3. Cibo e identità culturali

3. Cibo e identità culturali

3.1 La dimensione simbolica del cibo

Le origini delle scienze gastronomiche risalgono formalmente al gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826), anche se lo scrittore e filosofo romano Plinio il Vecchio (23-79 d.C), nel suo trattato Naturalis Historia (77-78 d.C.), fornisce uno straordinario ma prescientifico lavoro sull’alimentazione. Brillat-Savarin pone le basi per il costituirsi della conoscenza scientifica del cibo con il volume Fisiologia del gusto (1825). Significativo è stato anche il contributo degli antropologi italiani: nel 2004 nasce a Pollenzo, in Piemonte, la prima università al mondo dedicata alle scienze gastronomiche. L’ideatore è stato Carlo Petrini (n. 1949), fondatore di Slow Food, movimento nato nell’ultima parte del Novecento, che si è diffuso capillarmente in tutto il mondo con i valori del cibo «buono, pulito e giusto». Un progetto che ha imposto cruciali traiettorie di conoscenza e di sviluppo alimentare nel quadro di un contesto di sostenibilità più generale riguardante la custodia e la cura dell’ambiente.

Il cibo è uno dei fattori che contribuiscono a formare l’identità individuale e sociale di una persona, determinando uno degli elementi culturali che rafforza l’appartenenza a un gruppo. Cucinare e mangiare sono attività sociali che dipendono da una negoziazione costante con gli altri. Il cibo identifica chi siamo, da dove veniamo e chi vogliamo essere, e allo stesso tempo ci differenzia dagli altri. Come afferma l’antropologo statunitense di origine indiana Arjun Appadurai (n. 1949), il cibo rappresenta «un fatto sociale ricco di significati e uno strumento di rappresentazione collettiva».

Lo spazio fisico della cucina e le pratiche del cucinare e del mangiare espongono quotidianamente le persone a una serie di odori, consistenze, sapori, che si ripetono nel tempo e diventano riconoscibili e familiari: sono naturalizzati. Per questo motivo, il cibo è parte fondante del processo di antropopoiesi | ▶ unità 3, p. 108 |, cioè dell’idea che non esiste una forma di umanità generale e universale, ma che il concetto stesso di “umanità”, di ciò che è umano o disumano, è sempre una costruzione culturale, storica e variabile. In questo caso la cultura culinaria modella e dà forma all’essere umano tramite l’apprendimento corporeo di tecniche, gesti, gusti, ricette e odori legati alla preparazione e al consumo del cibo.

Il rapporto tra cibo e identità culturale è ovvio e complesso allo stesso tempo. È banalmente ovvio perché le persone devono mangiare per sopravvivere, e sono quindi necessariamente legate al cibo. È complesso poiché la scelta di che cosa e come mangiare dipende da una combinazione di preferenze personali, costi, climi, condizioni geografiche, religioni, contatti storici, regole sociali e così via. A questo proposito Pierre Bourdieu si concentra sulle modalità in cui le rappresentazioni del gusto individuale, in diversi aspetti del comportamento fra cui quelli legati al consumo del cibo, sono strettamente correlate alla condizione sociale, concludendo che le scelte culinarie, come altri aspetti della vita sociale, sono fortemente condizionate dalla classe di origine.

Il cibo è anche uno strumento di comunicazione socioculturale: la produzione, la trasformazione e il consumo del cibo diventano un modo per comunicare valori, credenze ed emozioni. Lo studioso francese Roland Barthes (1915-1980) afferma che il cibo «non è solo una collezione di prodotti, ma è anche, allo stesso tempo, un sistema di comunicazione, un protocollo di usanze, situazioni e comportamenti». Ne sono un esempio le società indiane di religione indù, per le quali il cibo è particolarmente ricco di significati culturali: è utilizzato per comunicare alcuni fondamenti sociali e morali quali la casta, la concezione del sé e degli altri e il conflitto. Non è quindi solo il cibo in se stesso a essere rilevante, quanto piuttosto ciò che esso rappresenta entro i confini della società nella quale è comprato, preparato e consumato.

Tra gli studiosi che hanno messo in evidenza il legame tra il cibo e questa sua dimensione simbolica troviamo anche il famoso antropologo francese Claude Lévi-Strauss | ▶ unità 1, p. 37 | e l’antropologa britannica Mary Douglas (1921-2007). Lévi-Strauss delinea una vera e propria teoria delle ricette culinarie, considerando l’arte culinaria di una data società dal suo punto di vista tipicamente simbolico, allo stesso modo in cui un linguista studia una lingua. Nell’ottica dell’antropologia strutturalista | ▶ unità 1, p. 37 |, per Lévi-Strauss, la cucina di una società costituisce un linguaggio in cui la società traduce inconsciamente la propria “struttura” sottolineando quindi la stretta relazione fra sistemi alimentari e dimensione sociale. Perciò si parla del cibo come di un’esperienza culturale, accostandolo ad altri elementi marcatori d’identità.

Anche lo storico italiano Massimo Montanari (n. 1949) avvicina la cucina al linguaggio come marcatrice d’identità, affermando che, «esattamente come il linguaggio, la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni e dell’identità di gruppo».

In diverse culture la sfera del cibo e quella religiosa sono intrinsecamente legate attraverso specifici modelli di consumo. A questo proposito Mary Douglas mostra, sulle orme di Lévi-Strauss, come nelle regole dietetiche ebraiche (kashrut) si distinguano i cibi in puri e impuri, identificando chiaramente coloro che condividono questi precetti come appartenenti a una determinata tradizione culturale. In linea con le tesi strutturaliste, Mary Douglas privilegia gli aspetti simbolico-culturali del cibo, in grado di definire i confini identitari del gruppo, in questo caso della comunità ebraica.

Gli antropologi si interessano al cibo e alla cucina, in quanto elementi di identificazione culturale, per studiare molti aspetti di un gruppo sociale:

  • la sua storia culturale;
  • le trasformazioni socioeconomiche nel corso dei secoli;
  • il rapporto con il territorio agrario e le caratteristiche ambientali;
  • lo scambio di merci e i processi di immigrazione/emigrazione delle persone.

Le contaminazioni culturali derivanti dalle migrazioni caratterizzano il vivere e il mangiare quotidiano contemporaneo, che diventa, ovunque, sempre più globale.

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3.2 Le cucine del mondo e il mondo in cucina

Quando l’antropologo Piercarlo Grimaldi (n. 1945) parla di saperi tradizionali legati al cibo si riferisce a quelle pratiche e a quelle conoscenze che, nonostante la modernizzazione e meccanizzazione delle produzioni, sono rimaste intatte grazie alla trasmissione ininterrotta dei saperi tra le generazioni, prevalentemente per via orale. La cucina, secondo Grimaldi, «è con ogni probabilità l’unico sistema culturale giunto sino a noi senza soluzione di continuità», cioè senza interruzione. In Italia questo è particolarmente evidente se pensiamo alle ricette tramandate in famiglia.

Il concetto di cucina è la chiave attraverso cui comprendere la funzione simbolica che regola l’ambito del cibo, poiché ogni gruppo sociale ha un tipo di cucina identificabile: una serie di usi, norme, pratiche e comportamenti legati al cibo che accomuna i membri di quel gruppo rispetto agli altri.

I modelli culturali definiti nel processo del mangiare fanno sì che le persone esprimano e affermino continuamente il loro senso d’identità nel corso della vita quotidiana. Tuttavia, esiste una contraddizione fondamentale nel legame fra il campo del cibo e il senso d’identità nazionale, che mette in dubbio l’esistenza di un cibo definito appunto “nazionale”. L’incontro tra culture diverse, i modelli di commercio e le migrazioni hanno prodotto cucine la cui origine non ha niente a che fare con una caratteristica unica definibile “nazionale”. Per questo motivo è importante studiare perché e secondo quali modalità certi cibi e certi stili di preparazione continuino a essere identificati con specifici gruppi etnici e nazionalità, per esempio la pizza con gli italiani e il sushi con i giapponesi.

Il legame fra il cibo e l’identità nazionale sta nel fatto che la storia alimentare di ogni nazione è anche la storia della nazione stessa, dei suoi processi di colonialismi e migrazioni, commerci e scambi culturali. Non strettamente rivelatorio delle identità nazionali, il cibo è quindi piuttosto lo specchio della storia dei contatti tra culture, sia negli ingredienti sia nelle ricette. E ancora, il cibo è un linguaggio che articola nozioni d’inclusione ed esclusione, di orgoglio nazionale e di xenofobia, e proprio l’incorporazione di queste nozioni negli stessi cibi e nelle pratiche culinarie fanno del cibo un attore importante nel processo di creazione dei confini fra un’identità e un’altra.

In Italia come nel resto nel mondo, le cucine regionali, specifiche di un dato luogo, sono sempre più messe in pericolo dalle grandi catene di distribuzione alimentare. Questa facile accessibilità a prodotti e cucine provenienti da ogni angolo del mondo, questa “globalizzazione dei gusti”, sta mettendo in serio pericolo i patrimoni culinari locali. Si tratta di un esempio di grave perdita di etnodiversità, cioè della varietà dei patrimoni locali di conoscenze, abitudini, saperi pratici che contraddistinguono le diverse culture nel loro rapporto con il contesto in cui si sono storicamente sviluppate.

L’“era dei fast-food”, come è stato definito il momento storico dal dopoguerra in poi, cerca di rendere i vari “mcpanini” e le patatine fritte dei sapori tradizionali in ogni parte del mondo. Lo scrittore Paul Ariès (n. 1959) afferma in questo senso che «il consumatore di hamburger diviene così un uomo senza storia, senza memoria, che non mangia più per desiderio o per tradizione, ma per bisogno impulsivo o imitativo».

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3.3 Cibo e memoria

Il cibo, oltre a nutrirci, ci regala delle sensazioni e delle vere e proprie emozioni, perché ha il potere di risvegliare memorie sedimentate. In particolare, se nel corso della nostra vita siamo stati esposti a lungo a un tipo di cucina, ogni volta che ri-assaporiamo le stesse fragranze e ricette, ricordiamo situazioni e persone del passato. Quando un sapore si affaccia agli organi sensoriali umani (olfatto e papille gustative), ciascun individuo compie un viaggio emotivo a ritroso, un viaggio della memoria: un cibo potrebbe riportare alla mente l’infanzia, un tempo perduto esteriormente ma assolutamente vitale ed energico dentro di noi, oppure luoghi e tempi della vita legati a ricordi. La potenza di un sapore è quindi la capacità di far rivivere determinate sensazioni. Per l’antropologia questa associazione di sapore e memoria è molto importante perché è un’operazione squisitamente culturale. Le proprietà che distinguono il cibo, quali l’odore, il sapore, la consistenza e il colore, permangono negli anni e sostanziano i racconti della memoria, quelli legati al quotidiano, vissuti nell’intimità del focolare domestico e anche quelli che scandiscono le occasioni eccezionali, le cerimonie e le feste. Mangiare è, perciò, un gesto ripetitivo e naturale, ma allo stesso tempo pieno di significati e creatore di memorie: è il frutto dell’unione di modelli tramandati, creatività e tecnica; è un filo che unisce presente e passato grazie al ripetersi nel tempo delle ricette, dei menù e dei gusti, visti come vere e proprie eredità familiari e comunitarie.

L’esperienza culinaria riflette la struttura sociale, la mostra nella continuità dei ruoli e delle procedure, e anche nel cambiamento costante di questi elementi. L’antropologo statunitense David Sutton (n. 1963) inserisce nel suo studio i riti religiosi, quale contesto cruciale per l’unione di cibo e memoria, per delineare come il ricordare e il dimenticare contribuiscano alla costruzione dell’identità personale e di gruppo. Nelle sue ricerche fra le comunità isolane della Grecia, Sutton propone di considerare il mangiare come «pratica incarnata», ossia insita naturalmente in ogni individuo a livello sia fisico sia comportamentale, e l’antropologia del cibo come «antropologia proustiana». Allo stesso modo in cui Marcel Proust nella sua opera Alla ricerca del tempo perduto (1913-1927) descrive i ricordi familiari scaturiti dall’assaggio della madeleine, dolcetto tipico francese, così il cibo ha il potere di essere, nelle parole dell’antropologo francese David Le Breton (n. 1953), un «oggetto sensoriale totale», che rende tangibili, in maniera ▶ sinestetica, sensazioni e ricordi. Una sorta di ritorno alle memorie passate che, fra l’altro, spiega l’importanza e la significatività del cibo delle origini, come nel caso dei migranti che se lo procurano e lo portano con sé nel nuovo paese, alla ricerca delle proprie radici.

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  esperienze attive

La memoria dei sapori I sapori sono in grado di richiamare alla memoria episodi autobiografici in modo vivido e molto personale. Ti è mai capitato di assaporare un cibo che ti ha fatto rivivere improvvisamente vecchi ricordi? Prova a descrivere le immagini o le emozioni che ti ha scaturito. Poi discutine in classe con i tuoi compagni.

per lo studio

1. In quali modi si legano cibo e identità nazionali?

2. Che cos’è e che cosa comporta la “globalizzazione dei gusti”?

3. Che cosa si intende con l’espressione “antropologia proustiana”?


  Per discutere INSIEME 

Quali sono i cibi della tua regione o del tuo paese? Ti “identifichi” con quelle pietanze? Sono per caso dei “piatti nazionali”? Se sì, sei orgoglioso/a che lo siano? Perché? Rifletti con i tuoi compagni di classe su come il cibo svolga una funzione importante nel delineare i confini fra un’identità e un’altra. Ti sei mai trovato/a in una situazione in cui attraverso il cibo si sia ribadita una sorta di supremazia nazionale? Discutetene in classe.

I colori dell’Antropologia
I colori dell’Antropologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane