PAROLA D’AUTORE

PAROLA D’AUTORE

|⇒ T1  Jean Piaget

Lo sviluppo come costruzione reale

Nel brano che segue, estrapolato dal saggio Le scienze dell’uomo, Piaget sottolinea l’importanza dello studio della psicologia del bambino da un punto di vista psicogenetico al fine di comprenderne lo sviluppo e come esso proceda attraverso stadi invarianti.

Il grande futuro della psicologia è senza dubbio legato ai metodi comparativo e psico-genetico, poiché solo seguendo il processo di formazione dei comportamenti e dei loro meccanismi, nell’animale e nel bambino (nella prospettiva di studiare anche le pre-percezioni e i movimenti nei vegetali), se ne può comprendere la natura e il funzionamento nell’adulto. Il motivo per cui è stato necessario un tempo considerevole per comprendere quanto rappresenta ormai una tendenza largamente diffusa, è che si è a lungo considerato il bambino come il protagonista passivo di un processo di apprendimento limitato a “registrare” ciò che nel mondo dell’esteriorità già organizzata è inscritto in anticipo, e soprattutto ciò che l’adulto gli insegna.

[…] In una parola, la psicologia del bambino ci insegna che lo sviluppo è una costruzione reale, al di là di innatismo ed empirismo, e che non si risolve in un’accumulazione additiva di acquisizioni isolate, ma è una costruzione di strutture.

[…] Le strutture operatorie dell’intelligenza non sono innate, si sviluppano anzi nel corso di un processo laborioso, che abbraccia i primi quindici anni dell’esistenza, nelle condizioni sociali più favorevoli. E se si è negato che esse “giacciano” preformate nel sistema nervoso, nemmeno è da credere appartengano a priori al mondo fisico, nel quale non resterebbe che scoprirle. Le strutture, dunque, sono il risultato di una reale costruzione, che procede per gradi, su ciascuno dei quali è necessaria una preliminare ricostruzione dei risultati ottenuti al grado precedente, prima di ampliare il proprio ambito e di promuovere una nuova costruzione: le strutture nervose servono quale strumento all’intelligenza senso-motoria, ma questa è in grado di costruire una serie di nuove strutture (oggetto permanente, gruppo degli spostamenti, schematismo dell’intelligenza pratica, ecc.); le operazioni del pensiero, a loro volta, assumono a proprio fondamento l’azione sensorio-motrice dalla quale prendono origine, ma esse ricostruiscono ciò che era acquisito a livello pratico, elaborandolo in forma di rappresentazioni e concetti, prima di ampliare considerevolmente la gamma delle strutture iniziali; il pensiero riflessivo o astratto, finalmente, ristruttura le iniziali operazioni mentali, situando il dominio concreto in quello dell’ipotesi e della deduzione proposizionale o formale. Nell’adulto che crea, tale movimento di costruzioni incessanti si prolunga indefinitamente, e le forme di pensiero tecnico e scientifico ne sono l’indiscutibile testimonianza.

Rispondi

1. Che cosa intende Piaget quando afferma che le «strutture operatorie dell’intelligenza non sono innate»?

2. Che cosa intende Piaget nel sostenere che le strutture cognitive si sviluppano «per gradi»?

 >> pagina 29 

|⇒ T2  Lev Semënovič Vygotskij

Il ruolo del gioco nello sviluppo

Questo brano di Vygotskij si basa su una conferenza tenuta all’Istituto pedagogico di Leningrado nel 1933 e pubblicata nel 1966. L’autore riflette sul gioco come fattore fondamentale nello sviluppo delle funzioni cognitive. In particolare, il gioco simbolico favorisce il passaggio dall’azione impulsiva, guidata dalla percezione, all’azione volontaria e intenzionale guidata dall’immaginazione e dalla volontà, in quel processo di interiorizzazione degli stimoli e mediazione del comportamento teorizzato dall’autore.

Rivolgiamo la nostra attenzione al ruolo del gioco ed alla sua influenza sullo sviluppo del bambino. Io penso che essa sia enorme.

Cercherò di delineare due idee fondamentali. Penso che il gioco con una situazione immaginaria sia qualcosa di essenzialmente nuovo, impossibile per un bambino al di sotto dei tre anni; si tratta di una nuova forma di comportamento nella quale il bambino si libera dalle pastoie situazionali attraverso la propria attività in una situazione immaginaria.

Il comportamento di un bambino molto piccolo – ed in modo assoluto il comportamento di un neonato – viene determinato, in notevole misura, dalle condizioni in cui l’attività ha luogo, come gli esperimenti di Lewin e di altri hanno mostrato. […] È difficile immaginare un contrasto maggiore tra gli esperimenti di Lewin, che ci mostrano le limitazioni situazionali dell’attività, e ciò che osserviamo nel gioco. In quest’ultimo il bambino agisce nell’ambito di una situazione mentale e non visibile. È qui che il bambino impara ad agire nell’ambito di un regno cognitivo, non visibile esternamente, facendo leva su tendenze e motivazioni interne e non su incentivi forniti dalle cose esterne. Mi ricordo di uno studio di Lewin sulla natura motivante delle cose nei bambini molto piccoli; in esso Lewin concludeva che sono le cose a dettare al bambino ciò che egli deve fare: una cosa chiede di essere aperta e chiusa, una rampa di scale vuole che vi si salga su, un campanello vuole essere suonato. In breve, le cose posseggono una forza motivazionale interna rispetto alle azioni che il bambino compie e giungono a determinare il comportamento dei bambini a un punto tale che Lewin è arrivato a creare una topologia psicologica, vale a dire, ad esprimere matematicamente la traiettoria dei movimenti del bambino in un campo, a seconda della distribuzione degli oggetti, dotati, in modo variabile, di forza di attrazione o di repulsione.

Cosa può esserci alla radice delle costrizioni situazionali che si esercitano sul bambino? La risposta risiede in un fatto centrale della coscienza che è caratteristico della prima infanzia: l’unione di affetto e percezione. A quest’età la percezione non costituisce generalmente un aspetto indipendente ma è bensì l’elemento iniziale di una reazione affettiva di tipo motorio; cioè, ogni percezione costituisce in questo modo uno stimolo all’attività. Poiché una situazione viene sempre comunicata psicologicamente tramite la percezione, e la percezione non è separata dall’attività affettiva e motoria, è comprensibile che, con una coscienza così strutturata, il bambino non riesca ad agire al di fuori delle costrizioni della situazione – e del «campo» – in cui egli si trova.

Nel gioco, le cose perdono la loro forza motivazionale. Il bambino vede una cosa ma agisce differentemente rispetto a ciò che si vede. In questo modo si arriva ad una situazione in cui il bambino comincia ad agire indipendentemente da ciò che vede. […]

L’azione in una situazione la quale non è «vista» ma è solo concepita ad un livello immaginario e nell’ambito di una situazione immaginaria, porta il bambino ad indirizzare il proprio comportamento non soltanto grazie alla percezione immediata degli oggetti o attraverso l’effetto immediato che la situazione ha su di lui, ma anche grazie al significato di questa situazione.

Gli esperimenti e le osservazioni condotte giorno per giorno hanno mostrato con chiarezza l’impossibilità, da parte dei bambini molto piccoli, di separare il campo del significato dal campo visivo. […]

È nel corso della fase prescolare che si comincia ad intravedere una divergenza tra il campo del significato e il campo visivo. A me sembra che varrebbe la pena di riaffermare l’idea di quel ricercatore il quale disse che nel corso dell’attività ludica il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione prende le mosse dalle idee più che dalle cose.

Il pensiero si separa dagli oggetti perché un pezzo di legno comincia ad essere una bambola e un bastone diviene un cavallo. L’azione in base a delle regole comincia a venir determinata dalle idee e non dagli oggetti stessi. Ciò porta ad un tale mutamento nel rapporto tra il bambino e la situazione concreta, immediata e reale, che risulta difficile valutarne appieno l’importanza. […]

Un gioco rappresenta lo stadio transitorio in questa direzione, in quel momento critico in cui un bastone – cioè un oggetto – diventa il mezzo per separare il significato del cavallo dal cavallo reale; viene così ad alterarsi in modo radicale una delle strutture psicologiche fondamentali che determinano il rapporto del bambino con la realtà. […]

Ecco quindi la natura transizionale del gioco, che ne fa un intermediario tra le costrizioni puramente situazionali della prima infanzia e il pensiero, il quale è del tutto svincolato dalle situazioni reali. […]

Il gioco opera continue pressioni sul bambino perché egli agisca contro gli impulsi immediati, agisca, cioè, sulla linea della maggior resistenza. […] Ad ogni istante il bambino è messo di fronte al conflitto tra la norma del gioco e ciò che egli farebbe se potesse agire seguendo i propri impulsi spontanei.

Nel gioco egli agisce in modo contrario a ciò che vuole. Nohl1 ha fatto vedere come il bambino manifesti nel corso del gioco un notevole self-control. Egli arriva a manifestare al massimo grado la propria forza di volontà rinunciando a qualcosa che nel gioco lo attrae in modo immediato (per esempio, una caramella che, secondo le regole del gioco, i bambini non hanno il permesso di mangiare perché rappresenta qualcosa di immangiabile). Di solito un bambino fa esperienza della propria subordinazione ad una regola rinunciando a qualcosa che egli desidera, ma nel caso del gioco la subordinazione ad una regola e la rinuncia ad agire seguendo un impulso immediato costituiscono gli strumenti del massimo piacere.

Così, l’attribuzione essenziale del gioco è una norma che è divenuta affetto.

Rispondi

1. A che cosa si riferisce Vygotskij quando parla di gioco immaginario?

2. Che cosa vuol dire che il bambino possiede autocontrollo nel gioco?

I colori della Psicologia - volume 2
I colori della Psicologia - volume 2
Secondo biennio del liceo delle Scienze umane