T1 - Bronisław Malinowski, Che cos’è dunque questa magia dell’etnografo?

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Bronisław Malinowski

Che cos’è dunque questa magia dell’etnografo?

Nel capitolo introduttivo di Argonauti del Pacifico occidentale (1922), Bronisław Malinoswki offre una sorta di “manifesto” della ricerca etnografica, discutendone le difficoltà e i metodi, finalizzati a «cogliere il punto di vista del nativo».

Nella prima parte della mia ricerca etnografica sulla costa meridionale, fu soltanto quando fui solo nel distretto che cominciai a fare qualche progresso e, in ogni caso, scoprii dove stava il segreto di un efficiente lavoro sul terreno. Che cos’è dunque questa magia dell’etnografo, con la quale egli può evocare lo spirito autentico degli indigeni, la vera immagine della vita tribale? Come sempre, il successo può essere ottenuto solo mediante l’applicazione paziente e sistematica di un certo numero di regole di buon senso e di principi scientifici ben noti […]. I principi metodologici possono essere riuniti in tre categorie principali: innanzitutto, naturalmente, lo studioso deve possedere reali obiettivi scientifici e conoscere i valori e i criteri della moderna etnografia; in secondo luogo, deve mettersi in condizioni buone per lavorare, cioè, soprattutto, vivere senza altri uomini bianchi proprio in mezzo agli indigeni. Infine, deve applicare un certo numero di metodi particolari per raccogliere, elaborare e definire le proprie testimonianze. Poche parole vanno dette su queste tre pietre angolari del lavoro sul terreno […].

L’etnografo che lavora sul terreno deve, con serietà ed equilibrio, percorrere l’intera estensione dei fenomeni in ogni aspetto della cultura tribale studiata, senza distinzione fra ciò che è banale, incolore o comune e ciò che colpisce come straordinario e fuori dal consueto. Nello stesso tempo, nella ricerca si deve analizzare l’intero campo della cultura tribale in tutti i suoi aspetti. […] Un etnografo che si concentri sullo studio della sola religione o della sola organizzazione sociale ritaglia un campo d’indagine artificiale e incontrerà seri ostacoli nel suo lavoro. Dopo aver stabilito questa regola assai generale, passiamo a considerazioni di metodo più dettagliate. Secondo quanto si è già detto, l’etnografo che lavora sul terreno si trova dinanzi al compito di registrare tutte le regole e le regolarità della vita tribale, tutto ciò che è permanente e fisso, e di delineare l’anatomia della cultura degli indigeni, di descrivere la costituzione della loro società. Ma tutte queste cose, sebbene cristallizzate e fisse, non sono mai formulate. Non vi è nessun codice di leggi scritte o espresse esplicitamente e l’intera tradizione tribale degli indigeni, l’intera struttura della loro società è incorporata nel più fuggevole di tutti i materiali: l’essere umano. Ma nemmeno nella mente dell’uomo e nella sua memoria queste leggi si trovano formulate in modo preciso. Gli indigeni obbediscono alle forze e agli imperativi del codice tribale ma non li comprendono, allo stesso modo in cui obbediscono ai lori istinti e ai loro impulsi ma non saprebbero formulare una sola legge di psicologia. […] Proprio come un membro qualsiasi di una moderna istituzione, sia essa lo stato, la chiesa o l’esercito, ne è parte e vi si trova dentro ma non ha alcuna immagine dell’azione totale che ne risulta e ancor meno è in grado di fornire un resoconto della sua organizzazione, così sarebbe vano tentar di fare domande astratte di carattere sociologico a un indigeno. […] Anche se non possiamo porre domande a un indigeno riguardo a regole astratte e generali, possiamo però sempre chiedergli come viene trattato un dato caso. […] Ma un caso immaginario, o ancora meglio un avvenimento reale, stimoleranno l’indigeno a esprimere la sua opinione e a fornire abbondanti informazioni.

Rispondi

1. Quali sono, secondo Malinowski, le tre «pietre angolari» del lavoro sul terreno?

2. Perché è importante che l’etnografo viva a stretto contatto con gli indigeni, invece di recarsi tra loro soltanto per documentare il fenomeno specifico che vuole studiare?

