1. Credere e conoscere

1. Credere e conoscere

1.1 L’irrazionalità delle credenze

Come abbiamo detto più volte, l’antropologia culturale nasce in Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento, nel contesto della Rivoluzione industriale. Durante il regno della regina Vittoria, dal 1837 al 1901, la Gran Bretagna si era affermata come maggiore potenza coloniale dell’epoca; quasi mezzo mondo era sotto la corona britannica: dall’India all’Africa, dall’Australia alla Nuova Zelanda. Proprio per questo motivo, gli europei del XIX secolo, e in particolare i britannici, si trovavano in costante contatto con le culture extraeuropee, molte delle quali erano ancora legate a un modello di organizzazione tradizionale. Questo, agli occhi degli europei, appariva addirittura “primitivo”, per utilizzare un aggettivo che proprio in quegli anni, grazie a Tylor ▶ unità 1, p. 17 |, assunse un significato e una diffusione senza precedenti; di fronte ai bizzarri costumi nativi, costituiti da fantasiose mitologie, strane credenze e variopinti rituali, gli europei si sentivano portatori di una civilizzazione superiore. La loro superiorità tecnologica, organizzativa e militare li rendeva non soltanto capaci di imporsi politicamente sulle altre popolazioni, ma confermava la loro convinzione di essere i portatori della luce del progresso, inteso sia sul piano dello sviluppo tecnologico, sia, e soprattutto, sul piano dello sviluppo spirituale e morale.

Il progresso tecnologico, esibito concretamente nella prima Esposizione universale di Londra del 1851, dimostrava culturalmente la validità dell’ideologia positivista. Nell’Esposizione infatti, tenutasi nel sontuoso Crystal Palace, giganteschi padiglioni esponevano centinaia di macchine di tutti i tipi e realizzate per tutti gli usi: fucine, locomotive, macchine agricole, ascensori e così via.

In questa prospettiva gli antropologi evoluzionisti ▶ unità 1, p. 28 | hanno interpretato l’evoluzione umana come il trionfo della ragione sui costumi e della scienza sulla credenza. In particolare, guardavano con scetticismo alle pratiche magico-religiose e alle credenze delle altre società, considerate tentativi inadeguati di spiegare gli eventi e quindi forme di pensiero irrazionale.

I nativi, secondo James Frazer, a causa della loro immaturità intellettiva, commettevano l’errore di non collegare fra loro i fatti secondo nessi di causa ed effetto. Erano cioè privi di un metodo che li portasse a distinguere la verità oggettiva dalla fantasia. Come la crescita e la maturazione individuale portano il bambino a diventare adulto, abbandonando la credenza in Babbo Natale, così l’emergere del pensiero razionale andrebbe di pari passo a una progressiva maturazione intellettuale del genere umano.

L’antropologo francese Lucien Lévy-Bruhl ▶ L’AUTORE |, nel suo volume La mentalità primitiva del 1922, sostiene che i primitivi hanno una mentalità pre-logica, nella quale non valgono le leggi del pensiero scientifico. La loro mentalità si basa cioè su principi affettivi: non opera distinzioni come fa il pensiero scientifico, ma coglie legami di partecipazione mistica fra persone, animali e cose in virtù di rappresentazioni collettive.

Esempio: a proposito dei Bororo del Mato Grosso, in Brasile, che sono soliti dire “noi siamo arara rossi”, cioè una specie di pappagallo amazzonico dal piumaggio multicolore, Lévy-Bruhl scrive: «quel che vogliono far comprendere è un’identità essenziale. Che essi allo stesso tempo siano degli esseri umani, come in realtà sono, e degli uccelli dalle rosse piume, è una cosa assolutamente inconcepibile [...], ma per una mentalità che si basa sulla legge di partecipazione non vi è nessuna difficoltà ad accettarla».

Per Lévy-Bruhl, in molte società tradizionali la comunità può sentirsi fortemente legata a una tipologia di pianta o a una specie animale, mediante una serie di rappresentazioni collettive dello stesso genere.

Per buona parte del periodo fondativo dell’antropologia culturale, tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, la mentalità magico-religiosa è stata dunque considerata come intrinsecamente illusoria rispetto alla convinzione, ispirata dal positivismo, della validità assoluta del pensiero occidentale. I “primitivi” erano considerati tali perché credevano, ovvero erano inclini ad assumere una modalità di rappresentazione del mondo che li portava a convinzioni essenzialmente false (le credenze), e a produrre un sapere sul mondo sostanzialmente errato; al contrario, i “moderni” erano tali perché conoscevano: affrancatisi storicamente, nel corso dell’evoluzione culturale dell’Occidente, dalla magia (e poi anche dalla religione), essi si orientavano secondo una modalità di rappresentazione del mondo che li portava a un sapere completamente vero e definitivo sulla realtà (la scienza).

