T1 - Anna Lowenhaupt Tsing, Verso un’etnografia delle connessioni globali

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Anna Lowenhaupt Tsing

An Ethnography of Global Connection

Nel brano seguente, l’antropologa statunitense Anna Lowenhaupt Tsing mostra come ogni luogo del pianeta sia plasmato dall’“attrito” o “frizione” (friction) tra diverse forze globali. In particolare, l’autrice racconta la devastazione delle foreste pluviali del Borneo a partire da un’intricata trama di relazioni e incontri inaspettati tra multinazionali del legname, governi corrotti, giovani ambientalisti e attivisti locali.

Something shocking began to happen in Indonesia’s rainforests during the last decades of the twentieth century. Species diversities that had taken millions of years to assemble were cleared, burned, and sacrificed to erosion. The speed of landscape transformation took observers by surprise. No gradual expansion of human populations, needs, or markets could possibly explain it […]. Corporate growth seemed […] chaotic, inefficient and violent in destroying its own resources. Stranger yet, it seemed that ordinary people – even those dependent on the forest for their livelihood – were joining distant corporations in creating uninhabitable landscapes.

Within Indonesia, this ugly situation came to stand for the dangers of imperialism and the misdeeds of a corrupt regime. Opposition to state and corporate destruction of forest-people’s livelihoods became a key plank of the emergent democratic movement of the 1980s and 1990s. An innovative politics developed linking city and countryside, bringing activists, students, and villagers into conversation across differences in perspective and experience. […]

None of these questions can be addressed without an appreciation of global connections. Indonesian forests were not destroyed for local needs; their products were taken for the world. Environmental activism flourished only through the instigation and support of a global movement. […] A villager shows a North American miner some gold; a Japanese model of trade is adopted for plywood; students banned from politics take up hiking; a minister is inspired by a United Nations conference on the environment: these narrowly conceived situations lay down tracks for future “global” developments.

[…] This book shows how emergent cultural forms – including forest destruction and environmental advocacy – are persistent but unpredictable effects of global encounters across difference. This proposition extends my earlier research, in which I explored how even seemingly isolated cultures, such as rainforest dwellers in Indonesia, are shaped in national and transnational dialogues […]. Scholars once treated such cultures as exemplars of the self-generating nature of culture itself. However, it has become increasingly clear that all human cultures are shaped and transformed in long histories of regional-to-global networks of power, trade, and meaning. […]

To address these challenges, this book develops […] methods to study the productive friction of global connections. […] I stress the importance of cross-cultural and long-distance encounters in forming everything we know as culture […]. Cultures are continually co-produced in the interactions I call “friction”: the awkward, unequal, unstable, and creative qualities of interconnection across difference.

[…] Speaking of friction is a reminder of the importance of interaction in defining movement, cultural form, and agency. […] Friction is required to keep global power in motion. […] Roads are a good image for conceptualizing how friction works: Roads create pathways that make motion easier and more efficient, but in doing so they limit where we go.

Rispondi

1. Leggi attentamente l’esempio iniziale relativo alle foreste pluviali in Indonesia. Che cosa vuole suggerire l’autrice con questo esempio?

2. Sottolinea nel testo i passaggi dove si parla di cultura e connessioni globali. Qual è l’idea centrale espressa?

3. L’autrice usa la parola friction (letteralmente “frizione”, “attrito”) in senso metaforico. Secondo te, su che cosa ci vuole far riflettere usando questa espressione?

4. Pensa a un evento o a un episodio del mondo contemporaneo e prova a raccontarlo sottolineando connessioni, incontri, e “frizioni”, secondo il modello dell’esempio iniziale.

 >> pagina 424 

|⇒ T2  Amalia Signorelli

Città e borgate

Pietralata è una borgata, ovvero un quartiere, a sud-est di Roma costruito negli anni Trenta durante la dittatura fascista. A metà degli anni Novanta, Pietralata è stata al centro di un progetto di riqualificazione che ha supplito alla storica mancanza di spazi di aggregazione nel quartiere. Nel brano seguente, l’antropologa Amalia Signorelli ripercorre l’esperienza di sradicamento vissuta dai primi abitanti del quartiere, collegandola alla nascita di un forte senso di identità locale.

All’inizio degli anni ’30 Mussolini, già al potere, lanciò la politica di rinnovamento urbano della città di Roma. […] La demolizione delle vecchie abitazioni che costituivano il centro storico romano comportava necessariamente l’espulsione dal centro stesso di coloro che vi abitavano. Si trattava di […] un proletariato di manovali e muratori, di operai dei trasporti e dei servizi e […] una consistente popolazione di piccoli lavoratori indipendenti, artigiani e commercianti […]. Per alloggiare la popolazione espulsa dal centro storico si crearono infatti le borgate. Queste non erano città satellite o quartieri periferici indipendenti […]; l’unica definizione che se ne può dare è dormitori, bidonville disperse nella campagna romana a diversi chilometri non solo dal centro, ma anche dall’ultima casa della periferia. […]

Questa è anche l’origine di Pietralata, borgata costruita nel 1936 presso una vecchia cava di pietre da costruzione, ormai abbandonata, al chilometro 6 della via Tiburtina. Lo sradicamento fu totale. Andare in borgata significava perdere il proprio territorio, la propria casa, il proprio quartiere, la propria città. Per molti questo significava perdere anche il proprio lavoro e i legami creati nell’ambiente di lavoro. Significava infine la rottura delle reti parentali e di vicinato […]. I racconti dei protagonisti (bambini o adolescenti all’epoca e adulti o anziani quando li abbiamo intervistati) dimostrano che la deportazione dai quartieri urbani delle borgate fu per tutti all’origine di una crisi culturale radicale […] dal[la] quale nacque un sentimento di collera, di ribellione importante a fronte della violenza subita. […]

La prima crisi culturale che i deportati dovettero affrontare fu quella del loro rapporto con lo spazio. Lo sradicamento brutale […] li obbligò a rielaborare completamente la loro mappa mentale, la visione dello spazio modellata nel corso dell’esperienza […] ad almeno tre livelli: casa, quartiere, città. […] I rapporti di quartiere sono stati […] profondamente modificati dalla deportazione. […] Nei racconti dei nostri interlocutori sembra essere stata “da sempre” forte sia l’identificazione con la borgata e il gruppo che vi abitava, sia il sentimento di appartenenza dell’individuo non solamente al gruppo ma anche al luogo, pur con tutta l’ambivalenza di odio-amore che il luogo suscita. Probabilmente l’origine drammatica, violenta della borgata ha plasmato fin dall’inizio l’identità collettiva di un “noi” che è anche un “qui”, opposto a un “loro” che è anche un “fuori di qui” […]. Buona parte delle persone […] sono convinte di essere considerate dagli altri come “diverse” in quanto abitanti di borgata. […] Non è una questione di distanza spaziale […] [ma di] percezione reciproca; e la borgata è nata in rapporto alla città. […]

La città era indispensabile alla sopravvivenza della borgata. Ma, nei fatti, in città ci si “andava a cercare lavoro, cibo, soldi”, “non ci si restava” come soggetti integrati nella città stessa. […] Il rapporto con la città era tanto necessario quanto precario: in rapporto alla città gli abitanti della borgata si sentivano […] quasi degli abitanti temporanei ed abusivi, tollerati oppure temuti, ma come permanentemente esposti al rischio di essere di nuovo espulsi. […] Si può riassumere l’esperienza dell’espulsione e della deportazione con le parole di uno di loro: “Sai perché le borgate sono state costruite sotto la strada, nelle vallate? Perché loro non ci devono vedere, noi dobbiamo sparire, non si deve neanche sapere dove si trovano le borgate”.

L’odio condiviso nei confronti del regime fascista e la forte struttura dei legami di vicinato interni alla borgata fecero sì che essa partecipasse, per così dire collettivamente, alla resistenza antifascista […].

Rispondi

1. Chi sono stati i primi abitanti di Pietralata e qual è stato il motivo del loro trasferimento?

2. Perché, secondo te, una delle “crisi culturali” vissute dai nuovi abitanti della borgata è stata quella relativa al rapporto con lo spazio?

3. Che cosa significa abitare in una borgata e che impatto ha avuto la storia del luogo sull’identità degli abitanti?

4. Qual è secondo te la differenza tra la borgata e la città?

 >> pagina 426 

|⇒ T3  Mazen Haidar

La linea di confine di Beirut

Beirut, la capitale del Libano, a partire dal 1975 e fino alla fine della guerra civile nel 1990 era divisa da una linea di confine in Beirut Est e Beirut Ovest. In questo brano l’architetto Mazen Haidar esplora gli effetti della linea di confine sulla conformazione urbana e sulla percezione della città da parte dei suoi abitanti, sollevando importanti questioni legate al pluralismo religioso che caratterizza il paese.

Il tracciato, esteso nel cuore della città […], era riconoscibile non tanto attraverso le barricate, ma piuttosto seguendo la striscia di edifici abbandonati e martoriati dalle battaglie di quartiere, estesa a tratti più di un chilometro. Un confine tangibile veniva quindi a rimpiazzare la cosiddetta “linea di contiguità”, che già prima dell’esplosione del conflitto individuava a ovest quartieri a maggioranza musulmana e a est quelli prevalentemente cristiani. […] Il confine tra le comunità si andava creando spontaneamente seguendo l’espansione dell’abitato, per formalizzarsi in un secondo tempo, man mano che la città si ingrandiva, marcato in alcuni casi dai tagli netti della rete viaria. Lungo il confine […] le strade d’interquartiere agevolavano la riconoscibilità di due aree simbolicamente differenti. […]

Questa linea era, di fatto, molto sentita e veicolava l’immagine di una società pluriculturale, ovvero del “mosaico” della società libanese […], una connotazione tragicamente compromessa, nella realtà, dagli sconvolgimenti politici. […]

Il nuovo confine, affiorato dal tessuto urbano con la grande esplosione del 1975, ricalcava prevedibilmente molte delle vecchie linee fittizie. […] La macchia dell’area distrutta e abbandonata sconfinava nei quartieri ancora abitati, immettendovi un senso d’inquietudine costante e di isolamento. Le due parti della città, violentemente sottratte alla realtà quotidiana, diventavano l’una per l’altra due universi felicemente distanziati ed estromessi.

Con l’effettiva partizione tra Beirut Ovest e Beirut Est diventava determinante ridefinire lo spazio urbano vivibile, costringendo il carattere precedente dei luoghi a un mutamento irrevocabile. […]

Nel 1977, due anni dopo il suo inizio, il conflitto, battezzato la “guerra del biennio” e destinato a rimanere impresso nella memoria dei libanesi, s’interruppe per un breve periodo. Tuttavia […] il centro, un tempo punto d’incontro tra le diverse confessioni, era devastato, per colpa della sua posizione strategica e neutrale durante il conflitto. […] Beirut, depredata del suo centro, assisteva impotente alla dispersione dei suoi luoghi storici d’incontro e al crollo abissale del senso di cittadinanza.

Le linee fittizie dell’anteguerra […] assumevano una dimensione più complessa nel vecchio centro, laddove la dinamicità dello scambio culturale e commerciale aveva preconizzato un graduale dissolvimento dei settarismi. Giovandosi della sua posizione strategica, piazza dei Martiri, centro del centro, diventava “il filtro” attraverso il quale si avverava un vero superamento delle differenze e dei contrasti culturali e sociali. […]

La devastazione del Borj [piazza dei Martiri], che di fatto lo sottrasse alla città fin dal 1975, determinò quindi la perdita di un insieme di luoghi che, pur attraversati da innumerevoli differenze […], adotta[vano] tutte le peculiarità dello spazio aperto […] assumendo un ruolo collettivo nel cuore dei luoghi individuali. […]

Devitalizzata e inglobata nella quotidianità della paura, piazza dei Martiri venne esiliata dal lessico più familiare per vagabondare nel sempre più pregnante repertorio dei ricordi. Il primo anno di guerra vide dunque spezzarsi […] gli spostamenti interregionali. […] La città, per gli abitanti della provincia, cessava di essere evocata dall’immagine dello storico nodo di piazza dei Martiri per essere identificata dai nuovi appellativi, Beirut Est (estesa progressivamente verso nord) e Beirut Ovest. La riconfigurazione delle traiettorie e la frequenza irregolare degli spostamenti trasformarono progressivamente la meta originale in una serie di ricordi, dove la vecchia Beirut e i suoi luoghi di ritrovo scomparsi si sarebbero incisi per sempre in un nuovo tempo chiamato l’anteguerra.

Rispondi

1. In che cosa consisteva il confine che divide Beirut Est da Beirut Ovest?

2. Com’è cambiata la conformazione della città con la creazione della linea di confine e che impatto ha avuto sulla società stessa?

3. Secondo te perché Beirut, deprivata del suo centro durante la “guerra del biennio”, assisteva al crollo del senso di cittadinanza?

4. Che cosa rappresentava piazza dei Martiri per i suoi abitanti e che impatto ha avuto la sua devastazione sulla percezione del luogo e sulle modalità di viverlo?

 >> pagina 427 

|⇒ T4  Arjun Appadurai

La violenza nell’epoca della globalizzazione

In questo brano, scritto agli inizi degli anni Duemila, l’antropologo Arjun Appadurai si interroga sulle ragioni dell’odio e della violenza su larga scala che hanno segnato quegli anni: dal genocidio del Ruanda agli attacchi terroristici del World Trade Center, fino alla violenza etnica della guerra in ex-Jugoslavia. Appadurai connette questi eventi alla globalizzazione e alle sue ricadute sugli Stati-nazione, offrendo un’analisi antropologica dell’incertezza.

Perché gli anni Novanta, e cioè il periodo di quella che oggi chiamiamo “tarda globalizzazione”, sono diventati l’epoca della violenza su vasta scala in diverse società e regimi politici?

Quando parlo di “tarda globalizzazione” […] faccio riferimento a una serie di prospettive e progetti […] che hanno assunto credibilità in molti paesi, Stati e sfere pubbliche dopo la fine della guerra fredda. Queste prospettive trovano espressione in una serie di dottrine […] sull’apertura dei mercati e il libero commercio, sulla diffusione delle istituzioni democratiche e delle costituzioni liberali, e sugli effetti benefici di internet (e delle relative tecnologie cibernetiche) per attenuare le disuguaglianze sia entro che tra le società, e per accrescere le quote di libertà, trasparenza e buon governo anche nei paesi più poveri e più isolati.

[…] Perché un decennio caratterizzato [dalla globalizzazione] […] ha prodotto da un lato così tanti esempi di pulizia etnica e dall’altro forme così estreme di violenza politica contro le popolazioni civili (un buon modo per definire la tattica terrorista)? [...] In queste pagine, […] mi limito a dichiarare […] gli ingredienti per elaborare una risposta […] che trovi fondamento nell’attenzione per le dimensioni culturali della globalizzazione. […]

È necessario, a questo punto, fare riferimento al ruolo dell’incertezza nella vita sociale. […] Sostengo […] che questa specie di incertezza sia intimamente legata al dato di fatto che i gruppi etnici odierni si contano a centinaia di migliaia, e che i loro spostamenti, le commistioni, gli stili culturali e le rappresentazioni dei media suscitano profondi dubbi su chi esattamente possa essere conteggiato nel “noi” e chi invece nel “loro”. In questo quadro, alcuni principi e pratiche del moderno Stato nazionale – l’idea di un territorio sovrano e certo, di una popolazione contenibile e quantificabile, di un censimento attendibile, e il sogno di categorie di appartenenza stabili e trasparenti – vengono messi in discussione nei modi più svariati nell’epoca della globalizzazione [...]. Soprattutto, la fluidità globale della ricchezza, degli armamenti, degli individui e delle immagini [...] pone radicalmente in discussione la certezza che popoli distinti e riconoscibili si sviluppino su territori nazionali ben definiti da essi controllati.

In parole semplici, anche se nel corso della storia umana la linea tra “noi” e “loro” è sempre stata sfumata lungo i confini e confusa in caso di vasti territori e grandi numeri, la globalizzazione esaspera queste incertezze e produce un nuovo impulso alla purificazione culturale, mano a mano che un numero crescente di nazioni perde l’illusione della sovranità economica nazionale o del benessere. Questo punto ci ricorda inoltre che la violenza su larga scala non è semplicemente la conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse, ma è essa stessa uno dei modi in cui viene prodotta l’illusione di identità univocamente definitive ed emotivamente coinvolgenti, in parte per attenuare le incertezze sull’identità che i flussi globali producono continuamente. Valutati in questa prospettiva, il fondamentalismo islamico o cristiano, e molte altre forme regionali e locali di fondamentalismo culturale, possono essere considerati parte di un quadro in evoluzione costituito dai tentativi di produrre nuovi livelli di certezza […] su temi come l’identità sociale, i valori, la sopravvivenza e la dignità. La violenza, soprattutto quella estrema e “spettacolare”, è un modo per produrre […] adesione totale, specialmente quando le ragioni dell’incertezza sociale si uniscono ad altre paure sulla crescita dell’ineguaglianza o sulla perdita della sovranità nazionale, oppure a minacce alla sicurezza locale e alla vita stessa.

Rispondi

1. Come viene definita nel testo la “tarda globalizzazione”?

2. Qual è la relazione tra globalizzazione e incertezza?

3. In che cosa consiste l’impulso alla “purificazione culturale” e come si manifesta? Riesci a pensare a un esempio recente di questo fenomeno?

4. Qual è l’uso che gli Stati-nazione fanno della violenza nell’epoca della globalizzazione?

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane