1.1 L’irrazionalità delle credenze
Come abbiamo detto più volte, l’antropologia culturale nasce in Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento, nel contesto della Rivoluzione industriale. Durante il regno della regina Vittoria, dal 1837 al 1901, la Gran Bretagna si era affermata come maggiore potenza coloniale dell’epoca; quasi mezzo mondo era sotto la corona britannica: dall’India all’Africa, dall’Australia alla Nuova Zelanda. Proprio per questo motivo, gli europei del XIX secolo, e in particolare i britannici, si trovavano in costante contatto con le culture extraeuropee, molte delle quali erano ancora legate a un modello di organizzazione tradizionale. Questo, agli occhi degli europei, appariva addirittura “primitivo”, per utilizzare un aggettivo che proprio in quegli anni, grazie a Tylor | ▶ unità 1, p. 17 |, assunse un significato e una diffusione senza precedenti; di fronte ai bizzarri costumi nativi, costituiti da fantasiose mitologie, strane credenze e variopinti rituali, gli europei si sentivano portatori di una civilizzazione superiore. La loro superiorità tecnologica, organizzativa e militare li rendeva non soltanto capaci di imporsi politicamente sulle altre popolazioni, ma confermava la loro convinzione di essere i portatori della luce del progresso, inteso sia sul piano dello sviluppo tecnologico, sia, e soprattutto, sul piano dello sviluppo spirituale e morale.
Il progresso tecnologico, esibito concretamente nella prima Esposizione universale di Londra del 1851, dimostrava culturalmente la validità dell’ideologia positivista. Nell’Esposizione infatti, tenutasi nel sontuoso Crystal Palace, giganteschi padiglioni esponevano centinaia di macchine di tutti i tipi e realizzate per tutti gli usi: fucine, locomotive, macchine agricole, ascensori e così via.
In questa prospettiva gli antropologi evoluzionisti | ▶ unità 1, p. 28 | hanno interpretato l’evoluzione umana come il trionfo della ragione sui costumi e della scienza sulla credenza. In particolare, guardavano con scetticismo alle pratiche magico-religiose e alle credenze delle altre società, considerate tentativi inadeguati di spiegare gli eventi e quindi forme di pensiero irrazionale.
I nativi, secondo James Frazer, a causa della loro immaturità intellettiva, commettevano l’errore di non collegare fra loro i fatti secondo nessi di causa ed effetto. Erano cioè privi di un metodo che li portasse a distinguere la verità oggettiva dalla fantasia. Come la crescita e la maturazione individuale portano il bambino a diventare adulto, abbandonando la credenza in Babbo Natale, così l’emergere del pensiero razionale andrebbe di pari passo a una progressiva maturazione intellettuale del genere umano.
L’antropologo francese Lucien Lévy-Bruhl | ▶ L’AUTORE |, nel suo volume La mentalità primitiva del 1922, sostiene che i primitivi hanno una mentalità pre-logica, nella quale non valgono le leggi del pensiero scientifico. La loro mentalità si basa cioè su principi affettivi: non opera distinzioni come fa il pensiero scientifico, ma coglie legami di partecipazione mistica fra persone, animali e cose in virtù di rappresentazioni collettive.
Esempio: a proposito dei Bororo del Mato Grosso, in Brasile, che sono soliti dire “noi siamo arara rossi”, cioè una specie di pappagallo amazzonico dal piumaggio multicolore, Lévy-Bruhl scrive: «quel che vogliono far comprendere è un’identità essenziale. Che essi allo stesso tempo siano degli esseri umani, come in realtà sono, e degli uccelli dalle rosse piume, è una cosa assolutamente inconcepibile [...], ma per una mentalità che si basa sulla legge di partecipazione non vi è nessuna difficoltà ad accettarla».
Per Lévy-Bruhl, in molte società tradizionali la comunità può sentirsi fortemente legata a una tipologia di pianta o a una specie animale, mediante una serie di rappresentazioni collettive dello stesso genere.
Per buona parte del periodo fondativo dell’antropologia culturale, tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, la mentalità magico-religiosa è stata dunque considerata come intrinsecamente illusoria rispetto alla convinzione, ispirata dal positivismo, della validità assoluta del pensiero occidentale. I “primitivi” erano considerati tali perché credevano, ovvero erano inclini ad assumere una modalità di rappresentazione del mondo che li portava a convinzioni essenzialmente false (le credenze), e a produrre un sapere sul mondo sostanzialmente errato; al contrario, i “moderni” erano tali perché conoscevano: affrancatisi storicamente, nel corso dell’evoluzione culturale dell’Occidente, dalla magia (e poi anche dalla religione), essi si orientavano secondo una modalità di rappresentazione del mondo che li portava a un sapere completamente vero e definitivo sulla realtà (la scienza).
Il concetto di credenza implica sempre un giudizio riguardo alla dubbia verità di ciò che viene affermato ed è considerato opposto al concetto di conoscenza. Se infatti, in un’ottica positivista, la conoscenza è l’unico e definitivo specchio di una realtà oggettiva a cui il metodo sperimentale ci consente di accedere attraverso i fatti, la diversità dei sistemi di credenze magico-religiose non può che risultare incomprensibile e irrazionale.
Esempio: questa distinzione emerge chiaramente di fronte alla domanda: “Perché ci è capitata questa disgrazia?”.
Analizziamo le risposte nel caso, per esempio, di un terremoto:
- il “primitivo” è tale perché invoca in modo irrazionale la credenza nel
- peccato o nell’ira di esseri spirituali, come nella mitologia giapponese in cui i terremoti sono causati da un enorme pesce gatto chiamato Namazu, che il dio Kashima tenta invano di controllare;
- il “moderno” è tale perché invece risponde utilizzando in modo razionale la scienza e studia i terremoti con la geologia, scoprendone le vere cause materiali.
Se dunque riteniamo che i principi della scienza siano anche i criteri universali della conoscenza e quindi gli unici veramente razionali, allora noi occidentali conosciamo, mentre gli altri, i nativi di ogni comunità tradizionale, per lo più credono.
Questa impostazione si chiama approccio oggettivista allo studio delle credenze.
Dal punto di vista di tale approccio c’è una forte contraddizione fra l’affidarsi alla competenza di un chirurgo che opera un malato e contemporaneamente pregare affinché l’operazione vada bene. Chi salva il malato? Le mani abili del chirurgo o l’intensità della preghiera?