3. Come fa l’etnografo ad accedere alla cultura degli indigeni e a descrivere la costituzione della loro società?

4. Dove “si trova” la cultura e come può fare il ricercatore per farla emergere?

 >> pagina 89 

|⇒ T2  Lila Abu-Lughod

Problemi di riposizionamento

L’antropologa sociale Lila Abu-Lughod ha svolto un periodo di ricerca etnografica vivendo per due anni (1978-1980) con una tribù di beduini del deserto egiziano, gli Awlad Ali. Il libro Sentimenti velati è un ritratto della quotidianità vissuta soprattutto con le donne della tribù, dove onore e poesia sono al centro della complessità delle relazioni, anche gerarchiche, tra le varie generazioni. Nell’introduzione, l’autrice descrive il lavoro di campo e l’immersione graduale all’interno della tribù. Qui un estratto in cui riflette sul proprio posizionamento.

[…] Più di tutto, mio padre, accompagnandomi, aveva mostrato alle persone con cui avrei vissuto, e sulla cui buona opinione e generosità sarebbero dipesi la mia vita e il mio lavoro, il fatto che ero una figlia di buona famiglia, nelle cure e sotto protezione dei parenti maschi, anche quando il conseguimento dell’istruzione mi aveva indotta a posizioni potenzialmente compromettenti. Lo Haj e i suoi parenti presero seriamente l’impegno nei confronti di mio padre che aveva dato loro il compito sacro di proteggermi. […]

L’altra conseguenza dell’essere stata introdotta nella comunità come figlia di mio padre fu che venni inserita e potei acquisire il ruolo di figlia adottiva. La mia protezione/restrizione mi assegnava a questa relazione, ma questo era dovuto anche alla mia partecipazione al gruppo domestico, alla mia identificazione con il gruppo di parenti e al processo con cui appresi la cultura, una sorta di socializzazione al ruolo. Sebbene non persi mai completamente il mio status di ospite nella loro casa, questo fu sostituito gradatamente dal mio ruolo di figlia. I pezzi di carne scelta che inizialmente venivano messi da parte per me, vennero invece offerti ad altri ospiti. Fui messa in disparte quando avevamo compagnia, mi ritrovai a dare il mio contributo al lavoro domestico più di quanto avessi desiderato e mi venne assegnato il turno nelle faccende di casa. Occasionalmente gli uomini mi lanciavano ordini ad alta voce e si sentivano liberi di svegliarmi a tarda notte insieme alle donne e alle ragazze per aiutare a servire il tè ai visitatori.

Non vorrei dare l’impressione che questo ruolo mi fosse imposto. Avevo accettato di collaborare. In una società in cui la parentela definisce la maggior parte delle relazioni, era importante avere un ruolo di parentela fittizia in modo da partecipare. Sapevo cosa ci si aspettava da una figlia ubbidiente e trovavo difficile la resistenza a soddisfare tali aspettative. Non tutto l’aiuto che diedi in casa fu determinato dal mio status di figlia. Ero grata alle persone del mio gruppo domestico per avermi accolta generosamente nelle loro vite e per avermi considerata un membro della famiglia. Sebbene non fossi di gran peso, mi sentivo a disagio a non far nulla quando le donne e le ragazze lavoravano così duramente.

[…] In questi periodi, mentre riempivo i contenitori d’acqua, raccoglievo la paglia per il forno, trasportavo vassoi di pane o pelavo un numero infinito di zucchine per la cena, mi preoccupavo del fatto che non stavo riempiendo di informazioni il mio quaderno di appunti e che il tempo passava. Mi capitava occasionalmente di risentirmi, ma perlopiù sentivo che prima venivano le mie responsabilità personali nei confronti di individui che avevano cura di me e che mi trattavano non come una ricercatrice ma come un membro della loro casa. La natura delle mie relazioni sociali con i beduini, il tipo di ricerca che fui in grado di condurre, furono influenzate da altri aspetti della mia identità. Primo, non avrei mai potuto essere una figlia se non fossi stata di genere femminile. In quanto donna spesso mi trovai ad affrontare difficoltà non incontrate dai ricercatori uomini, ma potei anche contare su vantaggi quali l’accesso al mondo femminile e alla grandevolezza inaspettata delle relazioni al suo interno. Nelle prime settimane cercai di andare avanti e indietro, tra il mondo maschile e femminile. Gradualmente mi resi conto che avrei dovuto dichiarare la mia lealtà fermamente in modo da essere accettata in entrambi. […] Così optai per il mondo delle donne, rifiutando sempre più di lasciare la loro compagnia quando gli uomini chiamavano. Questa scelta incontrò l’approvazione silenziosa delle donne e delle ragazze e fu così che venni accolta nel loro mondo, coinvolta nelle loro attività e resa partecipe in privato dei loro segreti. […] Nonostante il permanente elemento di asimmetria, legato al fatto che stavo scrivendo su di loro e li osservavo forse un po’ più da vicino di quanto non facessero con me, per la maggior parte delle volte sentivo che ciò che ci univa era l’essere individui che rispondevano a situazioni in cui partecipavamo alla pari.

