T1 - Véronique Nahoum-Grappe, La crudeltà e lo stupro etnico

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Véronique Nahoum-Grappe

La crudeltà e lo stupro etnico

Nel saggio da cui è tratto questo brano, l’antropologa francese Véronique Nahoum-Grappe esplora la crudeltà e la violenza della pulizia etnica verificatasi durante il conflitto nei paesi della ex Iugoslavia (1991-1995), sostenendo come l’utilizzo politico della parola “etnia” per definire un’alterità nemica alimenti sentimenti di odio che, durante le guerre, sfociano in violenza e crudeltà “normalizzate” dalle istituzioni stesse.

[…] L’indagine che ho condotto presso rifugiati ex-iugoslavi espulsi dal proprio paese in seguito alla purificazione etnica sin dal 1991 […] mi ha portata a riflettere sul problema dell’uso della crudeltà estrema in alcune situazioni. Una costruzione storica particolare […] sembra necessaria al fine di definire un nemico. La scelta del vocabolario è allora cruciale: così l’effetto della parola “etnia” messa al posto di “nazionalità” nell’espressione “essere etnico” ad esempio, la cui immagine costituisce la negazione nel paese di ogni traccia dello Stato-nazione e della modernità evocando una giungla non europea priva di qualunque dimensione storica, nella quale delle “etnie” si fronteggiano con le lance in mano, pronte a dilaniarsi tra di loro: questo sistema di immagini si è rivelato falso in Ruanda, falso anche in Bosnia. Ma la seduzione di questa parola è andata incontro al desiderio dei testimoni di naturalizzare il conflitto facendo riferimento a degli “odi etnici ancestrali”. […] È sempre possibile amplificare in una versione atroce il passato di una nazione, quando il potere in gioco si fa portatore di un progetto politico ultra-nazionalista. […] L’odio politico è dunque la fonte essenziale d’energia senza la quale le pratiche di crudeltà sarebbero inimmaginabili, e il loro programma è sviluppato in una propaganda che ha scelto l’orrore come mezzo di persuasione.

[…] Non che le pratiche di crudeltà estrema, come l’impiego sistematico delle torture sessuali, siano nuove (il ricordo dei regimi fascisti argentino, cileno, indonesiano non si può cancellare); ma nel caso iugoslavo sembrano cambiare di senso e portata: gli stupri diventano più usuali, per esempio, nei programmi contemporanei di repressione politica, quasi più normali e quindi sistematizzabili. Non è certo che siano più numerosi, ma sono meno nascosti.

[…] Quando l’identità sessuale della vittima interviene nella scelta del supplizio, significa che il progetto dell’assassino cambia di natura e si interessa ad un campo dei “cristiani”, altri che vanno puniti in quanto specie: lo stupro delle donne “dell’altro campo” come punizione politica propone logicamente […] la questione della filiazione. Proprio nei tentativi di eliminazione di una comunità nella sua totalità, intervengono gli stupri politici, cioè pieni di significati diversi da quelli pulsionali. Quando un nemico viene definito in base ai suoi legami di filiazione estesa (una razza), il suo sradicamento va al di là della morte della sola persona fisica e presuppone di impedire la crescita, di schiacciare i geni delle generazioni future, portate da questo stesso tronco comune dell’albero di filiazione […]. La questione del sangue, quella dello stupro e quella della crudeltà sono in una situazione di prossimità semantica, che viene indicata dal senso della parola latina cruor (il sangue rosso, il sangue che sgorga): lo stupro è una questione di sangue. Accettando il senso emblematico assunto da questa sostanza, lo stupro considera in prospettiva la trasmissione dell’identità collettiva, rappresenta un intervento su questa trasmissione, recide crudelmente il legame di filiazione così come vengono tagliate le gole del marito, del padre e del figlio. […]

Il saccheggio delle tombe e dei monumenti storici risponde specularmente allo stupro delle donne ed allo sgozzamento degli uomini e conclude in direzione del passato e dell’avvenire l’invasione in corso. È proprio nelle guerre coloniali, nelle guerre d’invasione dove l’abitante precedente deve scomparire in quanto comunità, nelle guerre nazionali dove l’altro è odiato fin dalla nascita, o nelle relazioni di dominio ove l’altro inferiore è percepito come costitutivamente portatore di questa inferiorità (gli schiavi filippini in Arabia Saudita, i domestici del XIX secolo), nei crimini cosiddetti “razzisti”, che avvengono gli stupri più sistematici, quelli meno percepiti come criminosi nella cultura dello stupratore.

Rispondi

1. Perché è pericoloso definire un conflitto come un risultato di «odi etnici ancestrali»?

2. Quali sono le crudeltà e gli orrori commessi in nome della “difesa” della propria etnia?

3. Come viene costruito culturalmente e socialmente un nemico e qual è la relazione tra la questione del sangue, dello stupro e della crudeltà nell’annientamento sistemico dell’Altro?

4. Perché secondo te la crudeltà e la violenza perpetuate durante i conflitti vengono percepite come “meno criminose”?

 >> pagina 168 

|⇒ T2  Ralph Linton

Una cultura, tante nazionalità

Nel seguente brano, pubblicato nel volume Lo studio dell’uomo nel 1973, l’antropologo e archeologo americano Ralph Linton si chiede implicitamente, in maniera efficace e ironica, se abbia senso parlare di culture “pure”, isolate e chiuse.

Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’Est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani. […] Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. […] Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore.

[…] Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia, o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania.

Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano.

Rispondi

1. Che cosa sta descrivendo l’autore in questo testo? Perché si sofferma così tanto sui particolari?

2. Il protagonista ti sembra conscio o inconscio della provenienza culturale e geografica di tutti questi oggetti e abitudini che compongono il rituale del suo risveglio mattutino?

3. Secondo te, che cosa ci dice questo brano di Linton a proposito delle identità culturali in generale?

4. Come mai, nonostante il sincretismo che abbiamo visto caratterizzare la cultura americana – e in fondo ogni cultura –, l’americano medio protagonista di questo testo si sente cento per cento americano?

 >> pagina 169 

|⇒ T3  Fredrik Barth

Il gruppo e il confine etnico

In questo brano l’antropologo Fredrik Barth esplora il concetto di gruppo e confine etnico, sostenendo che le distinzioni etniche non sono un dato naturale, bensì una costruzione sociale, frutto di interazioni tra gruppi di persone diverse. Da questa interazione, i gruppi sviluppano le differenze che li distinguono gli uni dagli altri.

[…] I gruppi etnici sono considerati una forma di organizzazione sociale. […] Un’attribuzione a una categoria è un’attribuzione etnica quando classifica una persona nei termini della sua identità di base, più generale, che si presume determinata dalla sua origine e dal suo background. Nella misura in cui i soggetti usano l’identità etnica per mettere loro stessi e gli altri in una categoria ai fini dell’interazione, essi formano gruppi etnici in questo senso organizzativo. È importante riconoscere che, sebbene le categorie etniche tengano conto delle differenze culturali, non possiamo presumere un semplice rapporto uno-a-uno tra unità etniche e somiglianze e differenze culturali. I tratti di cui si tiene conto non sono la somma delle differenze “obiettive”, ma solamente quelli che i soggetti stessi considerano significativi. Non soltanto le variazioni ecologiche evidenziano ed esagerano le differenze; alcuni tratti culturali sono usati dai soggetti come segnali ed emblemi delle differenze, altri sono ignorati, e in alcuni rapporti differenze radicali sono minimizzate e negate. […]

Poiché l’appartenere a una categoria etnica implica l’essere un certo tipo di persona, avere quell’identità di base implica anche la richiesta di essere giudicati, e di giudicare sé stessi, secondo quegli standard che sono rilevanti per quell’identità. Né l’uno né l’altro di questi tipi di “contenuti” culturali deriva da una lista descrittiva di tratti culturali o di differenze culturali; non si può predire dai principi generali quali tratti saranno sottolineati e resi organizzativamente rilevanti dai soggetti. In altre parole, le categorie etniche forniscono un contenitore organizzativo al quale possono essere date diverse quantità e forme di contenuto, nei diversi sistemi socioculturali. […]

Una volta definito il gruppo etnico come gruppo di attribuzione ed esclusivo, la natura della continuità delle unità etniche è chiara: dipende dal mantenimento di un confine. I tratti culturali che segnalano il confine possono cambiare, e le caratteristiche culturali dei membri possono parimenti essere trasformate, di fatto, e anche la forma organizzativa del gruppo può cambiare: eppure il fatto di mantenere la dicotomizzazione tra membri ed esterni ci permette di specificare la natura della continuità, e di indagare la forma e il contenuto culturali mutanti. […] I confini cui dobbiamo prestare attenzione sono naturalmente confini sociali, per quanto essi possano avere un analogo sul territorio. Il fatto che un gruppo mantenga la sua identità quando i suoi membri interagiscono gli uni con gli altri, implica dei criteri per determinare l’insieme dei membri e dei modi per segnalare l’appartenenza o l’esclusione […].

Il confine etnico canalizza la vita sociale, comporta un’organizzazione del comportamento e delle relazioni sociali […]. L’identificazione di un’altra persona come co-membro di un gruppo etnico implica una condivisione dei criteri di valutazione e di giudizio. […] La dicotomizzazione di altri come stranieri, come membri di un altro gruppo etnico, implica un riconoscimento di limitazioni alle conoscenze condivise, differenze nei criteri dei giudizi di valore e negli atti e una restrizione dell’interazione ai settori di presupposta conoscenza comune e mutuo interesse. […] Quindi la persistenza dei gruppi etnici in contatto implica non soltanto criteri e segnali per l’identificazione, ma anche una strutturazione dell’interazione che permetta la persistenza delle differenze culturali.

Rispondi

1. Che cos’è un gruppo etnico per Barth?

2. Come si stabilisce un confine etnico?

3. Perché secondo te la presenza di un confine tra gruppi di persone è necessaria per stabilire l’identità di un gruppo etnico?

4. Perché i confini e i gruppi etnici sono relazionali e possono cambiare?

 >> pagina 171 

|⇒ T4  Hugh Trevor-Roper

L’invenzione di una tradizione: il kilt scozzese

Questo brano è contenuto in un celebre testo, pubblicato per la prima volta nel 1983 a cura degli storici Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, che è una raccolta di saggi incentrata sul concetto di “tradizione inventata”. Con questa espressione dal sapore ossimorico, i due autori intendono sottolineare il fatto che, nella maggior parte dei casi, tradizioni all’apparenza antichissime sono invece il frutto di invenzioni recenti, la cui continuità con un passato remoto è in gran parte fittizia. Quello del kilt scozzese, il tipico indumento maschile consistente in un gonnellino di lana con disegni geometrici, è tra i più noti esempi di tradizioni inventate che il libro propone, e ci mostra come il senso delle identità collettive poggi spesso su elementi costruiti e immaginati, piuttosto che su verità storiche.

Al giorno d’oggi, quando gli scozzesi si radunano per celebrare la loro identità nazionale, la dichiarano esplicitamente ricorrendo a un apparato specificamente nazionale. Indossano il kilt, tessuto in un tartan che indica, con i colori e il disegno, il loro «clan»; e quando si concedono un po’ di musica, il loro strumento è la cornamusa. Questo apparato, al quale loro attribuiscono grande antichità, è in realtà quasi interamente moderno. Fu allestito dopo [...] l’Unione con l’Inghilterra, contro la quale esso rappresenta, in un certo senso, una protesta. Prima di allora esisteva sì, in forma residuale, ma quella forma veniva considerata dalla grande maggioranza degli scozzesi come un segno di barbarie: il distintivo degli highlanders, lazzaroni, fannulloni, rapinatori e ricattatori, più un fastidio che non una minaccia per la civile Scozia storica. E anche nelle Highlands1 [...] si trattava di una relativa novità: non era il tratto distintivo originale, né quello qualificante, della società delle Highlands.

Il concetto stesso di una cultura e di una tradizione delle Highlands a sé stanti è anzi un’invenzione retrospettiva. Prima del tardo Seicento, gli highlanders scozzesi non costituivano una popolazione distinta. Erano semplicemente un’eccedenza traboccata dall’Irlanda. [...] Fino a metà Settecento [...] l’Occidente scozzese, isolato a est dalle montagne, ebbe sempre maggiori legami con l’Irlanda che con le Lowlands sassoni. Sul piano razziale, come su quello culturale, era una colonia dell’Irlanda. Anche sul piano politico quelle due società celtiche, l’irlandese e quella delle Highlands occidentali, si fondevano l’una nell’altra. [...]

La creazione di una tradizione autonoma per le Highlands, e l’imposizione della nuova tradizione, con i suoi contrassegni esteriori, fu un prodotto del tardo Settecento e del primo Ottocento. Si verificò in tre fasi: l’usurpazione della cultura irlandese e la rielaborazione della storia scozzese antica, che culminò con l’insolente pretesa che fosse la Scozia – la Scozia celtica – la «nazione madre», e l’Irlanda la sua propaggine culturale. In secondo luogo, l’artificiosa creazione di nuove tradizioni per le Highlands, presentate come se fossero state antiche, originali e qualificanti. Da ultimo, il processo per cui queste tradizioni furono offerte alla Scozia storica dalle Lowlands, quella orientale dei Pitti, dei Sassoni e dei Normanni, e furono da essa accettate. [...] Una volta troncati i legami con l’Irlanda, infatti, e una volta attribuita – sia pure nei modi più fraudolenti – un’antica cultura autonoma alle Highlands scozzesi, si apriva la possibilità di segnalare quell’autonomia attraverso tradizioni affatto peculiari. La tradizione che si venne allora affermando fu la peculiarità dell’abbigliamento. [...] Quando fu che la «sottana tartan», il kilt moderno, divenne il costume dello highlander? [...] Ignoto fino al 1726, [il kilt] fece la sua improvvisa comparsa pochi anni dopo, e nel 1746 si era ormai abbastanza affermato da meritare una menzione esplicita nel decreto del Parlamento che proibiva il costume delle Highlands. L’aveva inventato un quacchero inglese del Lancashire, Thomas Rawlinson. [...] Quando esplose la grande ribellione del 1745, dunque, il kilt così come noi lo conosciamo era una recente invenzione inglese, e i tartan dei clan non esistevano. La ribellione segnò tuttavia un cambiamento nella storia della sartoria scozzese, oltre che in quella sociale ed economica. Una volta schiacciata la ribellione, il governo britannico decise finalmente di fare quanto aveva preso in considerazione nel 1715, distruggendo una volta per tutte il modo di vita indipendente delle Highlands [...]: proibirono il costume delle Highlands [...] in tutta la Scozia, pena sei mesi di prigione senza cauzione, e sette anni di deportazione in caso di recidiva. Questa legge draconiana rimase in vigore per trentacinque anni [...]. Il costume delle Highlands scomparve davvero tra coloro che erano abituati a portarlo. Dopo una generazione in calzoni, i semplici contadini delle Highlands non vedevano alcun motivo per riesumare il plaid stretto in cintura o il tartan che un tempo trovavano tanto utile e a buon mercato.

[...] Per tutti i trentacinque anni in cui tra i contadini attecchivano i calzoni sassoni, [...] solo i reggimenti delle Highlands mantennero in vita l’industria del tartan, attribuendo carattere permanente all’innovazione più recente tra tutte, il kilt del Lancashire. In origine l’uniforme dei reggimenti delle Highlands prevedeva il plaid stretto in cintura; dopo l’invenzione del kilt, però, e dopo che la sua comodità l’ebbe reso popolare, anche i reggimenti si convertirono. [...] Ormai i reggimenti delle Highlands avevano adottato i philibeg, e i loro ufficiali non avevano faticato a convincersi che quel kilt corto fosse stato il costume nazionale della Scozia da tempi immemorabili.

Rispondi

1. Attraverso quali elementi, nella visione dell’autore, gli scozzesi dichiarano la loro identità nazionale nelle riunioni contemporanee volte a celebrarla?

2. Prima dell’unione con l’Inghilterra, avvenuta nel 1707, qual era la situazione della Scozia occidentale? Perché non si può parlare di tradizione autonoma delle Highlands?

3. Da chi veniva utilizzato il tartan prima del 1745 e perché il governo ne proibì l’uso dopo quella data? Che relazione ci può essere tra un tipo di indumento e il «modo di vita indipendente» della comunità che lo usa?

4. Chi inventò il kilt e chi ne determinò, invece, il carattere di costume nazionale? Perché la rivendicazione del kilt come tratto distintivo tradizionale degli scozzesi costituisce una sorta di paradosso?

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane