2. Il pensiero mitico e la ritualità

2. Il pensiero mitico e la ritualità

2.1 Che cos’è un mito

I ▶ miti sono narrazioni che spiegano l’origine e le caratteristiche essenziali del mondo naturale e umano. Rispondono all’esigenza fondamentale di conoscere e classificare la realtà: i miti fondano gli aspetti più significativi dell’ordine sociale e culturale di una comunità.

Vi sono miti sull’origine della morte, miti della creazione sull’origine del mondo, miti sulla natura dei due generi maschile e femminile, e miti che raccontano l’origine delle forme di potere socialmente riconosciute.

Secondo Malinowski, il mito giustifica e garantisce la legittimità di un tipo di vita sociale: delle regole sociali e morali, dei rituali e delle consuetudini di una comunità. Ogni mito non è mai a sé stante, ma è sempre inserito nella trama di altre narrazioni dello stesso tipo in un quadro coerente comune: una mitologia, che è parte consistente della tradizione orale di una comunità e che si trasmette di generazione in generazione, e può essere tramandata talvolta anche in forma scritta.

Dal punto di vista narrativo il mito ha alcune particolarità, ossia è un racconto:

  • di carattere generale ed esemplare, che si concentra spesso su imprese di esseri soprannaturali, eroi, antenati, spiriti e divinità, di cui narra prodigi e meraviglie;
  • che altera lo spazio e il tempo, ossia riguarda luoghi e situazioni immaginarie, fuori dal tempo umano, in un altro tempo (il tempo mitico), o in un “prima” della nascita stessa del tempo;
  • che antropomorfizza la natura, in quanto spesso attribuisce agli animali, alle piante e agli oggetti caratteristiche fondamentali umane come la parola, i sentimenti, la volontà; nel mito spesso anche gli esseri umani hanno caratteristiche tipiche degli animali, possono volare o sopravvivere nel profondo del mare;
  • complementare alla pratica rituale, perché si accompagna spesso allo svolgimento di riti e alla celebrazione di cerimonie.

Claude Lévi-Strauss, nel quadro della sua concezione strutturalista della cultura, ha delineato una teoria molto interessante per l’analisi dei miti: il mito va analizzato scomponendolo in “mitemi▶ unità 1, p. 38 |, unità minime che acquistano un senso soltanto se poste accanto ad altre dello stesso tipo. I mitemi sono brevi unità di trama, o di racconto, come per esempio: “la principessa si perde nel bosco”, oppure “l’eroe trova un anello”, “una fanciulla viene rapita”, oppure “il drago si nasconde nel mare” e così via.

I mitemi possono essere considerati come i mattoncini di un gioco di costruzioni mediante i quali il pensiero umano dà libero corso alle possibili combinazioni. Sulla base della grande quantità di mitologie studiate da Lévi-Strauss, si può notare che ogni mitema prende sembianze diverse in culture diverse e ricorre in racconti mitici differenti assumendo di volta in volta un significato diverso a seconda degli altri mitemi a cui si trova affiancato.

Il significato di un mitema come atomo di trama non si esaurisce in se stesso ma deriva sempre dalla relazione con gli altri. Nella prospettiva strutturalista il mito è un tentativo di mediazione simbolica, di conciliazione fra aspetti contraddittori dell’esistenza umana e del mondo naturale: per esempio maschio e femmina, vita e morte, crudo e cotto, erbivoro e carnivoro.

Da un punto di vista antropologico il mito è dunque importante in quanto mette ordine fra elementi apparentemente inconciliabili o semplicemente distanti, come il mondo naturale e il mondo sovrannaturale, ed esprime bene il fatto che ciò che si può considerare naturale, innaturale o sovrannaturale varia da cultura a cultura.

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2.2 Il rito

Il ▶ rito è una sequenza di comportamenti standardizzati e ripetitivi costituiti da atti, parole, posture, gesti, suoni, movimenti la cui sequenza è prestabilita da una formula fissa. Si svolge in tempi e luoghi specifici ed esprime un significato simbolico comprensibile all’individuo e alla comunità che lo condivide.