Il concetto di credenza implica sempre un giudizio riguardo alla dubbia verità di ciò che viene affermato ed è considerato opposto al concetto di conoscenza. Se infatti, in un’ottica positivista, la conoscenza è l’unico e definitivo specchio di una realtà oggettiva a cui il metodo sperimentale ci consente di accedere attraverso i fatti, la diversità dei sistemi di credenze magico-religiose non può che risultare incomprensibile e irrazionale.

Esempio: questa distinzione emerge chiaramente di fronte alla domanda: “Perché ci è capitata questa disgrazia?”.

Analizziamo le risposte nel caso, per esempio, di un terremoto:

  • il “primitivo” è tale perché invoca in modo irrazionale la credenza nel
  • peccato o nell’ira di esseri spirituali, come nella mitologia giapponese in cui i terremoti sono causati da un enorme pesce gatto chiamato Namazu, che il dio Kashima tenta invano di controllare;
  • il “moderno” è tale perché invece risponde utilizzando in modo razionale la scienza e studia i terremoti con la geologia, scoprendone le vere cause materiali.

Se dunque riteniamo che i principi della scienza siano anche i criteri universali della conoscenza e quindi gli unici veramente razionali, allora noi occidentali conosciamo, mentre gli altri, i nativi di ogni comunità tradizionale, per lo più credono.

Questa impostazione si chiama approccio oggettivista allo studio delle credenze.

Dal punto di vista di tale approccio c’è una forte contraddizione fra l’affidarsi alla competenza di un chirurgo che opera un malato e contemporaneamente pregare affinché l’operazione vada bene. Chi salva il malato? Le mani abili del chirurgo o l’intensità della preghiera?

l’autore  Lucien Lévy-Bruhl

Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) è stato un filosofo francese i cui lavori sulla religione e le società “primitive” hanno influenzato gli studi antropologici e sociologici sulla mitologia, sulla religione e la magia di inizio Novecento. Nasce a Parigi e fin dall’infanzia trova nella filosofia la sua più grande passione. Dopo essersi brillantemente diplomato all’École normale supérieure di Parigi nel 1885, inizia una carriera altrettanto notevole alla Sorbona dove, una volta laureatosi nel 1899, ottiene anche la cattedra di storia della filosofia moderna che terrà fino al 1927. Le opere di maggior rilievo sono: Le funzioni mentali nelle società inferiori (1910); La mentalità primitiva (1927); Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva (1931). In generale il suo lavoro è fortemente influenzato dalle teorie evoluzioniste e dal positivismo che permeavano il clima intellettuale dell’epoca. Negli ultimi anni di vita egli stesso formula delle riserve verso alcune sue teorizzazioni.

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1.2 La stregoneria degli Azande

L’antropologo britannico Edward Evan Evans Pritchard ▶ L’AUTORE | è stato il primo antropologo a inaugurare una prospettiva completamente diversa, che si può definire approccio interpretativo allo studio delle credenze.

Secondo questo approccio, che dagli anni Trenta del Novecento a oggi è ormai quello prevalente in antropologia culturale, non si può comprendere la complessa esperienza del credere in termini esclusivamente oggettivi di verità o falsità, oppure di razionalità o irrazionalità di una credenza.

Nella monografia etnografica dal titolo Stregoneria, oracoli e magia fra gli Azande (1937), uno dei libri più influenti della storia dell’antropologia, Evans-Pritchard espone i risultati di una lunga ricerca sul campo in Africa, dal 1926 al 1930, fra gli Azande del Sudan anglo-egiziano. Il cuore del sistema di credenze zande è il mangu, un termine che l’autore decide di tradurre con “stregoneria”, sottolineando subito però le profonde differenze con la ▶ stregoneria diffusasi in Europa fra il XV e il XVIII secolo.

Qualunque tipo di disgrazia, come per esempio la rottura accidentale di un vaso di terracotta (gli Azande sono abili vasai), oppure il crollo di un granaio, fino alla morte di una persona cara, è attribuito all’effetto negativo del mangu. Il mangu è il potere posseduto, anche inconsapevolmente, da alcuni individui di nuocere ad altri attraverso mezzi mistici, cioè non mediante un’azione fisica diretta. Perciò gli Azande si impegnano in riti per fronteggiare la stregoneria, consultano ▶ oracoli per capire quali contromisure adottare e utilizzano una grande quantità di rimedi magici.

Evans-Pritchard rileva varie contraddizioni nella logica di questo sistema, che secondo un approccio oggettivista è palesemente irrazionale, e si sorprende molto quando, vivendo a stretto contatto con loro, scopre che gli Azande in realtà comprendono benissimo che un granaio è crollato perché è stato rosicchiato dalle termiti, e che ciò è accaduto perché non hanno controllato di frequente il legno delle fondamenta, oppure che un vaso si è rotto per la fretta e la sbadataggine dell’artigiano.

In altri termini gli Azande sanno spiegare i nessi empirici fra le cose, comprendono le vere cause degli accadimenti. Ma allora perché, si chiede Evans-Pritchard, non utilizzano queste spiegazioni e ricorrono al mangu?

La risposta è la seguente: essi non utilizzano spiegazioni logiche non perché non le comprendano sul piano di realtà, e quindi non perché siano intellettivamente immaturi, come sosteneva Frazer, o pre-logici, come affermava Lévy-Bruhl, ma perché queste spiegazioni non sono importanti per loro. Il piano di analisi oggettiva della realtà non è rilevante per la cultura zande perché di fronte a una disgrazia non fa stare meglio, non acquieta il dolore e non risolve il lutto.

Gli Azande utilizzano la metafora della doppia lancia. Quando capita una disgrazia, come il crollo di un granaio che colpisce un amico ferendolo gravemente, ragionano secondo questo criterio:

  • la prima lancia sono le termiti e spiega il come accadono le cose;
  • la seconda lancia è il mangu e spiega il perché accadono le cose: proprio quel giorno, in quel momento, a quella persona.

Questa doppia teoria della causalità è la scoperta più importante nell’ambito delle ricerche etnografiche di Evans-Pritchard presso questa popolazione africana, per molto tempo ritenuta primitiva. Il problema di stabilire le cause dei fatti per gli Azande non sta nell’accertare la verità scientifica dal punto di vista oggettivo, nel trovare i nessi empirici di causa ed effetto fra le cose, ma nel capire la causa della sorte individuale che non può intrinsecamente essere attinta da alcuna analisi scientifica.

Esempio: ipotizziamo che un uomo della nostra società abbia un grave incidente d’auto perché guidava con i freni rotti. A questo segue una serie infinita di domande e risposte per spiegare l’accaduto. Perché si sono rotti i freni? Perché erano consumati. Ma perché l’uomo non si è accorto che erano consumati? Perché non ha fatto il tagliando. Ma perché non l’ha fatto? Perché è distratto. E perché è distratto? Perché la moglie l’ha lasciato. Ma perché la moglie l’ha lasciato? E così via. Non esiste una risposta causativa finale, sul piano scientifico, alla sorte individuale. Alcune risposte del tipo “È stata una tragica fatalità”, “Era il suo destino” sono qualitativamente identiche alla risposta zande: “L’ha colpito il mangu”.

Dunque, nella cultura zande la prima lancia risponde a un interrogativo generale legato alla struttura fisica della realtà, al come le cose accadono, verso cui però gli Azande non mostrano grande interesse; la seconda lancia, il mangu, risponde invece a un interrogativo esistenziale profondo, legato al piano emotivo, al dolore individuale che si prova di fronte a una disgrazia e che non viene superato semplicemente perché si capisce come è accaduta, ma solo cercando di capire perché è accaduta proprio a noi.

Scrive Evans-Pritchard illustrando il pensiero zande: «Il fuoco è rovente, ma l’essere rovente non è imputabile alla stregoneria, poiché è nella sua natura. Quella di bruciare è una qualità universale del fuoco, ma non è una sua qualità universale quella di bruciare proprio te. Quest’ultima cosa potrebbe non accadere mai; ma se ti succede anche una sola volta nella vita è solo perché sei stato stregato».

Per Evans-Pritchard le credenze zande non sono nuclei concettuali di una teoria quasi scientifica del mondo, quindi errata. Sono nuclei etici. Disegnano un paesaggio morale. L’oracolo zande che si consulta per stabilire l’origine della stregoneria dice come si può fare per stare meglio, come si deve agire, come si può superare il dolore.

L’antropologia culturale contemporanea ha esteso i risultati teorici delle ricerche di Evans-Pritchard fra gli Azande ai sistemi di credenze in generale: l’esperienza del credere è un modo di dare senso al mondo e alla vita. Per questo da un punto di vista interpretativo non si può comprendere una credenza stabilendo se essa è vera o falsa, corretta o errata, razionale o irrazionale. Il conoscere e il credere non sono atteggiamenti del pensiero che confliggono sullo stesso piano, ma si integrano fra loro in piani differenti di comprensione del mondo.

Perciò la ▶ dicotomia evoluzionista che oppone credenza e conoscenza si annulla, e si annulla di conseguenza anche la dicotomia fra primitivi e moderni che da essa deriva: il concetto stesso di “primitivo” risulta così confutato e deve essere eliminato. Come ha affermato il filosofo viennese Ludwig Wittgenstein: «anche quando avessimo trovato risposta a tutte le domande scientifiche, i nostri problemi vitali non sarebbero stati ancora neppur toccati».

l’autore  Edward Evan Evans-Pritchard

Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973) nasce a Crowborough nel Sussex. È stato uno dei maggiori antropologi della storia dell’antropologia: fondamentali i suoi studi sull’Africa e il suo lavoro sulla stregoneria e la magia. Studia storia moderna all’università di Oxford e consegue il dottorato in antropologia alla London School of Economics. Nel decennio 1926-1936 svolge due importanti ricerche etnografiche tra gli Azande e i Nuer del Sudan che danno luogo alle monografie Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (1937) e I Nuer. Un’anarchia ordinata (1940), due pietre miliari dell’antropologia culturale. Durante la Seconda guerra mondiale serve il governo inglese in Africa orientale e Medio Oriente. In questo periodo svolge anche una ricerca sul campo che lo porta alla pubblicazione del saggio I Senusi della Cyrenaica (1949). Nel 1946 ottiene la cattedra di antropologia sociale all’università di Oxford dove rimane professore fino al suo pensionamento nel 1970. Nel 1971 riceve la nomina di Cavaliere grazie al suo contributo nello studio delle scienze sociali. Muore a Oxford nel 1973.

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1.3 La magia

La parola “⇒ magia” storicamente designò l’arte rituale dei magi, cioè i sacerdoti mazdei addetti al culto di Mazda, sistema di credenze diffusosi grazie agli insegnamenti del profeta Zarathuštra (chiamato anche Zoroastro) in Iran e nell’Asia centrale, fra il VI secolo a.C. e il X secolo d.C.

In molte fonti storiche il termine “magia” venne anche utilizzato per definire le pratiche astrologico-divinatorie dei Caldei, confusi con i fedeli del mazdeismo. I Caldei provenivano infatti dalla Mesopotamia, detta Caldea dai greci, terra appartenente all’antico Impero persiano conquistato da Alessandro Magno che non corrisponde all’Iran geografico.

Lo storico delle religioni italiano Dario Sabbatucci (1923-2002) affermava che la magia era soprattutto un’arte divinatoria, cioè volta a prevedere il futuro, estranea alla religione tradizionale greca e che si andava diffondendo fra le classi meno colte della popolazione. La magia era infatti considerata in modo negativo, come una attività che si opponeva in qualche modo al sistema sociale ed etico che il culto degli dèi sosteneva.

La cultura romana rafforzò, anche in termini giuridici, la definizione negativa della magia, estendendo il concetto a tutta una serie di pratiche (come gli incantesimi) vietate dalla legge. Il cristianesimo ereditò da Roma la concezione negativa della magia e della divinazione, e attribuì alla magia il carattere di non-religione o di anti-religione come prodotto di azione diabolica rivolta contro Dio. Questa configurazione teologica condusse ai processi di magia e stregoneria della storia moderna in Europa.

Da un punto di vista antropologico la magia si può definire un insieme di pratiche occulte connesse a forze soprannaturali che vengono manipolate con gesti, parole e oggetti al fine di condizionare il corso degli eventi. Un atto magico è un’azione compiuta da un soggetto (il mago o lo stregone) con l’intento di esercitare un’influenza di qualche tipo (positiva o negativa) su qualcuno o qualcosa.

La magia può essere di due tipi:

  • la magia nera, che si avvale di spiriti maligni, per scopi malvagi, e consiste in una serie di operazioni (gesti o parole) condotte su qualcosa che è appartenuto o che è stato in contatto con la persona che si vuole colpire;
  • la magia bianca, o magia curativa, che in base agli stessi principi è volta a produrre effetti benefici sul soggetto prescelto, fino a portarlo anche alla guarigione da qualche malattia.

James Frazer dedicò alla magia la sua opera più famosa, Il ramo d’oro, pubblicata nel 1890, in cui, mediante un’ampia comparazione etnografica e storica, arrivò a sostenere l’esistenza di altri due tipi fondamentali di magia:

  • la magia imitativa, che consisteva nell’idea che, imitandola, si sarebbe potuto influenzare la natura: per esempio indossando la pelle di un orso si sarebbero potuti imitare i suoi movimenti e influenzare il suo comportamento;
  • la magia contagiosa, che consisteva nell’idea che due oggetti, dopo essere stati a stretto contatto, conserverebbero, anche una volta allontanati, il potere di agire l’uno sull’altro: è questo il caso di quegli atti magici che, manipolando ciocche di capelli, frammenti di unghie, vestiti o oggetti personali (oggi anche fotografie) di una persona, pretendono di influenzarne la vita tanto in senso benefico (magia bianca) che malefico (magia nera).

Frazer, da una prospettiva oggettivista ed evoluzionista, riteneva che magia, religione e scienza fossero legate dall’eterno tentativo dell’uomo di spiegare l’origine dei fenomeni e le relazioni tra di essi. Egli tentava di connettere magia, scienza e religione in una concezione unitaria dello sviluppo evolutivo del pensiero.

Una impostazione molto originale nelle ricerche sul pensiero magico è quella elaborata a metà del Novecento dall’etnologo e storico delle religioni italiano Ernesto De Martino ▶ L’AUTORE |. Secondo De Martino l’universo magico può essere compreso solo in relazione all’angoscia umana della perdita della presenza. La “presenza” a cui si riferisce De Martino è un concetto complesso in cui confluiscono le riflessioni di importanti filosofi del Novecento come Karl Jaspers (1883-1969) e Martin Heidegger (1889-1976) ▶ APPROFONDIAMO |.

Gli esseri umani sentono costantemente il bisogno di affermare la loro presenza, il loro esserci, per esempio di fronte al dolore di un lutto: la morte è il fenomeno che più di tutti genera un angoscioso senso di impotenza e di annientamento. Per De Martino il pensiero magico è il primo tentativo degli esseri umani di stabilire concretamente una loro forma di presenza nel mondo, perché la credenza nella magia dà il senso di poter agire direttamente sugli eventi, specie quelli dolorosi e ineluttabili.

Egli scrive:

Come rischio antropologico permanente il finire è il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente operativamente al mondo, il restringersi, sino all’annientarsi, di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori. La cultura umana in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia, per così dire, la tecnica esorcistica adottata.

E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 2019, p. 128

Il mago e lo stregone sono figure centrali per garantire che il mondo magico sia lo spazio di pensiero e di azione in cui gli esseri umani possano realizzare la loro «volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci». L’affermazione della presenza era particolarmente viva presso il mondo povero e illetterato del Mezzogiorno italiano, in quelle fasce sociali che il politico e pensatore italiano Antonio Gramsci aveva definito «culture subalterne»: nell’analisi di De Martino la dimensione magica era caratteristica infatti degli esclusi e dei subalterni, i quali, non avendo preso ancora coscienza della propria identità storica e di classe, ricorrevano al magismo come affermazione della loro “presenza” nel mondo.

l’autore  Ernesto De Martino

Ernesto De Martino (1908-1965) è stato un antropologo e filosofo italiano. Nato a Napoli, figlio di un ingegnere delle Ferrovie dello Stato, si forma all’università napoletana. Qui si laurea in storia delle religioni nel 1932 e si avvicina al pensiero storicista di Benedetto Croce (1866-1952), allontanandosi dalle teorie di matrice funzionalista dell’epoca. La sua attività militante nel Partito socialista italiano lo porta a trascorre brevi periodi nel Mezzogiorno, durante i quali allaccia rapporti con le persone locali. Tra il 1950 e il 1960 svolge ricerche di campo in Basilicata, Puglia e Campania volte ad analizzare il folklore religioso nella cultura contadina del Sud. De Martino porta sul terreno una squadra con competenze interdisciplinari alla ricerca di una sintesi olistica. Le sue importanti teorie continuano a ispirare studiosi in ambito antropologico, demologico, etnomusicologico e negli studi sulla religiosità popolare. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: Il mondo magico (1948); Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958); Sud e magia (1959); La terra del rimorso (1961); Furore simbolo e valore (1962). Muore a Roma nel 1965. Nel 1977 esce postuma l’opera La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali.

approfondiamo  Ernesto De Martino e il concetto di “presenza”

Uno dei principali obiettivi di Ernesto De Martino fu quello di riformare l’etnologia ponendo al centro dell’indagine storico-antropologica gli istituti culturali delle masse popolari. Questo intento cominciò a prendere forma con la pubblicazione del Mondo magico (1948), in cui l’autore si dedicò alla ricostruzione della struttura del magismo come momento di sviluppo della storia dello spirito. La magia viene qui intesa come una forma di controllo culturale della natura, un insieme di tecniche volte a proteggere l’uomo dal permanente rischio di perdere la propria presenza nel mondo.

Il concetto di “presenza”, centrale in tutta la produzione demartiniana del secondo dopoguerra, trae spunto da una nozione del filosofo contemporaneo tedesco Martin Heidegger: “l’esserci” (Dasein), con cui l’autore designava la condizione umana, caratterizzata dall’“essere-nel-mondo”. Per De Martino, “essere-nel-mondo” significa essere consapevolmente presenti nella storia partecipando al “progetto di vita insieme” che fonda la società. La presenza costituisce la base dell’azione umana poiché coincide con la capacità di scegliere in modo culturalmente coerente, secondo valori condivisi. La perdita della presenza, al contrario, indica l’incapacità di reagire al mondo e oltrepassare una data situazione critica, vinti dalla minaccia di non poter più esistere in alcun mondo possibile.

La crisi della presenza può essere scatenata da diversi tipi di cause, vissute sia a livello individuale, come un lutto o un ruolo sociale opprimente, sia a livello collettivo, come l’incertezza del raccolto nel mondo contadino. In Morte e pianto rituale (1958), per esempio, De Martino affronta il tema della morte presso i contadini lucani, individuando nel lamento funebre l’istituto culturale che permette di trascendere l’evento luttuoso nei valori condivisi dalla comunità. Nel saggio La terra del rimorso (1961), invece, l’etnologo interpreta il tarantismo pugliese (sindrome isterica attribuita popolarmente al morso della taranta, un tipo di ragno) come un esorcismo coreutico-musicale, cioè un rituale codificato fatto di danza e musica, in grado di offrire a traumi personali e conflitti irrisolti un orizzonte formale di deflusso.

Nel pensiero dell’autore, la cultura risulta essere la soluzione più efficace di fronte alla minaccia dell’isolamento esistenziale a cui la crisi della presenza conduce. Il legame sociale, che si esprime e si rafforza nei riti collettivi, viene quindi concepito come la forma suprema di cura e l’unica garanzia di sanità.

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  INVITO ALLA VISIONE 
Gianfranco Mingozzi, LA TARANTA, 1962

La taranta è il ragno mitico che morde simbolicamente la persona e col suo veleno crea dei turbamenti sia nel fisico sia nell’anima. Il tarantismo, ovvero il “male” del passato che si manifesta dolorosamente nel presente, ebbe origine da riti pagani nel Medioevo a cui poi la Chiesa nel XVIII secolo vi associò l’immagine di san Paolo. In questo documentario, pioniere sul tarantismo pugliese e realizzato con la consulenza di De Martino, viene minuziosamente filmato il momento di espiazione del male dei tarantati che viene curato con l’intrecciarsi della musica della fisarmonica, del violino e del tamburello a danze e canti.

1.4 La religione e il sacro

Il concetto di religione

Il concetto di ▶ religione ha suscitato ampi dibattiti nelle scienze sociali e in antropologia. Alcuni studiosi hanno sottolineato che l’idea di religione come essenza unitaria, a sé stante, a prescindere da una qualche forma culturale storicamente specifica, è insostenibile per tre ragioni:

  • il cristianesimo ha adottato il termine latino religio per definire se stesso, dunque la parola “religione” senza specificazioni (religione bantu, religione sámi e così via) ha una matrice implicitamente cristiana;
  • la parola religio non significava in origine “religione” come intuitivamente la si intende oggi: indicava genericamente un comportamento molto attento, devoto, rigoroso nei riguardi degli dèi, perché nella religione romana, che era un politeismo, si dava molta importanza alla scrupolosa esecuzione dei riti. I romani indicavano talvolta con religiones i culti rivolti a una divinità esclusiva, come la religio Cereris riferita ai ▶ misteri eleusini e il cristianesimo rivolto al culto esclusivo del Dio unico, che dunque ha accettato questa denominazione dalla cultura romana non-cristiana;
  • il termine religio, nell’accezione cristiana, è stato accolto da tutte le lingue europee, e non solo da quelle romanze derivanti dal latino: la sua accettazione non deriva infatti da latinizzazione ma da cristianizzazione.

Per questi motivi il termine “religione”, al singolare senza denominazione, indica un campo di azione individuabile solo in contrapposizione al campo d’azione “civico”, ma questo è peculiare della nostra cultura e deriva dal cristianesimo, e non può essere esteso a tutte le altre culture.

È possibile però delineare alcune caratteristiche antropologiche generali della religione partendo dagli aspetti motivazionali del credente.

Una religione si può definire come un complesso coerente di pratiche (riti) e di rappresentazioni (credenze) che riguardano le domande ultime e più profonde dell’esistenza umana, come quelle sul significato della morte e il senso del dolore, e le preoccupazioni estreme di una società, di cui si fa garante una forza superiore all’essere umano.

Come ha notato l’antropologo britannico di origine araba Talal Asad (n. 1932), questa definizione ha due dimensioni, quella del “significato” e quella del “potere”:

  • la dimensione del significato sta proprio nei valori che la religione esprime formulando determinate risposte circa il senso ultimo dell’esperienza umana, che il credente ritiene vere per fede;
  • la dimensione del potere risiede nell’idea che vi sia qualcosa o qualcuno che ha l’autorità incondizionata di sanzionare tali valori.

Per Asad una religione non è comprensibile al di fuori del rapporto tra potere e verità, che si crea tra coloro che sono in grado di produrre discorsi autorizzati su ciò che è “vero” e coloro che sono chiamati a rispettare quella autorità. Tuttavia, potere, autorità e verità non sono concetti universali ma relativi, i quali non possono essere ricondotti a un unico denominatore valido ovunque, in ogni cultura e in qualunque epoca.

In genere il credente ha fede in un ente soprannaturale che si manifesta direttamente, oppure tramite i suoi rappresentanti umani, come i sacerdoti.

Ogni religione afferma l’importanza indiscutibile dei valori su cui si fonda e talvolta li impone con la riprovazione sociale o con la forza. La religione svolge dunque una duplice funzione:

  • normativa, perché stabilisce un piano di regole etico-morali;
  • integrativa, perché esercita un più o meno forte controllo sulle possibilità di azione dei fedeli che si riconoscono reciprocamente come seguaci dello stesso credo.

per immagini

Test medici a Medjugorje

Il 24 giugno 1981 la Madonna è apparsa per la prima volta a sei ragazzi su una collina vicina a Medjugorje, ora in Bosnia-Erzegovina. Sin dall’inizio, le apparizioni sono state motivo di discussione e controversie. I veggenti e il movimento di devoti hanno cercato il supporto internazionale e il riconoscimento delle apparizioni anche in ambito medico tramite test scientifici. Uno dei modi in cui i devoti venivano testati era attraverso lo studio del dolore e uno dei tanti esperimenti consisteva nell’appoggiare una piastra d’argento surriscaldata toccando la pelle prima, durante e dopo il fenomeno. Osserva la foto, che cosa ti colpisce di più e che cosa stanno facendo alla ragazza? Un esperimento del genere che cosa si propone di dimostrare? In base a quello che hai letto in questa unità, pensi che si possa confutare l’apparizione della Madonna tramite degli esperimenti scientifici? Se no, perché?

FINESTRE INTERDISCIPLINARI – Antropologia culturale & Letteratura

Il senso del credere nella poetica di David Turoldo

David Maria Turoldo (1916-1992), friulano di Coderno (Udine), è stato filosofo, poeta e antifascista italiano, prete dell’Ordine dei Servi di Maria. La sua vasta e intensa opera poetica costituisce una riflessione profonda sul senso del credere e sul rapporto con il conoscere. Egli stesso articolava così le pressanti questioni antropologiche da cui scaturivano i suoi versi: «La vera domanda che sta all’inizio di ogni discorso è Dio stesso. Dio non è una risposta, è la Domanda; e non tanto se Dio c’è, quanto chi sia, come pensarlo, quali rapporti intessere e sapere delle sue responsabilità circa il male: se è o non è onnipotente. Dio, quale domanda che sta all’origine di ogni religione e di ogni fede; che presiede a ogni etica, a ogni estetica o esperienza di vita; domanda che soggiace perfino al fondo di ogni ateismo, di ogni nichilismo: la domanda che erompe anche dal cuore delle creature insensate».


Da Il dramma è Dio (1991)

Non contro te, o Ragione, ma oltre

ho teso il cuore:

così – lavati i sensi –

con volontà più calma

varcherò la Notte!


Da Canti ultimi (1991)

Groviglio di passioni,

quando non sei

Bellezza che annienta:

il Nulla che annulla

perfino il canto.


Anche la morte sarà

un emigrare di forma in forma

nel grande corpo dell’universo.

Corpo, spirito che si condensa

all’infinito:

nostro corpo

cattedrale dell’Amore,

e i sensi

divine tastiere.


Sostenitore delle istanze di rinnovamento culturale e religioso, David Turoldo è stato una coscienza inquieta della Chiesa, uno degli esponenti di un cambiamento del cattolicesimo nella seconda metà del Novecento, che egli sosteneva sempre con sguardo critico, evitando stereotipi e «disturbando conventi». Come ha scritto di lui un altro grande poeta italiano, Andrea Zanzotto (1921-2011), gli interrogativi di Turoldo non sono mai solo astrattamente teologici o biblici, ma si trasformano costantemente in impegno sociale, «senza farne una bandiera»: alla sua domanda antropologica vi è una risposta esistenziale, attiva, animata da spinte etiche «che invitano alla battaglia, invitano a una Resistenza (come quella cui egli partecipò) destinata ad essere perenne», nella irriducibile vicinanza alla strada, e agli ultimi.


Da Oh sensi miei (1990)

Io non ho mani

che mi accarezzino il volto,

(duro è l’ufficio

di queste parole

che non conoscono amori)

non so le dolcezze

dei vostri abbandoni:

ho dovuto essere

custode

della vostra solitudine:

sono

salvatore

di ore perdute.


C’è una povera in via Ciovasso

che non può più camminare,

e dorme entro i giornali

nessuno di quelli che stanno

di sopra

ha tempo di scendere a salutare.

Per lei è di troppo

un po’ di scatole per guanciale

e stare

nel cuore di Milano.

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Il concetto di sacro

L’antropologo e storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1908-1986) in molti libri ha affermato che per comprendere l’esperienza religiosa è essenziale il concetto di ▶ sacro.

Per Eliade il sacro in quanto tale è indefinibile perché non si presenta mai in se stesso, ma come qualità che può caratterizzare un gran numero di cose o situazioni che richiedono comportamenti particolari:

  • luoghi: i luoghi sacri, come templi e santuari, a cui si accede in determinate condizioni, per esempio a piedi scalzi, a capo coperto, in silenzio e così via;
  • tempi: i periodi di tempo sacri, come le feste, che con il loro carattere si contrappongono ai giorni comuni perché, per esempio, si sospendono le attività profane (il lavoro, la pulizia, il mangiare);
  • azioni: per esempio i riti sacri;
  • testi: i testi sacri, come i racconti mitici, scritti, pronunciati o recitati, che si narrano in determinate occasioni (di notte, prima della mietitura e così via);
  • persone: i re divini, i sacerdoti, i monaci, gli sciamani, di fronte ai quali sono obbligati certi atteggiamenti (profondi inchini) e proibiti altri (per esempio toccarli);
  • oggetti: gli oggetti sacri come croci, amuleti, statuine, icone e così via.

Sacro è dunque ciò che è connesso con la divinità e perciò impone un particolare atteggiamento di riverenza e di venerazione, contrapposto in genere a profano. La complessa serie di obblighi e divieti che definiscono la sacralità deriva dalla convinzione che le cose o le persone sacre abbiano una particolare potenza conferita loro da un essere divino.

Tale potenza può manifestarsi in senso positivo, come quando nei luoghi sacri si ottengono guarigioni, o quando mediante riti sacri si stimola la fertilità. Ma se il comportamento richiesto viene violato, la potenza del sacro si manifesta in modo negativo e dannoso.

Le norme elementari del sacro sono dunque dei ⇒ tabu, la cui infrazione provoca conseguenze deleterie.

Il tabu è una proibizione di carattere magico-religioso che consiste nel divieto di frequentare certi luoghi o persone, di cibarsi di alcuni alimenti, di pronunciare determinate parole, di toccare certi oggetti, considerati di volta in volta sacri, oppure contaminati, impuri o pericolosi, da evitare per motivi di rispetto, per ragioni rituali, o igieniche, e così via.

Le teorie antropologiche talvolta hanno sottolineato le differenze fra religione e magia, altre volte ne hanno rilevato soprattutto le caratteristiche condivise. Gli evoluzionisti hanno visto nella magia e nella religione due tappe distinte del processo di sviluppo che conduce alla scienza: la magia si distinguerebbe dalla religione per la mancanza di un culto comunitario e per la presenza di un potere sovrumano impersonale, mentre in presenza di dèi, spiriti e antenati si dovrebbe parlare di religione.

Secondo Malinowski religione e magia non hanno soltanto funzioni cognitive e pratiche, non servono solo a spiegare le cose e a raggiungere dei fini, ma hanno anche una funzione emozionale legata, come ha dimostrato il suo allievo Evans-Pritchard, alla domanda esistenziale sulle cause del dolore nella sorte individuale. Più recentemente, negli anni Ottanta del Novecento, anche Geertz ha ribadito l’importanza degli aspetti emozionali della religione: i suoi simboli producono stati d’animo e motivazioni potenti che, insieme ai valori che comunicano, danno senso all’esistenza.

  esperienze attive

Momenti difficili Intervista un tuo parente o un amico e prova a chiedere come si è comportato davanti a un episodio cruciale della vita, per esempio quando ha dovuto prendere decisioni importanti o ha affrontato un esame difficile o un’operazione. Ha pregato? Se sì, perché? Ha fatto qualche gesto propiziatorio per scacciare la paura o l’ansia? Che cosa significano questi gesti per lui? Sono importanti? Porta con sé degli oggetti religiosi o magici per proteggersi?

per lo studio

1. Perché Evans-Pritchard ha sottolineato l’importanza della metafora della doppia lancia fra gli Azande?

2. Quali sono le principali caratteristiche dell’esperienza religiosa?

3. Come si può definire il sacro?


  Per discutere INSIEME 

Prova a pensare se nel tuo quotidiano ti capita di utilizzare la parola “magia”, come per esempio nelle espressioni: “è un momento magico”, “la magia del tramonto”, o “la magia di uno sguardo”. Per i tifosi romanisti la loro squadra è la “magica Roma”, un celebre successo del gruppo musicale dei Queen si intitola It’s a Kind of Magic. Discuti con i tuoi compagni sui vari significati che può avere il termine “magia” e confrontateli con quanto studiato in questo capitolo.

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane