli adotta la metafora del teatro per fornire una chiave di lettura del modo in cui gli individui si presentano pubblicamente davanti agli altri: proprio per questa ragione, la sua prospettiva è stata definita come un approccio drammaturgico allo studio della società.

Goffman sostiene che la vita sociale prende forma e si organizza attraverso le azioni quotidiane compiute dagli individui che sono il più delle volte routinarie. Tali azioni possono essere comprese attraverso la metafora dello spettacolo teatrale: quando gli individui si incontrano, si comportano come degli attori teatrali, sia perché devono rappresentare se stessi in un certo modo, sia perché nel fare questo devono collaborare con gli altri affinché la rappresentazione della vita sociale si svolga senza intoppi, in modo da rassicurare reciprocamente tutti i partecipanti all’interazione.

Uno degli elementi particolarmente efficaci nella descrizione di Goffman delle interazioni tra gli individui è che questi solitamente offrono una particolare rappresentazione di se stessi agli altri. Per esempio, quando, di fronte agli amici, vogliono mostrarsi esperti di qualcosa, essi utilizzano, secondo Goffman, delle tecniche di “auto-presentazione” e cercano di “gestire l’impressione” che danno. Ovviamente, il successo di queste performance rappresentative dipende anche dalle reazioni del “pubblico” che hanno di fronte, che influenzano le strategie attraverso cui si rappresentano e che contribuiscono a modificare il modo di presentarsi nel corso dell’interazione.

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Le due dimensioni spaziali dell’interazione
Un’altra delle intuizioni dell’approccio drammaturgico di Goffman è l’idea che le interazioni possano essere studiate considerando due dimensioni spaziali particolari, ancora una volta tratte dal mondo del teatro:

  • la prima dimensione spaziale è quella del frontstage o della ribalta, in cui gli individui presentano la propria identità pubblica a chi gli sta di fronte a partire da certi ruoli che sono adeguati o attesi. In altre parole, fanno ciò che gli altri si aspettano che facciano;
  • la seconda dimensione spaziale è, invece, quella del backstage o del retroscena, dove le persone possono uscire dal ruolo specifico che devono rappresentare e, dunque, violare consapevolmente le loro identità pubbliche.

Esempio: per illustrare questa differenza, uno degli esempi proposti da Goffman è quello delle stanze in un’abitazione. Il salone e la sala da pranzo sono spazi in cui si esibisce il frontstage della vita sociale familiare, ovvero i luoghi in cui si invitano gli amici e si realizza la performance dell’ospitalità. Nel salotto, dunque, tutto è ordinato e vengono messe in mostra foto di famiglia, quadri, soprammobili e accessori preziosi. Al contrario, le camere da letto o il bagno sono ritenute aree del backstage, spazi privati in cui i membri della famiglia possono ritirarsi ed essere se stessi. In queste stanze non è difficile trovare vestiti in disordine e accessori personali piuttosto che oggetti di rappresentanza. Ovviamente, il confine tra questi due spazi dell’interazione non è così netto e definito e Goffman più volte sottolinea l’imbarazzo che si può creare socialmente se il confine tra queste due regioni viene trasgredito, per esempio quando un ospite entra per sbaglio nella camera da letto disordinata, scoprendo magari che lì sono stati accatastati tutti i vestiti per lasciare pulito e ordinato il salotto!

Critiche a Goffman
Il pensiero di Goffman ha influenzato enormemente i sociologi di tutto il mondo e il suo lavoro rimane uno dei più stimolanti e creativi della sociologia moderna.

Tuttavia le sue idee sono state anche oggetto di alcune critiche, relative soprattutto al fatto che egli non si sia interessato, all’interno della sua teoria microsociologica, delle forme di disuguaglianze strutturali della società, come per esempio della povertà, concentrandosi sui comportamenti e i contesti tipici della classe media americana, bianca e laureata. Un’altra critica ricorrente nei suoi confronti è stata che, a differenza di altri studiosi, egli non ha dedicato particolare attenzione agli studi teorici di chi lo ha preceduto, presentando spesso il proprio lavoro come se fosse a quelli estraneo e indipendente. D’altronde, proprio questa sua riluttanza a dedicare spazio ai grandi dibattiti teorici della sociologia è una delle qualità dei suoi libri, che rimangono ancora oggi particolarmente leggibili e contemporanei.

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3.4 BECKER E LA TEORIA DELL’ETICHETTAMENTO

Un’altra delle figure più influenti dell’interazionismo simbolico è stato il sociologo statunitense Howard Saul Becker | ▶ L’AUTORE |. Egli è diventato particolarmente noto per i suoi studi sulle forme di devianza, ma ha anche studiato e scritto ampiamente a proposito di altri argomenti, come l’arte, la musica e il lavoro. A differenza di Goffman e di altri studiosi appartenenti alla tradizione teorica dell’interazionismo simbolico, Becker si è apertamente dichiarato come sociologo interazionista e diretto continuatore della tradizione della Scuola di Chicago, città dove peraltro si era laureato.

Uno dei suoi contributi fondamentali ha riguardato in che modo, nella società, alcune persone o attività vengono definite come “devianti”. In una famosa ricerca sui fumatori di marijuana, egli sostiene che la devianza non è una caratteristica intrinseca di una particolare persona, bensì un’etichetta attribuita da parte dei membri della società nei confronti di coloro che ne infrangono le regole e i valori. La conseguenza principale di questo ragionamento è che trasgredire le norme non è in sé condizione sufficiente a essere “devianti”: è necessario essere definiti tali dagli altri attraverso un processo di “etichettamento”. Inoltre, dato che a gruppi sociali diversi corrispondono regole e valori diversi, un medesimo comportamento potrà essere considerato come un’azione deviante in un contesto, ma non in un altro.

Becker e altri esponenti della teoria dell’etichettamento sottolineano anche che le differenze di classe e di razza svolgono un ruolo importante nel processo di assegnazione di etichette di devianza ad alcune persone piuttosto che ad altre. È ciò che si verifica oggi con i cittadini stranieri, etichettati spesso con troppa facilità come potenziali “criminali”.

La teoria dell’etichettamento di Becker è stata criticata per essere eccessivamente “giustificatoria” nei confronti dei devianti, senza dunque spiegare perché alcune persone tendono a infrangere le regole sociali, mentre altre tendono a rispettarle. D’altra parte, però, questo approccio continua a essere un punto di vista influente nella sociologia della devianza, proprio perché permette di non colpevolizzare a priori chi si trova in condizioni svantaggiate e marginali all’interno della società.

l’autore  Howard Saul Becker

Howard Saul Becker (n. 1928) è uno dei sociologi statunitensi più importanti tuttora viventi, nonché l’ultimo rappresentante diretto della tradizione sociologica della Scuola di Chicago, dove ottiene il dottorato nel 1951. Le sue prime ricerche si concentrano sulle figure sociali devianti, un tema trattato nel sul libro più famoso, Outsiders (1963), che considera la devianza come risultato di una costruzione sociale. Inoltre contribuisce alla sociologia con una serie di riflessioni sui metodi di ricerca sociale e sul lavoro del ricercatore, formulando una visione originale della metodologia della ricerca sociale riassunta nel volume Trucchi del mestiere (1998).

per lo studio

1. Perché secondo i primi sociologi di Chicago era importante studiare le dinamiche sociali tipiche delle città?

2. Che cosa significa la definizione di “approccio drammaturgico” allo studio della società, caratteristico di Goffman?

3. In che cosa consiste la “teoria dell’etichettamento” di Becker?


  Per discutere INSIEME 

Goffman analizza le interazioni sociali alla luce di una metafora teatrale, in cui possiamo riconoscere alcune situazioni di “ribalta” e altre di “retroscena”. Discutendo in classe, pensate a una situazione appartenente alla vita quotidiana in cui è possibile identificare queste due dimensioni e individuate insieme quali sono gli aspetti che emergono nella ribalta e quali invece nel retroscena.

Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Dialoghi nelle Scienze umane - volume 2
Antropologia, Sociologia, Psicologia – Secondo biennio del liceo delle Scienze umane