Rispondi

1. Quali aspetti dell’identità dell’autrice hanno più influenzato il tipo di relazioni instaurate con gli informatori?

2. Che cosa ha comportato per l’antropologa passare dallo status di ospite al ruolo di figlia? Come sono cambiate le relazioni all’interno della casa? Secondo te, questo riposizionamento è stato positivo per la sua ricerca etnografica?

3. Individua nel testo alcuni momenti di riflessione dell’antropologa legati alla sua posizione sul campo. Com’è cambiata la percezione di sé e degli altri?

4. Sottolinea nel testo i momenti di “osservazione partecipante”. Di quale problema metodologico parla l’antropologa? Discutine con i tuoi compagni.

 >> pagina 91 

|⇒ T3  Franz Boas

Il relativismo culturale

Con il libro Antropologia e Vita Moderna, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1928, Franz Boas mostrò come l’antropologia fosse in grado di far luce su alcune delle questioni fondamentali della società moderna, quali per esempio le teorie razziali e l’idea di progresso. Al fine di intraprendere uno studio scientifico di altre forme di civiltà, infatti, l’antropologo deve essere pronto ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della propria.

Nell’applicazione pratica della scienza sociale non esistono modelli assoluti. Dire di voler raggiungere il meglio per il maggior numero di persone non serve a niente se non vi è poi accordo su ciò che intendiamo con questo “meglio”.

Questa difficoltà si accentua di molto appena guardiamo oltre i confini della nostra civiltà moderna. Gli ideali sociali dei negri centroafricani, degli australiani, degli eschimesi e dei cinesi sono così diversi dai nostri da rendere incompatibili le loro valutazioni sul comportamento dell’uomo e le nostre. Ciò che è considerato un bene da alcuni è considerato un errore da altri.

Sarebbe un errore credere che le nostre abitudini sociali siano estranee al giudizio che noi esprimiamo nel valutare le diverse maniere di vita e i diversi modi di pensiero. Un solo esempio tratto dalle reazioni a quelle che definiamo “buone maniere” potrebbe illustrare quanto sia forte l’influenza del comportamento consuetudinario. Noi siamo estremamente sensibili a comportamenti diversi: buone maniere a tavola, etichetta nel vestire, e una certa riservatezza, ci sono proprie. Allorché ci imbattiamo in abitudini differenti a tavola, in modi di vestire estranei o in un’espansività inusuale, avvertiamo come una repulsione, e la descrizione delle abitudini a noi aliene è influenzata dalle nostre valutazioni.

[…] Un’obiettiva, severa, ricerca scientifica potrà essere condotta solo se riusciamo ad elaborare gli ideali di ogni singolo popolo per includere, nel nostro studio oggettivo generale, i valori culturali così come questi vengono colti presso i differenti rami dell’umanità.

L’emancipazione dalla nostra cultura, che si richiede all’antropologo, non è facilmente perseguibile; noi infatti siamo fortemente portati a pensare che il comportamento in cui siamo cresciuti sia naturale per tutta l’umanità e che, per ciò stesso, si sia necessariamente sviluppato ovunque. Di conseguenza, uno degli scopi fondamentali dell’antropologia scientifica è quello di apprendere quali tratti di comportamento (se esistono) sono organicamente determinati – e quindi appartengono a tutta l’umanità – e quali invece sono dovuti alla cultura nella quale si vive.

[…] Lo studio obiettivo di diverse culture sviluppatesi lungo linee storicamente indipendenti o cresciute in modo fondamentalmente distinto, permette all’antropologo di stabilire quali fasi della vita sono valide per tutta l’umanità e quali sono determinate culturalmente. Aiutato da questa conoscenza, egli cerca un punto di vista che gli permetta di guardare alla nostra civiltà criticamente e di rendere possibile uno studio comparato dei valori, facendo proprio uno spirito relativamente immune dalle emozioni evocate dal comportamento automaticamente regolato di cui egli partecipa, come membro della nostra società. […] Una ricerca obiettiva può essere raggiunta solo attraverso una paziente ricerca nella quale le nostre valutazioni emotive, e i nostri atteggiamenti, vengono mantenuti coscienziosamente sullo sfondo. I dati psicologici e sociali, ottenuti in questo modo – validi per l’intero genere umano – devono essere considerati basilari per tutta la cultura, e dunque non mutevoli.

Così facendo, uno studio severo e obiettivo delle culture straniere, gioverà alla comprensione dei nostri ideali sociali.

Rispondi

1. Che cosa intende Boas quando scrive che all’antropologo è richiesta un’«emancipazione dalla propria cultura»?

2. Ti viene in mente un esempio di questo atteggiamento applicato a un episodio della tua vita quotidiana o del contesto in cui vivi?

3. Perché ci risulta difficile liberarci delle nostre “valutazioni emotive” quando consideriamo i comportamenti altrui?

4. Qual è, secondo Boas, lo scopo fondamentale dell’antropologia?

 >> pagina 92 

|⇒ T4  Marjorie Shostak

Uno straordinario incontro fra donne

Nel libro da cui è tratto questo brano, pubblicato in inglese nel 1983 a seguito di una lunga spedizione nel Botswana, Marjorie Shostak ci offre un ritratto della condizione femminile presso la popolazione dei !Kung San attraverso l’intenso racconto di Nisa, una donna !kung di circa cinquant’anni, le cui parole sono le protagoniste indiscusse del libro. L’opera contribuì notevolmente ad alimentare il dibattito americano sulla condizione della donna, divenendo un classico degli studi etnoantropologici.

Nisa appartiene a una delle poche società tradizionali rimaste che vivono grazie alla caccia e alla raccolta di piante selvatiche. Il suo è un gruppo che si autodefinisce zhun/twasi, “il popolo vero” e che attualmente vive in alcune aree isolate del Botswana, dell’Angola e della Namibia. [...]

Nel 1963, Irven De Vore e Richard, due antropologi dell’Università di Harvard, ebbero i primi contatti con il popolo di Nisa, un gruppo tradizionale di !kung san nell’area del Dobe del Botswana nord-occidentale. I due studiosi avevano in mente una spedizione di ricerca a lungo termine durante la quale scienziati di varie discipline avrebbero condotto studi specialistici su vari aspetti della vita !kung. [...] Nel 1969, a sei anni dall’inizio, quando ormai il progetto si avviava alla conclusione, mio marito e io ci unimmo alla spedizione e cominciammo a lavorare e vivere con i !kung.

Prima della partenza ebbi modo di osservare alcuni risultati della spedizione, e fui piacevolmente sorpresa nel conoscere maggiori dettagli sui !kung e sul loro modo di vivere. Ma quando chiedevo notizie su come fossero realmente i !kung e su cosa pensassero della vita, ottenevo risposte così varie che sembravano riflettere le personalità dei singoli antropologi piuttosto che quanto avevano appreso sui !kung. Anche se avevo parlato con molte persone e letto molti testi, ero rimasta con l’impressione di non conoscere i !kung: qual era la percezione che avevano di se stessi, della loro infanzia, dei loro genitori? I coniugi si amavano? Provavano gelosia? L’amore sopravviveva anche dopo il matrimonio? Quali erano i loro sogni, e qual era il loro atteggiamento di fronte a questi sogni? Avevano paura di invecchiare? Della morte? Più di ogni altra cosa, comunque, mi interessava la vita delle donne !kung. Cosa voleva dire essere donna in una cultura così palesemente diversa dalla nostra? [...]

La mia prima ricerca sul campo ebbe luogo in un momento in cui i valori tradizionali riguardanti matrimonio e sessualità erano sottoposti a notevole pressione; il movimento femminista aveva appena iniziato a prendere forza, e invitava a un riesame dei ruoli che le donne occidentali avevano tradizionalmente rivestito. Speravo che il mio viaggio mi avrebbe aiutata a chiarire alcune delle questioni che il movimento aveva sollevato. Le donne !kung, infatti, potevano offrirmi alcune risposte; del resto, erano loro a fornire la maggior parte del cibo alle famiglie, anche se, allo stesso tempo, si occupavano dei bambini e rimanevano per tutta la vita con il proprio marito. [...] Anche se i !kung stavano attraversando una fase di cambiamento culturale, si trattava comunque di un fenomeno piuttosto recente e sottile, e pertanto il sistema di valori tradizionali era rimasto praticamente intatto. Uno studio che si occupava di scoprire quale fosse allora la vita delle donne !kung poteva rispecchiare quello che la loro vita era stata per generazioni, forse per migliaia di anni.

Appena arrivata al campo, cercai di fare di tutto per comprendere la vita dei !kung: imparai la lingua, mi aggregai alle spedizioni per la raccolta di piante selvatiche, seguii le battute di caccia, mangiai esclusivamente cibi del bush1 per vari giorni di seguito, abitai in una capanna tipica del villaggio, seduta attorno al fuoco ascoltai le loro discussioni, le liti e le storie dei !kung. Partecipare e osservare mi offrì un punto di vista privilegiato: fui colpita dalla loro ampia e ricca conoscenza dell’ambiente, dalla loro capacità di riconoscere le impronte di persone e animali sulla sabbia, dalla perizia con cui riuscivano a individuare, nell’intreccio di rampicanti apparentemente secchi, delle radici contenenti acqua. [...]

Aver visto così tante cose in pochi mesi di ricerca sul campo mi aveva entusiasmato. Eppure, sentivo di non avere ancora conosciuto, se non per sommi capi, il vero significato di questi eventi per la vita dei !kung. [...] Avevo bisogno di informazioni che non potevano essere raccolte attraverso la semplice osservazione: avevo bisogno di ascoltare la loro voce.

A quel punto, quindi, il fulcro del mio lavoro divenne parlare alla gente e porre loro domande per invitarli a parlare apertamente. Dato che il mio interesse era soprattutto rivolto alla condizione femminile [...], il mio lavoro si concentrò esclusivamente sulle donne. Mi presentai loro così come mi vedevo a quel tempo: una giovane donna, sposata da poco e alle prese con i temi dell’amore, del matrimonio, della sessualità, della carriera e dell’identità – in altre parole, alle prese con il significato dell’essere donna. Chiesi poi alle donne !kung cosa significasse per loro essere donne, e quali fossero gli eventi importanti delle loro vite.

Una donna, Nisa, mi colpì più delle altre per la sua capacità di descrivere le proprie esperienze. Fui stregata dalla sua abilità di narratrice; sceglieva le parole con attenzione, riempiva le sue storie di pathos, affrontando un ventaglio piuttosto ampio di esperienze. Dalle oltre cento interviste che ebbi con i !kung mi resi conto che gran parte della vita emotiva è universale. I racconti di Nisa, per quanto estranei alla mia esperienza, contribuirono notevolmente ad aumentare questa consapevolezza.

Rispondi

1. Come mai all’inizio della spedizione, pur avendo parlato con molte persone e letto molti testi sui !Kung, l’antropologa aveva comunque l’impressione di non conoscere questo popolo?

2. Quali erano gli obiettivi di ricerca dell’autrice e quali le strategie messe in atto per raggiungerli? Perché l’osservazione partecipante non era sufficiente?

3. Soffermati sulla seguente affermazione: «ottenevo risposte così varie che sembravano riflettere le personalità dei singoli antropologi piuttosto che quanto avevano appreso sui !kung». Perché la ricerca di Shostak è diversa dalla ricerca di un altro antropologo? Quanto e come incide la personalità del ricercatore nella ricerca antropologica? È possibile eliminarla?

4. Che relazione c’è tra il movimento femminista e la ricerca di Shostak e perché, secondo lei, uno studio tra le donne !kung potrebbe aiutarla a chiarire delle questioni importanti per la sua vita, sollevate nel suo contesto di provenienza (gli Stati Uniti), come il ruolo della donna, il matrimonio ecc.?

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane