4.1 Costruzioni culturali del potere
Le forme di costruzione culturale del potere, in particolare nelle società tradizionali extraoccidentali, sono variabili e molteplici e coinvolgono aspetti simbolici e materiali in modi strettamente correlati.
Un esempio interessante del rapporto fra accesso alle risorse e organizzazione del potere è il caso degli Shahsevan dell’Azerbaigian iraniano, dediti all’allevamento di pecore e di cavalli, e all’agricoltura. Gli Shahsevan parlano un dialetto iranico e sono musulmani sunniti | ▶ unità 9, p. 374 |.
In molte zone dell’Iran la vita delle comunità non urbanizzate si basa ancora oggi su un delicato equilibrio fra pastorizia e agricoltura. La gestione di questi due modelli di sussistenza richiede una rigida programmazione degli spostamenti dei pastori nomadi in certe stagioni e su certi percorsi.
I capi dei vari lignaggi e delle tribù nomadi e sedentarie hanno sviluppato così la funzione di preordinare gli spostamenti e di assegnare ai gruppi e agli individui che ne fanno parte le aree di pascolo da utilizzare in periodi diversi dell’anno. L’esercizio di questa forma di potere ha quindi un ruolo molto importante sul piano organizzativo. Con il tempo i capi sono stati investiti di una posizione sociale e politica speciale, soprattutto fino a quando l’autorità dello stato persiano è stata assente. Gli Shahsevan erano divisi in tribù dette tayfa, che comprendevano pastori nomadi e pastori sedentari. L’appartenenza a una tayfa non era stabilita dalla discendenza, ma dal fatto di riconoscerne l’autorità del capo (khan). Ricevere il permesso di far parte di una tribù significava mettersi sotto l’autorità del capo ed entrare così a far parte della sua tayfa.
Fino agli anni Venti del Novecento i capi shahsevan avevano sviluppato, sulla base di un preesistente sistema segmentario, una forma di ▶ potere autocratico che consentiva loro di controllare sia i pastori nomadi sia i pastori sedentari e di costruire dei centri di potere autonomi dagli organismi politici centralizzati della regione. Dagli anni Venti in poi questo sistema è andato scomparendo, da quando il sovrano persiano ha deciso di imporre la propria autorità agli Shahsevan bloccando il potere dei capi tribali.
Un secondo esempio estremamente interessante, nel quale il potere è parallelamente esercitato e rappresentato mediante una forma di performance ironica, è il caso del rituale detto be di murua degli Agni della Costa d’Avorio (Africa occidentale), praticato fino alla prima metà del Novecento, e di cui rimane famoso lo studio, della fine degli anni Sessanta, della storica dell’Africa e antropologa francese Claude-Hélène Perrot (1928-2019).
Il rito chiamato be di murua era celebrato in occasione della morte del sovrano agni, ed era una sorta di messa in scena rovesciata del rapporto dominatore/dominato mediante l’assunzione degli attributi regali da parte degli aburua, ossia i figli degli schiavi che da più tempo prestavano servizio a corte. In altre parole, presso la popolazione agni, alla morte del sovrano un finto re ne assumeva le insegne e parodisticamente ne recitava la parte sino alla proclamazione del vero successore.
Il finto re godeva di tutte le prerogative che sono tipiche del sovrano: si vestiva con i suoi abiti e i suoi ornamenti, sedeva sul trono, si circondava dei portatori delle insegne del potere regale ed era a lui dovuto l’identico rispetto che si tributava al vero re. Costui doveva rispettare anche le medesime proibizioni: non poteva spostarsi se non accompagnato, non poteva violare i divieti alimentari e così via. Va detto che non solo lo schiavo che impersonava il re recitava, anche tutta la sua famiglia prendeva parte al rito. Liberi e schiavi, nobili veri e falsi, erano tutti ben consapevoli dell’inversione dei ruoli, che restava esclusivamente un fatto simbolico.
Gli affari di corte, dall’amministrazione del regno alla guerra, non erano però di competenza dell’aburua-henne (il finto schiavo-re): questi aspetti erano nelle mani della burocrazia ordinaria. Il tesoro veniva amministrato dai nobili di corte e dai dignitari e l’amministrazione era complessivamente gestita da una sorta di re ad interim, il quale era quasi sempre l’erede designato o probabile.
Al termine dell’interregno, il falso re e la sua famiglia venivano di norma messi a morte. Se l’aburua aveva recitato bene la parte assegnatagli, la sua vita poteva anche essere risparmiata ed egli poteva riprendere il suo posto fra gli schiavi di corte.
Per Claude-Hélène Perrot il rituale aveva un importante carattere parodistico e la funzione del falso re doveva essere interpretata in un contesto simbolico.
Perrot ha inoltre sostenuto che il destinatario della messa in scena è la società stessa, e che il significato del rito be di murua è duplice:
- è un artificio per spostare su un falso obiettivo (l’aburua) gli eventuali influssi nefasti derivanti dalla morte del re e risparmiare così il successore; Perrot rileva un’interessante analogia con l’usanza di molti popoli africani di mascherare un bambino alla morte del fratello gemello sino al compimento dei funerali. Così mascherato, il bambino si sottrarrebbe all’invidia del fratello morto, il quale durante il periodo che precede le esequie sarebbe tentato di chiamare a sé il gemello. Per la comunità degli Agni la stessa situazione si verificherebbe per il re defunto rispetto al successore;
- ha anche una finalità sul piano dell’organizzazione sociale: dal momento che la morte del re è considerata dagli Agni come l’inizio di un periodo di caos, la società metterebbe in scena il rituale be di murua come caricatura della società stessa, in modo che «lo spettacolo di questo mondo caotico non può far altro che ispirare il desiderio di far ritorno a un mondo ordinato, a un mondo governato».
Da questi brevi esempi ricaviamo che le forme di organizzazione politica e la costruzione culturale delle relazioni di potere si presentano in società diverse secondo modalità molto variabili, per cui è indispensabile una qualche classificazione.