Esempio: consideriamo la messa cattolica: il rito è costituito dai gesti che compie il sacerdote, dagli abiti che indossa, dai movimenti sull’altare e dalle risposte corali dei fedeli.

Esistono molti tipi di riti: per esempio i riti di fondazione di una città o di un villaggio, oppure i riti di intronizzazione, che si svolgono quando un re viene incoronato.

I riti caratterizzano l’ambito della religione e del culto, riaffermando da un punto di vista simbolico i valori e i sentimenti da cui dipende la continuità di una società. Infatti, la trasmissione delle conoscenze dagli anziani ai giovani avviene spesso in un contesto rituale, a cui si attribuisce molta importanza essendo un elemento di rappresentazione che una società fa di se stessa.

È importante sottolineare che i riti, pur essendo sequenze di comportamenti standardizzati e ripetitivi, non sono mai ripetuti in modo meccanico come se fossero eseguiti da un robot. I riti non sono immodificabili perché, come ogni elemento culturale, sono soggetti ai cambiamenti storici.

Negli anni Cinquanta del Novecento, l’antropologo britannico Clyde Mitchell (1918-1995) ha studiato a lungo un particolare rito africano noto come danza kalela (“fierezza”). La danza si svolgeva nelle comunità urbane della Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia), in una regione di grandi miniere, e talvolta affiancava le manifestazioni sindacali degli operai minerari. I danzatori di etnia bisa cantavano in lingua bemba, una specie di lingua franca infarcita di termini inglesi e termini pidgin zulu (la lingua che i bianchi utilizzavano con i dipendenti africani), in un contesto urbano multiculturale in cui tutti si capivano perfettamente. I movimenti del ballo seguivano la tradizione ma i danzatori vestivano all’europea, con calzoni stirati, scarpe lucidate e camicie inamidate. Ballavano al suono di grossi tamburi ricavati da bidoni di petrolio coperti di pelli di vacca. Le canzoni talvolta ironiche e dissacranti raccontavano la vita quotidiana e i problemi dell’attualità. La danza era chiaramente tribale e in essa emergevano le differenze tribali; ma allo stesso tempo il linguaggio e l’idioma usato nelle canzoni e il modo di vestire dei danzatori erano presi dalla vita urbana, che tendeva a cancellare le differenze tribali. Come ha mostrato Mitchell, il rito della danza kalela non esprimeva dunque una tradizione esclusiva ripetuta senza cambiamenti. Al contrario: era una pratica culturale fatta di ▶ sincretismi, di mescolanze e di espressioni provvisorie imprescindibili sin dall’epoca precoloniale.

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2.3 I riti di passaggio

Nei primi anni del Novecento, l’antropologo francese Arnold Van Gennep ▶ L’AUTORE | ha dato un grande contributo all’analisi della ritualità concentrando i propri studi su riti di particolare importanza che egli ha chiamato “riti di passaggio”. Si tratta di quei riti che legittimano pubblicamente il passaggio di un individuo da una condizione sociale o spirituale a un’altra, e sono per esempio i battesimi, i matrimoni, i funerali, l’entrare a far parte di un ordine religioso e così via.

Non tutti i riti di passaggio sono di carattere religioso: da un punto di vista antropologico sono importanti anche quelli di carattere laico, ampiamente diffusi nella nostra società, per esempio una cerimonia di laurea, la nomina di un nuovo preside, l’entrata di un ragazzo in un gruppo di adolescenti e così via: tutti “passaggi” che in qualche modo trasformano la persona, mutandone, talvolta irreversibilmente, lo status sociale.

Come abbiamo già visto ▶ unità 3, p. 105 |, nella sua celebre opera del 1909, intitolata appunto I riti di passaggio, Van Gennep ha distinto all’interno di ogni rito di passaggio tre fasi successive, ciascuna caratterizzata da rituali specifici:

  • separazione (riti preliminali);
  • margine (riti liminali);
  • aggregazione (riti postliminali).

Van Gennep ha sottolineato la grande importanza antropologica della fase centrale, la fase di “margine” (limen in latino significa “margine”, “confine”), che viene dopo il distacco di un individuo dalla sua condizione precedente e prima di quella in cui assumerà una nuova identità sociale, professionale, politica o religiosa. Questa fase liminale è estremamente delicata, vi è l’incertezza, la paura che il “passaggio” possa non compiersi in modo adeguato: non si è più da una parte, ma non si è nemmeno giunti dall’altra, e questa condizione provoca nell’individuo una sorta di smarrimento, una perdita temporanea dell’equilibrio.

L’antropologo scozzese Victor Witter Turner ▶ L’AUTORE | ha studiato il fatto che spesso i riti di passaggio sono da considerarsi collettivi: pensiamo ai bambini che vengono circoncisi, alle persone iniziate alle confraternite, ai militari nel centro addestramento reclute, ai calciatori al ritiro estivo, alle novizie nei conventi e così via. Sono tutti individui che affrontano in gruppo il rito di passaggio e vivono assieme la fase liminale. L’aspetto sociale di liminalità collettiva, definito da Turner con il temine communitas, si caratterizza per un intenso spirito comunitario, un sentimento di grande solidarietà sociale, eguaglianza e fratellanza.

Le persone che sperimentano insieme la liminalità formano una comunità di pari, le distinzioni sociali esistite prima o che esisteranno dopo sono temporaneamente dimenticate, e tutti hanno lo stesso trattamento, le stesse condizioni e devono agire allo stesso modo. La condizione di liminalità è in genere in contrasto e opposizione con la vita sociale normale.

l’autore  Arnold Van Gennep

Arnold Van Gennep (1873-1957) nasce a Ludwigsburg, in Germania, in una famiglia franco-olandese. Cresce in Francia e, appassionato di lingue e culture orientali, studia filologia, linguistica ed egittologia all’École pratique des hautes études a Parigi. Figura molto indipendente all’interno dell’accademia, studia diciotto lingue e la sua passione in linguistica e filologia ha un impatto anche sui suoi studi etnografici. Dal 1912 insegna etnografia all’università di Neuchâtel in Svizzera, dove è anche direttore del museo etnografico. Perde la cattedra nel 1915, per aver criticato la posizione della Svizzera durante la Prima guerra mondiale. La sua produzione scientifica e letteraria si può dividere in due fasi: la prima è dedicata all’analisi antropologica soprattutto dei riti, di cui l’opera più importante è I riti di passaggio (1909); la seconda fase invece è incentrata sugli studi del folklore francese, su cui pubblica svariati volumi, tra cui Il Folklore nel 1924. Lavora come scrittore per alcune case editrici francesi, scrivendo di etnografia, folklore e religione. Muore a Bourg-la-Reine, in Francia, nel 1957. Un anno dopo esce postumo il suo Manuale del folklore francese contemporaneo.

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l’autore  Victor Witter Turner

Victor Witter Turner (1920-1983) è stato un importante antropologo britannico, figura di spicco della Manchester School of Anthropology. Nasce a Glasgow in una famiglia di media borghesia. Suo padre era un ingegnere elettronico mentre sua madre era un’attrice. È proprio l’influenza della professione materna che lo porta a interessarsi alla performance e al teatro. Nel 1949 si laurea in antropologia e prosegue gli studi nel Dipartimento di antropologia sociale dell’università di Manchester sotto la supervisione dell’antropologo Max Gluckman, fondatore del dipartimento stesso, dove consegue il dottorato nel 1955. Compie le sue ricerche di campo tra i Ndembu della Zambia e negli anni successivi collabora con altre figure importanti dell’antropologia britannica, quali Radcliffe-Brown, Meyer Fortes, Raymond Firth. Nel 1961 inizia il suo percorso nell’accademia americana, diventando professore di antropologia nell’università di Chicago. Nel 1978 si trasferisce a Charlottesville, in Virginia, dove insegna antropologia e religione fino alla sua morte. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu (1967); Dal rito al teatro (1982); e, postumo, Antropologia della performance (1986).

I riti funebri e i riti di iniziazione

Fra i riti di passaggio è indispensabile menzionare i riti funebri. Essi contengono gesti, azioni e parole che richiamano alla mente di coloro che vi partecipano i valori e i significati su cui la comunità fonda l’ordine del mondo e di se stessa: sono importanti perché si svolgono proprio nel momento in cui le persone vivono l’esperienza più intensa e drammatica di minaccia alla stabilità e al senso di quei valori. In tutte le società la morte è infatti un evento dirompente.

Come ha affermato l’antropologo francese Robert Hertz ▶ L’AUTORE | nella sua opera Studio sulla rappresentazione collettiva della morte (1907), le società devono far fronte a un vero e proprio “scandalo”. La scomparsa di un proprio componente è un nesso che si rompe in una rete di relazioni, di diritti e doveri, di cariche e funzioni sia pubbliche sia private, oltre che un condensato di affetti. Scrive infatti Hertz: «La morte non si limita a metter fine all’esistenza corporea, visibile, di un vivo; essa distrugge contemporaneamente l’essere sociale che si sovrappone all’individualità fisica, a cui la coscienza collettiva attribuiva un’importanza, una dignità più o meno grandi».

La comunità avverte la morte di un proprio membro come una minaccia alla coesione sociale, da cui scaturisce l’esigenza di pratiche culturali per ristabilire l’equilibrio.

Hertz si era interessato soprattutto ad alcuni rituali funebri delle popolazioni del Borneo, nel Sud-Est asiatico. Qui si praticavano due riti distinti intervallati da un periodo di lutto. Subito dopo la morte di una persona si svolgevano le “prime esequie”, a cui seguivano, dopo un certo tempo, le “seconde esequie”, costituite da un rito più solenne del primo, durante il quale veniva data una sistemazione definitiva ai resti del defunto. È questo rito della seconda sepoltura che Hertz prese come punto di partenza per la sua riflessione: la morte non è un evento puntuale, che si determina in un singolo accadimento, ma è un processo che si svolge nel corso tempo, è una transizione da uno stato all’altro, un passaggio dalla comunità dei vivi a quella dei defunti, dal mondo visibile a quello invisibile, esattamente, ma in modo speculare, come il rito di passaggio che accompagna la nascita.

Questa affermazione di continuità, che corrisponde alla credenza in una vita ultraterrena, è caratteristica di tutte le società e di tutte le religioni. Come scrive Hertz: «poiché ha fede in se stessa, una società sana non può ammettere che un individuo che ha fatto parte della sua sostanza, sul quale ha impresso il suo marchio, sia perduto per sempre; l’ultima parola deve restare alla vita: in forme diverse, il defunto uscirà dal mondo angoscioso della morte per rientrare nella pace della comunione umana».

Altri riti di passaggio sono i riti di iniziazione, che abbiamo già ampiamente trattato ▶ unità 3, p. 105 |.

Con i riti di iniziazione l’individuo assume ufficialmente la posizione adeguata alla sua età sociale prendendo consapevolezza di diritti e doveri che gli competono in epoche diverse della sua vita. Ma riti di iniziazione possono anche essere quelli che sanciscono l’affiliazione degli individui a gruppi malavitosi, a logge massoniche, a congregazioni e sette, a società segrete come in molte società dell’Africa occidentale e in passato dei nativi del Nordamerica.

l’autore  Robert Hertz

Robert Hertz (1881-1915), nato a Saint-Cloud in una famiglia di origini ebraiche, è stato un antropologo francese. All’età di diciannove anni entra a far parte del gruppo della rivista “Année Sociologique” e lavora con molti antropologi e sociologi, tra cui Durkheim e Mauss. Si arruola come volontario nella Prima guerra mondiale dove viene ucciso nel 1915 a Marchéville, in Francia. Nonostante la sua morte prematura, il suo lavoro rimane molto importante. Nei suoi studi Hertz ha mostrato quanto il morire, oltre che un processo biologico, sia una costruzione sociale che si svolge nel corso del tempo, mediante simbologie e rituali volti a plasmare le emozioni che derivano dal dramma comunitario della morte. Nonostante la sua breve carriera, pubblica due lavori significativi: Studio sulla rappresentazione collettiva della morte (1907) e La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa (1909).

