T1 - Edward Evan Evans-Pritchard, La stregoneria zande e la metafora della doppia lancia

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Edward Evan Evans-Pritchard

La stregoneria zande e la metafora della doppia lancia

Con il libro da cui è tratto questo brano, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1937, Evans-Pritchard ha segnato un punto di svolta nell’antropologia culturale e sociale mettendo fuori gioco la dicotomia razionale/irrazionale come strumento d’analisi del pensiero dei cosiddetti “primitivi”, contrapposto a quello dei “moderni”. Le sue ricerche sugli Azande, stanziati fra il Sudan e il Congo, hanno dimostrato come i processi di attribuzione di causa siano plurali e dipendano dal contesto sociale, per cui la contrapposizione vero/falso si rivela del tutto inefficace per comprendere il senso del credere.

Poco dopo il mio arrivo nel territorio zande, in compagnia di altre persone, stavamo un giorno attraversando un insediamento governativo, quando ci accorgemmo di una capanna che la notte prima era stata distrutta dal fuoco. Il proprietario era sopraffatto dall’angoscia, poiché in essa si trovava la birra preparata per un festino mortuario. Ci raccontò che la notte prima era andato a verificare a che punto fosse la birra. Aveva acceso un mannello di paglia e lo aveva alzato sul capo in modo da poter far luce sui recipienti, ma così facendo aveva appiccato il fuoco alle stoppe del tetto della capanna. Sia lui, sia quelli della sua compagnia erano convinti che il disastro fosse stato causato dalla stregoneria.

[…] Parlando di stregoneria agli Azande e osservando le loro reazioni di fronte a situazioni sfortunate, appariva chiaro che nel loro tentativo di rendersi conto dei fenomeni […] non individuavano un rapporto tra causa ed effetto che fosse esclusivamente mistico. Ciò che si spiegavano per mezzo della stregoneria erano le particolari condizioni di una concatenazione causale in cui il rapporto tra un individuo e gli avvenimenti naturali era caratterizzato dal fatto ch’egli subisse un danno. […] Ogni anno centinaia di Azande vanno a ispezionare la loro birra di notte, prendendo sempre con sé un mannello di paglia accesa per illuminare la capanna dove avviene la fermentazione. Perché quel particolare individuo, in quella precisa occasione, avrebbe dovuto appiccare il fuoco alle stoppie della sua capanna?

[…] La stregoneria spiega perché gli avvenimenti sono nocivi all’uomo, e non come accadono. Uno Zande percepisce il modo del loro accadere esattamente come noi. Non vede uno stregone dare la carica all’uomo, ma un elefante. Non vede uno stregone far precipitare un granaio, ma le termiti che ne corrodono i sostegni. Non vede una fiamma immateriale che appicca il fuoco alle stoppie di una capanna, ma un normalissimo mannello di paglia.

[…] La credenza zande nella stregoneria non contraddice assolutamente la conoscenza empirica di causa ed effetto. […] La credenza nella morte per cause naturali e la credenza nella morte per stregoneria non si escludono a vicenda. Al contrario, esse si integrano l’una con l’altra, spiegando l’una ciò che l’altra non spiega. Inoltre, la morte non è solo un fatto naturale, […] ma è anche la fine di un membro di una famiglia e di un parentado, d’una comunità e d’una tribù. La morte porta alla consultazione degli oracoli, ai riti magici, alla vendetta. Tra le cause della morte, la stregoneria è la sola che abbia importanza ai fini del comportamento sociale. L’attribuzione di una disgrazia alla stregoneria non esclude quelle che noi chiamiamo le sue cause reali, ma essa vi si sovrappone, dando agli avvenimenti sociali il loro valore morale.

In realtà, il pensiero zande esprime i concetti di causalità naturale e di causalità mistica con molta chiarezza, ricorrendo a una metafora per definire i rapporti tra loro. Della stregoneria gli Azande dicono che essa è l’umbaga ossia la seconda lancia. Quando gli Azande uccidono della selvaggina, avviene una divisione della carne tra l’uomo che ha colpito per primo l’animale con la sua lancia e quello che gli ha inflitto un secondo colpo. L’uccisione dell’animale è attribuita a entrambi e il proprietario della seconda lancia si chiama umbaga. Donde, quando un uomo è ucciso da un elefante, gli Azande dicono che l’elefante è la prima lancia, mentre la stregoneria è la seconda e che, insieme, hanno ucciso l’uomo. […] Gli Azande riconoscono la pluralità delle cause, ed è la situazione sociale che indica, tra esse, quella adeguata; possiamo quindi comprendere perché non si faccia ricorso alla dottrina della stregoneria per spiegare ogni fallimento o disgrazia.

Rispondi

1. In che cosa consiste la metafora della doppia lancia?

2. Nell’esempio della capanna qual è la causa empirica dell’incendio e a quale domanda risponde, invece, la stregoneria?

3. Perché la stregoneria è, tra le cause della morte, quella socialmente più importante per gli Azande?

 >> pagina 380 

|⇒ T2  James G. Frazer

La tela del pensiero umano

Pubblicato per la prima volta nel 1890, Il ramo d’oro di James Frazer conobbe diverse edizioni e divenne uno dei grandi classici dell’antropologia. Il titolo del libro deriva dal rito della cruenta successione dei re sacerdoti nel santuario di Diana Nemorensis ad Ariccia, che a sua volta richiama il mito del ramo d’oro colto da Enea prima di affrontare la discesa nel regno dei morti. In questa voluminosa opera, Frazer analizza con metodo ampiamente comparativo miti, riti e credenze di popolazioni passate e presenti, intrecciando etnologia e folklore allo studio dell’antichità classica, per giungere infine a individuare in magia, religione e scienza i principali “stadi evolutivi” del pensiero umano.

Gli stregoni finni erano soliti vendere del vento ai marinai in bonaccia. Il vento era rinchiuso in tre nodi: se scioglievano il primo, se ne generava un venticello, sciogliendo il secondo soffiava un vento, col terzo un uragano. Realmente gli Estoni, il cui paese è diviso dalla Finlandia soltanto da un braccio di mare, credono ancora nei poteri magici dei loro vicini. L’aspro vento che soffia dal nord e dal nord-est, portando con sé dolori, reumatismi e infiammazioni, è attribuito dagli ingenui contadini estoni alle macchinazioni dei maghi e delle streghe finniche. […] L’arte di legare il vento in tre nodi, cosicché più nodi si sciolgano e più forte soffierà il vento, è stata attribuita agli stregoni della Lapponia e alle streghe dello Shetland, di Lewis e dell’isola di Man.

[…] Consideriamo da una parte la somiglianza essenziale dei principali bisogni dell’uomo in tutti i luoghi e in tutti i tempi e d’altra parte la grande differenza dei mezzi che egli ha adottato per soddisfarli nelle diverse epoche e saremo forse disposti a concludere che il movimento del più elevato pensiero […] è andato in generale dalla magia alla scienza passando per le religioni. […] I sogni della magia possono un giorno divenire le tangibili verità della scienza. Ma oscura è l’ombra che ci copre la lontana meta di questa meravigliosa visione. Per quanto vasto possa essere il progresso della conoscenza e dei poteri che l’avvenire può avere in serbo per l’uomo, difficilmente può egli sperare di frenare l’impeto di quelle grandi forze che sembrano silenziosamente, ma senza posa, affrettare la distruzione di questo siderale universo in cui la nostra terra galleggia come una festuca in un immenso oceano. Nell’età di là da venire, l’uomo potrà forse predire e fors’anche dominare il capriccioso corso dei venti e delle nubi, ma difficilmente le sue fragili mani potranno aver forza bastevole da dar nuovo vigore al nostro pianeta nella sua corsa che si rallenta o dare nuova fiamma al morente fuoco del sole.

[…] Senza sprofondarci tanto nell’avvenire possiamo rendere più intelligibile il corso seguìto fin qui dal pensiero assomigliandolo a una trama tessuta di tre diversi fili: il filo nero della magia, il filo rosso della religione e il filo bianco della scienza, se nella scienza possiamo comprendere quei semplici veri ricavati dalla osservazione della natura di cui gli uomini hanno in ogni tempo posseduto gran copia. Se potessimo esaminare il tessuto del pensiero fin dal principio vedremmo probabilmente che sull’inizio esso rassomiglia a una tela a scacchi bianchi e neri, una trama di nozioni vere e di nozioni false appena segnate dal filo rosso della religione. Ma seguitiamo a percorrere con lo sguardo la tela e vedremo che, se gli scacchi bianchi e neri si susseguono, ancora rimane nel centro della trama, dove la religione è penetrata più addentro nel tessuto, una macchia rosso scuro che sfuma insensibilmente in una tinta più chiara a misura che il filo bianco della scienza s’intreccia sempre più nel tessuto. A una tela così chiazzata e colorita e traversata dai fili diversi ma gradualmente cangiante di colore mentre si svolge, può paragonarsi lo stato del pensiero moderno con tutte le sue finalità divergenti e le sue tendenze in conflitto.

[…] Per seguitare la nostra allegoria, quale sarà il colore della trama di cui i fati stanno ora intrecciando i fili sul telaio del tempo? Bianca o rossa? noi l’ignoriamo. Una pallida e vacillante luce illumina le parti già ordite, il resto si nasconde nella nebbia, nell’ombra, nel buio.

Rispondi

1. In che cosa consiste la metafora del tessuto, utilizzata da Frazer come allegoria del pensiero umano?

2. Secondo l’autore, quali stadi attraversa il pensiero umano nel corso della sua evoluzione?

3. Come cambia la tela dal principio al centro? A che cosa corrisponde la macchia rossa?

4. Secondo te perché Frazer si sofferma sull’intreccio di diversi fili, anziché su uno soltanto di essi, quando descrive il pensiero moderno?

 >> pagina 382 

|⇒ T3  James Clyde Mitchell

La danza kalela

In questo saggio del 1956, l’antropologo Clyde Mitchell parte dalla danza popolare kalela per costruire un’analisi della struttura sociale urbana della Copperbelt, una regione in rapida trasformazione dell’Africa centrale (allora protettorato britannico). La danza, con le sue peculiari caratteristiche, rivela che le affiliazioni tribali non sono l’unico sistema di valore a influenzare le relazioni sociali tra gli abitanti di queste città.

Kalela è il nome di una popolare danza “tribale” della Copperbelt della Rhodesia Settentrionale.

Alcune caratteristiche sorprendenti di questa danza hanno attirato la mia attenzione mentre stavo conducendo ricerca sul campo, ed ho deciso di utilizzarla come mezzo per un’indagine più ampia sul tribalismo e su altre caratte-ristiche delle relazioni sociali tra gli Africani delle città della Rhodesia Settentrionale. […]

Inizierò fornendo una descrizione della danza kalela, per poi collegare le sue caratteristiche principali al sistema di relazioni degli Africani della Copperbelt. A tal fine, prenderò in esame, almeno in parte, il sistema generale delle relazioni tra Bianchi e Neri nella Rhodesia Settentrionale. […]

Nella Copperbelt […] la danza “tribale” è un tratto saliente della vita africana. […] Ogni distretto […], località od area ha un suo campo dove gruppi di danzatori di diverse tribù si esibiscono ogni domenica pomeriggio durante le festività pubbliche […]. La danza più popolare di tutte è la Kalela, che viene eseguita dovunquenella Copperbelt da persone provenienti dalla Provincia Nord della Rhodesia Settentrionale. Nel 1951 ho potuto assistere a diverse danze kalela eseguite da un gruppo Bisa. […]

Il gruppo si componeva di diciannove giovani. Il costume dei ballerini ordinari consisteva di pantaloni ben stirati, canottiere linde, e scarpe tirate a lucido. Alcuni tenevano dei fazzoletti bianchi nella mano destra. I capelli erano pettinati con cura con una riga in parte ben definita. In sostanza, si trattava di giovani uomini vestiti elegantemente in stile europeo. Il gruppo danzava con l’accompagnamento di tre grandi tamburi, costruiti utilizzando barili da quarantaquattro galloni ricoperti di pelle di vacchetta. Due percussionisti suonavano i tamburi con bastoni a forma di banana lunghi circa due piedi. Il suono dei tamburi poteva essere udito a miglia di distanza – all’interno del campo dove si svolgeva la danza [il rumore] era assordante. […] La danza si componeva di piccoli passi strascicati accompagnati da una lieve oscillazione del corpo verso l’interno. Ad intervalli regolari, il leader della band interrompeva il suono dei tamburi soffiando forte in un fischietto da calcio, al che i ballerini si voltavano all’unisono verso i tamburi. Per una parte della danza i tamburi tacevano mentre i danzatori cantavano una canzone. […]

Una delle ragioni della popolarità delle canzoni è il loro contenuto. I versi sono arguti ed attuali. […] Ci sono quindi alcune caratteristiche ben definite delle canzoni dei danzatori kalela. […] I danzatori sono tutti giovani uomini single molto attenti al loro aspetto. Le loro canzoni sono dirette in particolare alle donne e i ballerini non si trattengono dal richiamare l’attenzione delle donne verso la propria desiderabilità. Una seconda caratteristica delle canzoni è il chiaro riconoscimento della diversità etnica tra le popolazioni urbane. Ciò avviene in due forme. La prima è che i danzatori enfatizzano la bellezza della loro terra d’origine e celebrano le proprie virtù. La seconda forma è l’inverso di ciò, ovvero vengono sottolineate e messe in ridicolo le peculiarità di altre lingue e di altri costumi.

[…] La kalela è essenzialmente una danza tribale. Kalela e le sue canzoni enfatizzano l’unità dei Bisa contro tutte le altre tribù della Copperbelt. Ci potremmo aspettare, in una danza tribale di questo tipo, che si indossi qualche emblema tribale. […] Ma i danzatori kalela sono vestiti alla più elegante moda europea e non c’è modo di distinguere un gruppo kalela Bemba o Aushi da uno Bisa.

[…] In altre parole, siamo di fronte ad un apparente paradosso. La danza è chiaramente una danza tribale in cui le differenze tribali vengono sottolineate ma il linguaggio e lo stile delle canzoni e i vestiti dei danzatori derivano da un’esistenza urbana che tende a sommergere le differenze tribali. Ritengo che questo apparente paradosso possa essere risolto se esaminiamo la danza e le sue origini nel loro contesto sociale.

Rispondi

1. Perché Mitchell definisce la danza kalela una danza tribale? Quali elementi la rendono tale?

2. Quali caratteristiche particolari hanno spinto l’autore a soffermarsi proprio su questa danza? Quali aspetti invece ti colpiscono leggendone la descrizione?

3. Mitchell rivela un «apparente paradosso» nella danza kalela. Qual è? Prova a spiegarlo con parole tue.

4. Quale spiegazione dà Mitchell per risolvere questo paradosso?

 >> pagina 384 

|⇒ T4  Massimo Raveri

Il corpo perfetto dei monaci miira

Nel libro Il corpo e il paradiso l’antropologo Massimo Raveri analizza il fenomeno del nyūjō presso i monaci miira giapponesi, mostrando come nell’interpretazione di questa estrema esperienza di ascesi il punto cruciale per l’antropologia non sia spiegare, in un’ottica oggettivista, in che cosa consiste l’automummificazione realizzata da questi asceti, bensì rintracciarne il senso nei significati che essa riveste per la collettività.

In alcuni templi solitari sulle pendici della montagna sacra di Yudono, nel nord del Giappone, si venerano ancora oggi i corpi di alcuni asceti che si sono automummificati in vita. Tra le esperienze dei mistici in Giappone, questa lunga e sofferta pratica forse è il caso limite, dove l’azzardo della mente è stato più spericolato e le tecniche del corpo sembrano essere andate oltre i confini del credibile.

Non si tratta di casi sporadici, occasionali, dell’azione di un povero “folle di dio”. Se così fosse sarebbe un gesto sostanzialmente immotivato, che non ha significato […]. Invece è un fenomeno che assume le proporzioni di un’esperienza collettiva, che è stato codificato e che si è rinnovato nel tempo. Il problema che inevitabilmente si pone è di capirne il senso.

Quale ragione guida una così terribile scelta, quale visione illumina quel triste corpo rattrappito sull’altare perché la gente veda in lui la perfezione di un Salvatore?

Il significato di un atto come questo comincia ad apparire chiaro se con pazienza si prende a scomporre la trama delle esperienze di vita di questi asceti cogliendo, nel gioco di variabili e di costanti di comportamento, certi tratti più significativi. È un intrecciarsi di motivi simbolici che toccano molto in profondo l’immaginario collettivo.

[…] La tradizione imponeva all’asceta di vivere almeno cinque anni in completa solitudine nelle grotte di una montagna sacra. Le sue giornate erano scandite dalle veglie in meditazione e in preghiera e dalle purificazioni sotto l’acqua di una cascata. Ma ciò che caratterizzava quest’esperienza era la crescente concentrazione nel controllare e ridurre il respiro e il rifiuto sempre più rigido e intransigente del cibo, […] per cui aghi e resine di pino, radici di erbe, pinoli era tutto ciò di cui l’asceta si poteva nutrire. Alla fine era imposto il digiuno completo (danjiki). E per spegnere la sete dovevano essere sufficienti pochi sorsi di acqua al giorno.

Erano queste delle tecniche ascetiche sperimentate e diffuse sia in Cina che in Giappone, considerate adatte per acquisire uno stato di purezza, di chiarezza e concentrazione mentale, di penetrazione nella visione mistica interiore.

[…] I mistici buddhisti lo hanno definito nyūjō. […]

[Dopo la sua morte] per tre anni su quell’asceta cala il più completo silenzio. Non viene compiuto nessun rito, non accade nulla, sembra che il suo gesto, il suo destino, il suo sogno, tutto sia stato dimenticato. […] Ma allo scadere del periodo prescritto, proprio quei discepoli che avevano aiutato il santo e che avevano raccolto le sue ultime volontà, tornano sul luogo accompagnati dai monaci in solenne processione. Circondati dalla folla dissotterrano e aprono la cassa. […] Se il corpo del santo è rimasto incorrotto interviene l’operazione dei fedeli per rendere la sua perfezione definitiva. […] Quando il corpo incorrotto viene posto sull’altare significa che alla fine un’idea di perfezione sovrannaturale ha potuto essere realizzata nella materia. Il suo corpo è perfetto, è un «corpo vero», così miracoloso eppure indiscutibile nella sua concretezza, vicino, tangibile […].

Perché lo hanno fatto? Quale sogno li ha tentati a pensare che la santità dovesse trovarsi alla fine di un cammino di tale sofferenza, fisica psichica? […] Non è importante, in questa ricerca, chiedersi che cosa sono “oggettivamente” i miira. La risposta è semplice: sono solo dei corpi che non si sono corrotti col tempo. E basta. Non potremmo dire altro. […]

Il nocciolo del problema è di cogliere l’immaginario collettivo che il miira svela, di decifrare tutte le visioni che si sono avvolte su quel corpo raggrinzito e inerte, di districare il groviglio di idee, parole e segni che hanno dato luce e spessore di senso a una mummia.

[…] Il miira è un caso emblematico e inquietante perché realizza un’estrema possibilità teorica di reazione culturale al problema del morire. è l’espressione di un rifiuto profondo del tempo che passa, di ciò che ieri non era ancora e domani non sarà più, e della morte che è la fine. È l’opporsi, contro ogni ragione, al naturale destino dell’uomo. Se la corruzione della carne è segno dell’azione del tempo, il miira è un corpo incorrotto. Se il tempo è il dissolversi di ogni forma, egli è intatto e il suo corpo mummificato non subisce mutamento alcuno. Se il divenire è una transizione di stati classificatori, egli è immobile. Vuol dunque questo dire che è immortale?

Alcuni hanno risposto di sì, altri no. Certo è quello che lui ha cercato di diventare.

Rispondi

1. In che cosa consiste il fenomeno del nyūjō? Quali tecniche vengono utilizzate per raggiungere l’automummificazione in vita?

2. Perché quello del miira è considerato dai credenti il corpo perfetto?

3. Qual è la domanda di fondo che si pone Raveri nell’analizzare questa esperienza ascetica?

4. Perché secondo l’autore i monaci miira non possono essere considerati dei «folli di dio»?

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane