2.1 Che cos’è l’etnia
In antropologia il termine “etnia” si afferma nei primi decenni del Novecento, soprattutto nella tradizione di studi funzionalista | ▶ unità 1, p. 35 |, ed è stato utilizzato a lungo nelle scienze sociali per indicare un gruppo umano identificabile dalla condivisione di tre fattori chiave: cultura, lingua e territorio.
Si parlava così di etnie africane, asiatiche, mediorientali e così via. In questa prospettiva, l’etnia è dunque un gruppo sociale che si identifica con una cultura ben determinata, una lingua particolare e uno specifico territorio. Questa impostazione, che si può definire oggettivista, intende l’etnia come un blocco compatto e omogeneo di lingua-cultura-territorio: la concepisce come un dato di fatto oggettivo. Alla rappresentazione dell’umanità fondata sull’idea di discontinuità razziale si sostituiva, con il concetto di etnia, una rappresentazione analoga ma basata sull’idea di una discontinuità culturale. L’etnia intesa in senso oggettivista propone un’immagine di genti, tribù, popolazioni cristallizzate nella loro diversità.
Circoscrivere tribù ed etnie, delimitandone esattamente gli orizzonti culturali e i confini territoriali, è stata una operazione metodologica utile ai primi antropologi, fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento, per raccogliere dati di campo e per l’analisi comparativa. Allo stesso tempo, nel periodo delle prime ricerche etnografiche, per amministrare le popolazioni locali sottomesse, la politica coloniale ha avuto la necessità di classificare le comunità e di frazionarle entro definizioni razziali, territoriali e culturali univoche.
Nella seconda metà del Novecento vi è stata una profonda revisione del concetto oggettivista di etnia a partire dagli studi dell’antropologo norvegese Fredrik Barth | ▶ L’AUTORE |, in particolare con le sue ricerche etnografiche in Medio Oriente e in Pakistan. Barth ha fortemente criticato che si potesse parlare di etnia mediante una identificazione rigida, fissa e compatta fra una lingua, un territorio e una cultura. La visione oggettivista dà per scontata l’idea (errata) che dietro ogni etnia vi sia un’origine comune assunta a fondamento naturale: ciò produce per Barth la naturalizzazione dell’etnia, riducendola a una comunità di sangue, di stirpe e dunque di razza.
Barth richiama l’importante nozione di “etnicità”, con cui intende il senso emico di appartenza a una etnia, ossia il sentimento identitario, in genere avvertito in modo molto forte, di appartenenza al gruppo, che dà per scontato il carattere stabile, statico e oggettivo con cui si pensa la propria etnia.
Al contrario, le ricerche etnografiche in molte parti del mondo hanno mostrato che non vi è mai una sovrapposizione netta e completa fra cultura, lingua e territorio: tutti i gruppi umani, le loro culture, le loro lingue, sono il frutto più o meno lento di processi di interazione con gli altri. Le culture sono sempre state aperte e fluide, tanto di più oggi con il fenomeno della globalizzazione, la sempre maggiore mobilità di merci e persone, i social media e la diffusione della tecnologia di Internet: non è possibile pensare all’etnia in termini di uno stretto legame fra confini territoriali, linguistici e culturali, poiché i territori cambiano, le persone e le lingue circolano e si mescolano, le culture si sovrappongono e si integrano.
Inoltre, se consideriamo i maggiori conflitti etnici esplosi nella seconda metà del Novecento in Ruanda, Nigeria, nei Balcani, in Asia, contrariamente a quanto pensano gli stessi protagonisti coinvolti, le ricerche etnografiche hanno mostrato che i gruppi in conflitto non sono affatto così radicalmente diversi, al contrario, sono molto simili: la maggior parte dei conflitti etnici si svolgono fra gruppi vicini sul piano culturale, che vivono nello stesso territorio e parlano la stessa lingua.
Per Barth l’etnicità si manifesta soprattutto in situazioni di interazione in cui vengono stabilite le distinzioni etniche. Rifiutando di considerare le comunità umane come entità chiuse, delimitate da confini netti e definitivi, Barth ha mostrato come, in diverse aree del Medio Oriente, la nozione di gruppo etnico non possa essere separata da quella di confine etnico relativo, mobile, permeabile all’attraversamento e alla comunicazione.
Se è vero che a livello di rappresentazione collettiva dei membri di un gruppo etnico l’appartenenza al gruppo è definita sulla base di criteri sostanziali (il parlare una certa lingua, il condividere certe usanze e così via), nella realtà essa dipende invece dalla rete di relazioni in cui gli individui, a seconda delle situazioni, si trovano inseriti. Per questo l’identità deriva sempre da una pratica, da un’attività sociale: è un qualcosa che dipende da una negoziazione costante con gli altri. Ponendo l’accento sui meccanismi di invenzione della tradizione, l’approccio storico all’etnicità ha messo in luce come i gruppi etnici a seconda della situazione, selezionino, si approprino o ignorino, creino o nascondano tratti della loro storia o elementi della loro etnicità, in un processo sempre fluido di autodefinizione.
Dunque l’etnia non è un dato oggettivo, ma, nel sentimento di etnicità, è una percezione soggettiva. Nella contrapposizione etnica ciò che agisce più di ogni altra cosa non sono elementi oggettivi ma è la volontà di enfatizzare una o più differenze reali o inventate, dimenticando tutti gli altri aspetti che accomunano.
L’esempio più importante e più studiato, purtroppo molto tragico, di costruzione fluida dell’etnia attraverso l’enfatizzazione di tratti culturali inventati, che vengono percepiti come se fossero dati oggettivi, è il conflitto etnico fra Tutsi e Hutu in Africa negli anni Novanta del Novecento, di cui parleremo nel prossimo paragrafo.