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2.4 I riti di inversione

Un’altra importante categoria di riti è quella dei riti di inversione, in cui vengono temporaneamente sovvertiti i ruoli e l’ordine sociale.

Il carnevale è un tipico rito di inversione che ha radici nell’area settentrionale del Mediterraneo. Si celebra largamente in tutta l’Europa meridionale e nell’emisfero occidentale. Nella tradizione popolare è connesso al ciclo agrario della morte e della rinascita della primavera e ha complessi significati simbolici legati al valore dei ritmi della natura. Il carnevale è il momento forte del calendario solilunare, in cui la durata media dell’anno lunare è uguale a un anno solare, che governa il tempo della tradizione. Il tempo di carnevale è un periodo predittivo dell’annata agraria che sta per cominciare. È un momento di vivaci celebrazioni che precede quello di digiuno previsto dalla ricorrenza cristiana della Quaresima: il termine “carnevale”, infatti, deriva dal latino e significa “addio alla carne”, in riferimento al fatto che i credenti smettono di mangiare carne durante la Quaresima.

I riti di inversione capovolgono l’organizzazione ordinaria dei ruoli e delle relazioni sociali. Non solo consentono alle pressioni sociali di liberarsi, ma sono un momento culturale importante per affermare l’adeguatezza delle pratiche e dei ruoli che vigono quotidianamente nel tempo ordinario, al cui rispetto gli individui dovranno tornare.

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2.5 Animismo, sciamanismo e totemismo

Il termine “▶ animismo” è stato introdotto negli studi antropologici da Edward Tylor ▶ unità 1, p. 17 | nella sua monumentale opera del 1871, Primitive Culture, dedicata in gran parte a delineare una teoria evolutiva dei sistemi di credenze magico-religiose.

Tylor definiva animismo «la credenza nelle anime e negli esseri spirituali in genere» o più esattamente la credenza, tipica dei popoli primitivi, secondo cui gli animali, le piante, i minerali e gli oggetti possedevano un’anima, nel senso di soffio vitale (dal greco ánemos, “vento”) e non nel senso cristiano del termine. Per Tylor l’animismo costituiva il grado zero della religione, cioè il sistema di credenze più semplice e più profondo su cui ogni altra credenza si è sviluppata per elaborazioni storiche successive.

Fu invece l’archeologo britannico John Lubbock a introdurre nel 1870 il termine ▶ sciamanismo, dalla parola inglese shaman derivata dal termine saman dei Tungusi dell’Asia settentrionale (Siberia), e ad allargarne l’uso a tutti i rituali con caratteristiche simili anche in altri contesti oltre a quello siberiano, in particolare nell’Asia centrale e nelle Americhe.

Lo sciamano è una persona, uomo o donna, che possiede la speciale abilità di entrare in comunicazione con il mondo degli spiriti, ponendosi volontariamente in uno stato di semi-incoscienza (trance), talvolta utilizzando la musica o assumendo sostanze per provocare stati di tipo allucinatorio. Una volta in trance, lo sciamano entra in contatto con i poteri sovrannaturali dai quali attinge le conoscenze per poter operare sui propri pazienti e guarirli, o per avere visioni sul futuro.

A differenza di quanto accade nelle forme di ▶ possessione ▶ APPROFONDIAMO, p. 366 |, lo sciamano comunica con le entità ultraterrene ma non diviene lo strumento passivo della loro volontà: egli è soltanto una sorta di mediatore privilegiato fra il mondo umano e il mondo degli spiriti. Con un lungo rito di iniziazione egli impara a provocare la trance e apprende le tecniche per controllare gli spiriti.

Lo sciamano è una figura religiosa che negli studi antropologici è stata spesso contrapposta al sacerdote, anche a prescindere da una visione evoluzionistica delle credenze. Esistono infatti alcune differenze antropologiche importanti fra sciamani e sacerdoti:

  • il potere del sacerdote, a differenza di quanto accade per l’iniziazione sciamanica, non dipende dalla sua persona, ma dall’ufficio che ricopre, e deriva dal corpo di conoscenze rituali codificate dalla tradizione che egli apprende dai sacerdoti più anziani;
  • lo sciamano comunica direttamente con gli spiriti, mentre il sacerdote non ha necessariamente una relazione faccia a faccia con le entità soprannaturali che evoca nelle cerimonie religiose;
  • tra il sacerdote e la divinità interviene l’istituzione religiosa: egli è il depositario di credenze e pratiche sacre che si impegna a conservare e a trasmettere.

Allo sciamanismo per così dire classico, di cui sussistono ancora oggi esempi nell’area siberiana, artica e himalayana, si affiancano altre forme religiose, soprattutto fra le popolazioni indie del Sudamerica, che pur mostrando alcune variazioni, si possono definire anch’esse sciamaniche.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, James Frazer introdusse l’uso del termine totemismo per definire una serie di credenze basate sul culto del ▶ totem, alquanto diffuse fra le popolazioni tradizionali extraeuropee. Secondo la definizione di Frazer, il totem è «una classe di fenomeni naturali o di oggetti materiali, più comunemente una specie animale o vegetale con la quale il selvaggio crede di essere in stretta relazione».

Frazer ricava la parola da un’espressione dei nativi nordamericani Ojibwa di lingua algonchina, stanziati intorno al Lago Mitchigan. La trascrizione e il significato sono incerti: deriverebbero dal termine ote per indicare certe appartenenze (tribù, famiglia, territorio), utilizzato in espressioni indigene come nind-otem, “mia tribù”, o kit otem, “tua tribù”.

Il totemismo indica dunque un insieme di credenze e pratiche rituali che ruotano intorno alla relazione tra una specie (animale o vegetale) o un fenomeno naturale e un gruppo sociale: ogni clan ▶ unità 7, p. 274 | porta il nome della specie o fenomeno (totem) a cui è associato.

Molti antropologi, fra cui Frazer, Radcliffe-Brown e Lévi-Strauss, si sono a lungo confrontati sulle origini e il senso di questa credenza religiosa.

Una interpretazione molto influente del totemismo è quella di Émile Durkheim. Egli studiò il totemismo degli aborigeni australiani, considerato la forma elementare e originaria di religione, allo scopo di analizzarne il ruolo fondamentale nella vita sociale. La società aborigena è suddivisa in clan, ciascuno dei quali ha un proprio totem (animale, pianta o elemento naturale) che lo rappresenta. Secondo Durkheim, attraverso i riti collettivi rivolti al totem gli aborigeni australiani esprimono l’identità collettiva del clan e percepiscono l’esistenza di un’entità collettiva che sovrasta il singolo: la società. Venerando il totem, dunque, gli individui in realtà innalzano un culto alla propria società: «Il dio del clan, il principio totemico, non può essere dunque che il clan medesimo, ma presentato all’immaginazione sotto la forma sensibile del vegetale o dell’animale che serve da totem».

Per Durkheim la religione assolve così a una funzione analoga e ha una natura simile ovunque: attraverso i riti essa assicura la devozione alla società e alle sue norme e rafforza in tal modo la coesione sociale.

approfondiamo  L’umbanda e il colonialismo

In Brasile, come in altri paesi che hanno subito per secoli il giogo della schiavitù e del colonialismo, hanno avuto origine svariati culti sincretici, nati cioè dalla fusione di esperienze e tradizioni religiose differenti. Tra questi, l’umbanda è sorta dall’incontro fra la dottrina spiritica del francese Allan Kardec (il “kardecismo”), diffusa in Brasile nel XIX secolo, il candomblé, ossia il culto degli orixás, divinità africane adorate dagli schiavi provenienti dalle coste occidentali dell’Africa, e il cristianesimo.

Si tratta di una religione il cui sviluppo, cominciato nella prima metà del Novecento, è andato di pari passo con la crescita repentina delle grandi metropoli del paese, in particolare Rio de Janeiro e San Paolo. Lo spostamento di massa nelle città fece sì che persone di diversa estrazione sociale confluissero nella popolazione urbana, portando con sé le diverse credenze e cerimonie religiose che al tempo convivevano nel paese. L’umbanda è nata dunque dalla mescolanza di elementi propri delle religioni “bianche”, com’erano in Brasile il kardecismo e il cristianesimo, con elementi di religioni “nere”, come il candomblé e la macumba (culto spiritistico volto a ottenere la liberazione dal male attraverso danze accompagnate da musiche e canti spinti fino a raggiungere fasi di estasi e trance), assumendo i tratti di una religione per tutti: bianchi e neri, di classe media o bassa. Questo ha portato molti studiosi a interpretare il culto come la religione brasiliana per eccellenza, espressione del volto meticcio e moderno con cui la neonata nazione aveva deciso di identificarsi a partire dagli anni Trenta.

Al centro del rituale umbandista vi sono entità spirituali che rappresentano figure cardine della storia brasiliana: spiriti di vecchi schiavi africani (pretos velhos), indigeni (caboclos), marinai (marinheiros), mandriani dell’entroterra (boiadeiros) e così via, che tornano sulla Terra attraverso il corpo dei medium per offrire consulti ai fedeli.

Il dispositivo della possessione diviene così il mezzo per mettere in scena il ritorno del passato, costringendo i partecipanti al culto a ripensare costantemente la storia rielaborando i fantasmi del colonialismo e della schiavitù. Il corpo degli adepti viene preparato ad accogliere gli spiriti, permettendo a quest’ultimi di parlare e agire attraverso la sostituzione temporanea del loro sé a quello dei medium. In questo modo, le figure storicamente marginalizzate degli schiavi e degli indios, incarnazione dei traumi che sono alla base della genealogia del paese, tornano ad avere un ruolo nella storia, impedendo che la memoria di quanto accaduto venga cancellata.

Come avviene per molti culti di possessione, l’umbanda si configura come uno strumento per rinsaldare il legame sociale tra i fedeli, connettendo i brasiliani – e, ancor di più, gli afrobrasiliani – al proprio passato, in modo da impedire che esso venga dimenticato e cementare così un forte senso di comunità.

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2.6 Il tempo della festa

Sebbene spesso caratterizzata dalla celebrazione di riti, la festa non può essere identificata con i riti che vi si svolgono. Si potrebbe dire che la festa stessa è una forma di rito anche indipendentemente dalla ritualità che si attua durante la sua celebrazione.

Una delle caratteristiche fondamentali della festa è dunque la sua correlatività con il tempo comune: festa è un giorno che non è comune (detto appunto “feriale”), giorno comune è quello che non è “festivo”.

Il distinguersi della festa dal resto del tempo si realizza in varie forme:

  • durante le feste vigono norme di comportamento differenti da quelle abituali: ciò che è normale o anche obbligatorio nei giorni comuni, per esempio il lavoro, può essere proibito nelle feste;
  • durante le feste ci si veste, si mangia (o si digiuna) diversamente che nei giorni comuni;
  • certi tabu, vigenti sempre, possono essere sospesi proprio per le feste.

Da un punto di vista antropologico questa diversità del comportamento festivo ha la funzione di separare la festa dalla continuità temporale. La festa è perciò “fuori del tempo”: mentre nel tempo profano ogni giorno è diverso dall’altro, una festa è concepita come sempre uguale a se stessa, nel suo ripetersi secondo tratti costitutivi. Pensiamo per esempio alla festa di compleanno, in cui compaiono sempre la torta, le candeline, la canzone di auguri e i regali.

La diversità di circostanze non incide sugli aspetti essenziali della festa:

  • il tempo della festa può essere paragonato al tempo del mito: come molti antropologi e storici delle religioni hanno osservato, non si tratta solo di una somiglianza; le feste hanno normalmente un aspetto commemorativo, celebrano cioè eventi mitici o leggendari, e perfino rievocano eventi storici considerati significativi come quelli mitici. Come per i miti, durante la festa si è dunque al di fuori del tempo profano, per ritrovare il tempo che fonda il senso dell’esistenza;
  • non qualsiasi momento ricorrente diventa festa, ma solo i momenti ricorrenti importanti o critici che la comunità ha bisogno di sottrarre alle contingenze del tempo profano (le feste d’inverno, Natale, la Candelora, il carnevale e così via). Queste feste periodiche costituiscono probabilmente le basi storiche e i cardini di ogni calendario: rivelano il primo sforzo di comprendere i ritmi della natura (l’anno solare, lunare e così via), le ricorrenze astronomiche e stagionali.

Dal punto di vista dell’analisi delle credenze e delle loro trasformazioni storiche a proposito della festa, è interessante ricordare un’importante ricerca condotta in Piemonte e in Valle d’Aosta dagli antropologi Gian Luigi Bravo e Piercarlo Grimaldi nell’ultimo quarto del Novecento: questa ricerca ha messo in crisi il vecchio preconcetto delle feste popolari connesse alla tradizione e all’isolamento.

Le comunità rurali dell’arco alpino occidentale hanno subito forti mutamenti sociali e demografici e sono state disgregate nell’interazione con la modernità e la globalizzazione. Tuttavia, dalle ricerche etnografiche è emersa una grande vivacità di feste tradizionali non connessa tanto a territori isolati e protetti dall’impatto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, quanto piuttosto a zone coinvolte nello scambio con la città.

I protagonisti e gli animatori di queste feste non erano persone chiuse e immerse nel passato montano e rurale, ma apparivano al contrario gli individui più aperti e attivi negli apparati produttivi, nella fabbrica e nella scuola. Si trattava soprattutto di pendolari che agivano ora nel contesto urbano ora in quello rurale.

Esempio: a Giaglione, in alta Val di Susa, è tipico il bran, un’alta struttura lignea a forma di cono, decorata con nastri multicolori, fiori, spighe e contenente un pane, che, portata sul capo da una giovane donna, accompagna il rito della processione e la danza. Questo oggetto è stato ricostruito sul modello di vecchi esemplari e reintrodotto di recente dopo essere stato abbandonato per molti anni. Un elemento della festa che può colpire l’osservatore per il suo carattere più arcaico è in realtà quello più nuovo, frutto di una ricerca e un intervento intenzionali e creativi.

Bravo e Grimaldi hanno interpretato la reviviscenza della festa contadina legata all’alternanza dei pendolari fra contesti socioculturali diversi come una modalità di orientamento: la festa è risorsa di tradizione per vivere la complessità della città. Ricostituendo i ritmi condivisi della comunità d’origine, la festa può fornire una risposta alla domanda di radici e di rapporti comunitari, un terreno per l’appartenenza, per il reciproco riconoscimento e la costruzione di una memoria comune.

  esperienze attive

Osservare una festa Pensa a una festa tradizionale che si svolge nel tuo paese o nella tua città e, se capita nel momento di questa esperienza attiva, vai a parteciparvi e osserva quello che succede. Che tipo di festa è? Come inizia e come finisce? Quali riti ci sono? Qual è il cibo rituale? Si beve il vino? C’è un santo protettore della festa? Quali oggetti vengono utilizzati per le varie attività? Ci sono dei giochi da fare? Ci si traveste? Con quali abiti? Secondo te, che importanza ha questa festa per la comunità? Qual è la posizione della festa nel cerchio dell’anno? E perché si ripete ogni anno?

per lo studio

1. Qual è l’importanza dei miti?

2. Quali sono le caratteristiche principali del rito?

3. Che cos’è lo sciamanismo?


  Per discutere INSIEME 

La notte di san Nicolò, il 5 dicembre, le strade nel Tirolo, in Friuli, in Alto-Adige, nella provincia di Belluno e in alcune zone dell’Austria, si popolano di esseri demoniaci, chiamati Krampus, che sfilano nei cortei paesani con fruste e catene, spaventando i bambini e frustando i passanti fino a che san Nicolò non li placa e li scaccia. Vai a cercare su Internet che cosa fanno i Krampus e, in base a quello che hai letto nel capitolo sul concetto di communitas coniato da Turner, discuti insieme ai tuoi compagni dell’importanza di questo rito e dei significati che esso ha per le comunità.

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane