3. La Scuola di Chicago e l’interazionismo simbolico

3. La Scuola di Chicago e l’interazionismo simbolico

3.1 LA SCUOLA DI CHICAGO E LA RICERCA ETNOGRAFICA

A partire dagli anni Venti del secolo scorso, negli Stati Uniti inizia a prendere forma un indirizzo di studio della società che, nel corso dei decenni successivi, si distinguerà in maniera profonda sia dalla tradizione struttural-funzionalista di Parsons e Merton sia dalla teoria critica di matrice europea, rappresentata dalla Scuola di Francoforte.
Si tratta di una tradizione che prende avvio con la cosiddetta “Scuola di Chicago”, dal nome della città in cui se ne posero le basi di studio. Prima della Seconda guerra mondiale, alcuni sociologi attivi presso l’università di Chicago si specializzarono nello studio dei problemi sociali che emergevano nei nuovi contesti urbani, quale rapido risultato dei processi di urbanizzazionegenerati dalla nascita delle industrie alla fine dell’Ottocento, e di migrazione dall’Europa verso gli Stati Uniti.
Fondatori della Scuola di Chicago furono Robert Park e Ernest Burgess, il cui approccio si caratterizzava, oltre che per lo studio delle realtà urbane, per una particolare enfasi sulla ricerca empirica.
Park propose di adottare nei confronti dello studio delle culture urbane gli stessi ⇒ metodi etnografici adottati dagli antropologi nei confronti delle popolazioni indigene; ciò al fine di cogliere le conseguenze sociali e culturali dell’insediamento negli Stati Uniti delle numerose popolazioni di migranti provenienti dai paesi europei.
Oggetto del suo studio diventano, da un lato, i contatti che si verificano nelle società complesse tra le diverse culture e, dall’altro, l’“uomo marginale” che si identifica in chi vive quotidianamente ai margini della società. Park invita i sociologi a “guardarsi intorno”, a uscire dalle università e a “sporcarsi le mani” entrando in contatto con la realtà che si vuole studiare. Protagonisti degli studi della Scuola di Chicago diventano così i ghetti delle città americane, le minoranze etniche, i vagabondi, le prostitute e le gang giovanili.

 >> pagina 147 
La città di Chicago
Fino al 1860, Chicago è una piccola cittadina con una popolazione di circa 10.000 abitanti; poi, in seguito al processo di industrializzazione, cresce velocemente, tanto che, all’inizio del Novecento, è ormai una vera metropoli, con una popolazione che supera i due milioni di abitanti. La rapidità dell’aumento della popolazione, dovuta soprattutto all’afflusso massiccio di immigrati da altre città e dal lontano continente europeo, genera una serie di conseguenze, come la moltiplicazione dei senzatetto, la diffusione di condizioni abitative disagiate e lo sfruttamento dei lavoratori.
Molte delle ricerche dei sociologi di Chicago cercano di comprendere che cosa succede quando grandi quantità di persone provenienti da altri paesi e culture si riversano in una nazione con una lingua, una cultura e abitudini diverse. È questo uno dei temi trattati in uno dei libri di riferimento dell’approccio della Scuola di Chicago, una fondamentale ricerca realizzata da Thomas e Znaniecki sulle dinamiche sociali e culturali degli immigrati polacchi in America.

  VERSO LA PROFESSIONE   

L’assistente sociale

L’attenzione della Scuola di Chicago per le forme di marginalità sociale è l’occasione per riflettere sulla professione dell’assistente sociale. L’assistente sociale è un lavoro nell’ambito dei servizi sociali in cui un professionista mette le proprie conoscenze e capacità a disposizione per risolvere o semplificare i problemi di singoli cittadini, famiglie o gruppi di persone. L’assistente sociale può lavorare sia per enti pubblici (come i Comuni, le Regioni o le Asl), sia per associazioni o comunità private, che si occupano di gestire e supportare persone disagiate. Uno dei suoi obiettivi è dunque quello di prevenire e risolvere situazioni di disagio sociale e di bisogno, interagendo direttamente con chi vive ai margini della società per ragioni differenti, come, per esempio, per la mancanza di risorse economiche, per un disagio psichico o per problemi di tossicodipendenza. Proprio perché l’assistente sociale deve frequentare contesti sociali problematici, tra le competenze che egli deve acquisire vi sono anche una serie di conoscenze di tipo propriamente sociologico, che possono aiutare a comprendere le ragioni del disagio e identificare le più adeguate forme di supporto.

Cerca online informazioni utili su come si diventa assistenti sociali, quali studi ed esami è necessario compiere, quali problemi presenta questa professione. Nella ricerca delle informazioni puoi provare anche a contattare una sede locale dell’Ordine nazionale degli assistenti sociali della tua regione.

 >> pagina 148 

3.2 LO STUDIO DEGLI IMMIGRATI POLACCHI NEGLI STATI UNITI

Il contadino polacco in Europa e in America di William Isaac Thomas e Florian Witold Znaniecki è un libro pubblicato in più volumi tra il 1918 e il 1920 ed è considerato uno dei classici della sociologia anche per l’utilizzo di un metodo di ricerca che, all’epoca, si dimostra particolarmente innovativo: quello della documentazione scritta. Si tratta infatti di uno studio sulle traiettorie di vita degli immigrati polacchi e delle loro famiglie negli Usa, realizzato analizzando lettere personali, ma anche articoli di giornale, opuscoli e documenti del tribunale.
L’ideatore iniziale di questo studio e del metodo che lo sostiene è William Isaac Thomas (1863-1947), mosso dal suo interesse per le dinamiche comunitarie degli immigrati a Chicago, un tema che aveva iniziato a trattare già nel 1890. Florian Witold Znaniecki (1882-1958) è, invece, un professore polacco, con spiccate attitudini filosofiche, chiamato negli Stati Uniti da Thomas a collaborare all’iniziale progetto che, in capo a poco tempo, si trasforma in un’opera mastodontica di più di duemila pagine.
L’obiettivo dei due sociologi è quello di esplorare la relazione tra gli immigrati polacchi e la società, concentrandosi su gruppi di individui (come famiglie o interi quartieri) e sui legami di comunità, ritenuti fondamentali per comprendere i cambiamenti della società americana dell’epoca. Agli inizi del XX secolo, gli immigrati polacchi, infatti, sono molto numerosi negli Stati Uniti, costituendo circa un quarto di tutti i nuovi immigrati nel paese. La sola città di Chicago ne ospita circa 350.000.
Gli autori sostengono che le dinamiche comunitarie dei polacchi a Chicago sono state influenzate non tanto dalle politiche ufficiali sull’immigrazione del governo degli Stati Uniti, quanto dalla cultura di origine dei polacchi stessi e dai loro legami sociali con gli altri connazionali.
Partendo dall’analisi delle circostanze che avevano spinto molti polacchi a muoversi dalle campagne europee per cercare fortuna negli Usa, essi dimostrano che questi immigrati, col passare del tempo, non sono più unicamente polacchi ma nemmeno pienamente americani, ma costruiscono un’identità particolare, quella di “polacco-americani”. In questo modo, costituiscono un nuovo gruppo etnico, caratterizzato da una nuova cultura che riprende alcuni tratti tipici della cultura contadina polacca riadattata al nuovo contesto americano.
Oltre a fornire un’enorme conoscenza sui processi d’immigrazione e sulla traiettoria d’inserimento degli immigrati polacchi nella società americana, questa ricerca di Thomas e Znaniecki ha rappresentato un contributo fondamentale anche per lo sviluppo di una nuova metodologia delle scienze sociali, contribuendo a fondare la sociologia come scienza empirica. Come vedremo nell’unità dedicata alle metodologie delle scienze sociali | ▶ UNITÀ 6, p. 233 |questa ricerca rappresenta infatti un caposaldo per il successivo sviluppo dei metodi basati sull’analisi dei documenti.

 >> pagina 149 

3.3 GLI STUDI SULLE ZONE DELLA CITTÀ

Come abbiamo già visto, uno dei temi che ha caratterizzato il lavoro dei primi sociologi della Scuola di Chicago ha riguardato le trasformazioni della città, con l’obiettivo di fornire indicazioni utili per la pianificazione urbana e per sviluppare forme di intervento atte a migliorare le condizioni delle aree più disagiate. I ricercatori legati a questa tradizione di studi ritenevano l’ambiente urbano un fattore capace di influenzare il comportamento degli individui e delle comunità: per questa ragione era per loro fondamentale studiare la forma e le caratteristiche dell’ambiente urbano in rapporto alle dinamiche relazionali fra gli individui che vi abitavano e vi lavoravano.
Uno dei libri più significativi su questo argomento, scritto nel 1925 da due importanti studiosi della Scuola di Chicago, Robert Ezra Park | ▶ L’AUTORE | e Ernest Watson Burgess | ▶ L’AUTORE |, è intitolato, appunto, La città.
Una delle idee portanti del libro è che la città possa essere analizzata come un ambiente in cui tutto è in relazione; da qui la sua suddivisione in zone, caratterizzate da attività differenti e da gruppi diversi di persone che vi abitano e vi lavorano. Questo approccio di studio viene chiamato modello di analisi delle zone concentriche della città. I due sociologi notano, infatti, che nelle grandi città americane è ricorrente l’esistenza di una zona centrale – solitamente caratterizzata dalla presenza del quartiere degli affari – circondata da una seconda zona circolare costituita da “zone di transizione”, che raccolgono, generalmente, costruzioni industriali ed edifici in disuso. Segue un terzo cerchio, caratterizzato dalle zone residenziali dei lavoratori e degli operai, che includono anche le case dei ceti popolari. Una quarta zona è poi rappresentata dalla cerchia di case residenziali delle classi medie mentre, al limite della città, si rilevano le zone suburbane più distanti, costituite dalle case dei pendolari.
Se questo modello viene messo a confronto con la struttura delle città italiane, si notano forti differenze che sono spesso determinate dalla loro impostazione medievale e rinascimentale. Tuttavia, il modello dimostra ugualmente la sua validità perché rivela, in tutti i casi, che l’organizzazione della vita sociale è, in ogni luogo, in relazione con la forma dell’ambiente fisico urbano.
L’idea alla base del libro di Park e Burgess è che le città costituiscono ambienti con un proprio equilibrio, organizzati in base a particolari dinamiche, come la suddivisione di determinate zone tra differenti gruppi sociali. Essi notano, per esempio, che alcune parti della città si organizzano in modo distinto da altre poiché abitate da gruppi con caratteristiche economiche, sociali e culturali omogenee.
Di fondamentale importanza il fatto che questo modello servirà a Park, Burgess e altri studiosi della Scuola di Chicago come punto di partenza per analizzare alcuni dei problemi sociali tipici delle grandi città, come la criminalità e la disoccupazione.

l’autore  Robert Ezra Park

Robert Ezra Park (1864-1944) è un sociologo americano, noto soprattutto per il suo lavoro di ricerca sulle minoranze etniche, in particolare afroamericane, oltre che sull’“ecologia umana”, un’espressione da lui stesso creata, cioè sul comportamento dei gruppi nello spazio urbano inteso in chiave naturalistica come comunità biologica, e sui contesti fisici entro cui tale comportamento si esplica.
Dopo aver svolto attività di giornalista, inizia a insegnare sociologia ad Harvard nel 1904, per poi trasferirsi all’università di Chicago, dove diventa una delle figure di spicco della Scuola di Chicago. Qui avvia una grande quantità di ricerche sul campo, esplorando alcuni importanti problemi sociali ancora oggi fondamentali, come le relazioni etniche, le migrazioni e i movimenti sociali.

 >> pagina 151 

l’autore  Ernest Watson Burgess

Ernest Watson Burgess (1886-1966) è un sociologo americano che dedica il proprio lavoro allo studio delle trasformazioni della famiglia come unità base della società e delle trasformazioni sociali della città di Chicago. Rivolge la sua attenzione anche all’istituzione del matrimonio: nel suo libro Predire successo o fallimento nel matrimonio (1939) sviluppa un sistema scientifico per prevedere il tasso di riuscita di un’unione coniugale. Dopo aver ricevuto il dottorato dall’università di Chicago nel 1913, insegna sociologia in altri atenei, per poi ritornare nella stessa Chicago, dove inizia una solida collaborazione con Robert Ezra Park, con il quale si interessa all’uso del territorio locale e agli aspetti sociali delle comunità urbane.
  esperienze attive

Le differenti zone della tua città Prova a identificare in che modo nella città o nel paese in cui vivi esistono differenti zone, associate a gruppi sociali diversi, come hanno fatto Park e Burgess in relazione alla Chicago di inizio Novecento. È possibile secondo te identificare una zona “centrale”, caratterizzata dal quartiere degli affari, dove per esempio ci sono i negozi più costosi? C’è invece una zona residenziale, dove vivono le classi medie? E, infine, c’è una zona simile a quella che i sociologi della Scuola di Chicago definivano come “di transizione”, con costruzioni industriali o edifici in disuso, spesso accompagnata da forme di marginalità sociale?

Come ulteriore esercitazione potresti scegliere una di queste zone, quella che ti sembra più interessante o più facilmente raggiungibile, recarti in questa parte della città e descrivere in un tema le persone che incontri e le situazioni che colpiscono maggiormente la tua curiosità.

 >> pagina 152 

3.4 L’INTERAZIONISMO SIMBOLICO

Dopo la Seconda guerra mondiale, la tradizione teorica e i metodi qualitativi della Scuola di Chicago continuano a orientare con forza studiosi attivi in altre università statunitensi, anche se attratti da temi non più esclusivamente legati all’immigrazione nelle metropoli. In questa fase, la linea teorica sociologica capace di maggiore dialogo con l’impostazione sviluppatasi a Chicago è quella dell’interazionismo simbolico. Si tratta di un approccio sociologico sviluppatosi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, che continua a essere molto influente anche nella sociologia contemporanea.
Dal punto di vista teorico, l’interazionismo simbolico affonda le sue origini nella filosofia americana pragmatista. L’aspetto caratteristico di questa corrente filosofica è quello di considerare gli individui come agenti attivi nel dare forma alle interazioni e ai ruoli sociali, invece che come soggetti passivi influenzati da grandi strutture e sistemi sociali (come nelle descrizioni del sistema sociale date da Comte, Marx, Durkheim e, poi, da Parsons). La definizione di interazionismo simbolico rimanda all’idea che la società prende forma nel corso delle interazioni concrete tra gli attori sociali, interazioni che avvengono grazie a sistemi simbolici e alla creazione collettiva di significati, non solo in relazione alla lingua usata, ma anche ai codici di comportamento condivisi.
Mead e Blumer
Il punto di partenza teorico dell’interazionismo simbolico è il lavoro del filosofo George Herbert Mead (1863-1931), il quale sostiene che, se è vero che il comportamento delle persone è in qualche modo il frutto delle strutture e dei vincoli che la società impone loro, è anche vero che gli individui possiedono la capacità di creare e dare forma ad alcuni elementi che organizzano la vita sociale.
Le idee di Mead sono state riprese dal suo allievo Herbert George Blumer (1900-1987), che ne ha tradotto i principi filosofici in un ambito rigorosamente sociologico, coniando tra l’altro la definizione di interazionismo simbolico. Per Blumer, gli individui agiscono rispetto al mondo che li circonda in base ai significati che essi attribuiscono alle persone e agli oggetti che incontrano. Tuttavia, tali significati sono creati nel corso dell’interazione tra gli stessi attori sociali, i quali dunque contribuiscono attivamente a creare i significati fondamentali per la vita di gruppo.
ESEMPIO: alcuni bambini giocano con le figurine. Le figurine sono normalmente dei prodotti da collezione da raccogliere in un album ma, quando i bambini se le scambiano, nel corso delle loro interazioni, attribuiscono un particolare valore ad alcune di esse, identificando per esempio delle differenze specifiche tra una figurina e un’altra, e in tal modo stabiliscono un intero mondo di significati attorno a questi semplici oggetti, creando spesso nuovi giochi di gruppo. Nel corso delle loro interazioni, dunque, attraverso l’attribuzione creativa di particolari significati, i bambini contribuiscono a dare forma ai riferimenti e alle regole del proprio passatempo basato sulle figurine.
Nonostante l’interazionismo simbolico sia una delle correnti fondative della sociologia empirica, esso è stato spesso criticato per non essere sufficientemente rigoroso nella definizione del proprio metodo di ricerca e per una scarsa sistematizzazione delle teorie e dei concetti: certamente ogni studioso aderente a questa corrente ne ha dato una sua particolare e originale interpretazione. Vediamo dunque più in dettaglio il lavoro di due dei sociologici considerati tra i maggiori rappresentanti della tradizione dell’interazionismo: Erving Goffman e Howard Becker.

 >> pagina 153 

3.5 GOFFMAN E L'APPROCCIO DRAMMATURGICO ALLA SOCIETÀ

Erving Goffman | ▶ L’AUTORE, p. 154 | è il più noto esponente di un ramo della sociologia conosciuto come “microsociologia”, un termine che viene utilizzato, in contrasto con “macrosociologia”, per descrivere quelle applicazioni della disciplina che non si occupano della società dal punto di vista delle sue strutture (come nel caso di Parsons), ma si concentrano sulla comprensione delle forme di interazione tra i singoli individui. Pur non avendo mai dichiarato un’esplicita adesione all’interazionismo simbolico, Goffman ne è considerato l’esponente di maggiore spicco, proprio perché, più e meglio di altri, è riuscito a descrivere come le persone costruiscono la propria identità attraverso i più semplici e banali comportamenti di ogni giorno, interagendo con gli altri individui.

 >> pagina 154 
La metafora del teatro
Il primo e forse più celebre lavoro di Goffman è intitolato La vita quotidiana come rappresentazione, pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1956 e ripubblicato successivamente negli Stati Uniti nel 1959. In questo libro egli adotta la metafora del teatro per fornire una chiave di lettura del modo in cui gli individui si presentano pubblicamente davanti agli altri: proprio per questa ragione, la sua prospettiva è stata definita come un approccio drammaturgico allo studio della società.
Goffman sostiene che la vita sociale prende forma e si organizza attraverso le azioni quotidiane compiute dagli individui che sono il più delle volte routinarie. Tali azioni possono essere comprese attraverso la metafora dello spettacolo teatrale: quando gli individui si incontrano, si comportano come degli attori teatrali, sia perché devono rappresentare se stessi in un certo modo, sia perché nel fare questo devono collaborare con gli altri affinché la rappresentazione della vita sociale si svolga senza intoppi, in modo da rassicurare reciprocamente tutti i partecipanti all’interazione.
Uno degli elementi particolarmente efficaci nella descrizione di Goffman delle interazioni tra gli individui è che questi solitamente offrono una particolare rappresentazione di se stessi agli altri. Per esempio, quando, di fronte agli amici, vogliono mostrarsi esperti di qualcosa, essi utilizzano, secondo Goffman, delle tecniche di “auto-presentazione” e cercano di “gestire l’impressione” che danno. Ovviamente, il successo di queste performance rappresentative dipende anche dalle reazioni del “pubblico” che hanno di fronte, che influenzano le strategie attraverso cui si rappresentano e che contribuiscono a modificare il modo di presentarsi nel corso dell’interazione.

l’autore  Erving Goffman

Erving Goffman (1922-1982) è uno dei più importanti sociologi nord-americani della seconda metà del Novecento, svolgendo un ruolo significativo nello sviluppo della sociologia americana moderna, grazie soprattutto ai suoi studi sulla comunicazione faccia-a-faccia e sui rituali dell’interazione sociale. Ottiene il dottorato all’università di Chicago nel 1953, compiendo i suoi studi nel solco della tradizione di ricerca della Scuola di Chicago, ma venendo poi influenzato anche dal lavoro di altri studiosi, tra cui in particolare Émile Durkheim. Nel 1958 inizia a insegnare all’università della California a Berkeley, dove successivamente diventa professore di sociologia, sviluppando una propria prospettiva originale, incentrata sulla teoria dell’interazionismo simbolico e sull’approccio definito “drammaturgico”.

 >> pagina 155 
Le due dimensioni spaziali dell’interazione
Un’altra delle intuizioni dell’approccio drammaturgico di Goffman è l’idea che le interazioni possano essere studiate considerando due dimensioni spaziali particolari, ancora una volta tratte dal mondo del teatro:
  • la prima dimensione spaziale è quella del frontstage o della ribalta, in cui gli individui presentano la propria identità pubblica a chi gli sta di fronte a partire da certi ruoli che sono adeguati o attesi. In altre parole, fanno ciò che gli altri si aspettano che facciano;
  • la seconda dimensione spaziale è, invece, quella del backstage o del retroscenadove le persone possono uscire dal ruolo specifico che devono rappresentare e, dunque, violare consapevolmente le loro identità pubbliche.
ESEMPIO: per illustrare questa differenza, uno degli esempi proposti da Goffman è quello delle stanze in un’abitazione. Il salone e la sala da pranzo sono spazi in cui si esibisce il frontstage della vita sociale familiare, ovvero i luoghi in cui si invitano gli amici e si realizza la performance dell’ospitalità. Nel salotto, dunque, tutto è ordinato e vengono messe in mostra foto di famiglia, quadri, soprammobili e accessori preziosi. Al contrario, le camere da letto o il bagno sono ritenute aree del backstage, spazi privati in cui i membri della famiglia possono ritirarsi ed essere se stessi. In queste stanze non è difficile trovare vestiti in disordine e accessori personali piuttosto che oggetti di rappresentanza. Ovviamente, il confine tra questi due spazi dell’interazione non è così netto e definito e Goffman più volte sottolinea l’imbarazzo che si può creare socialmente se il confine tra queste due regioni viene trasgredito, per esempio quando un ospite entra per sbaglio nella camera da letto disordinata, scoprendo magari che lì sono stati accatastati tutti i vestiti per lasciare pulito e ordinato il salotto!
ESEMPIO: un altro esempio fatto da Goffman è quello del comportamento di un cameriere in un ristorante. Quando il cameriere interagisce in sala (frontstage) con un cliente particolarmente seccante, rimane comunque gentile e premuroso ma, una volta oltrepassata la soglia della cucina (il backstage), si lascia andare all’aggressività e alla volgarità.

 >> pagina 156 
Influenza e critiche
Il pensiero di Goffman ha influenzato enormemente i sociologi di tutto il mondo e il suo lavoro rimane uno dei più stimolanti e creativi della sociologia moderna.
Tuttavia le sue idee sono state anche oggetto di alcune critiche, relative soprattutto al fatto che egli non si sia interessato, all’interno della sua teoria microsociologica, delle forme di disuguaglianze strutturali della società, come per esempio della povertà, concentrandosi sui comportamenti e i contesti tipici della classe media americana, bianca e laureata. Un’altra critica ricorrente nei suoi confronti è stata che, a differenza di altri studiosi, egli non ha dedicato particolare attenzione agli studi teorici di chi lo ha preceduto, presentando spesso il proprio lavoro come se fosse a quelli estraneo e indipendente. D’altronde, proprio questa sua riluttanza a dedicare spazio ai grandi dibattiti teorici della sociologia è una delle qualità dei suoi libri, che rimangono ancora oggi particolarmente leggibili e contemporanei.

3.6 HOWARD BECKER E LA TEORIA DELL'ETICHETTAMENTO

Howard Saul Becker | ▶ L’AUTORE | è una delle figure più influenti dell’interazionismo simbolico. Egli è diventato particolarmente famoso per i suoi studi di sociologia della devianza, ma ha anche studiato e scritto ampiamente a proposito di altri argomenti, come l’arte, la musica e il lavoro. A differenza di Goffman e di altri studiosi appartenenti alla tradizione teorica dell’interazionismo simbolico, Becker si è apertamente riconosciuto come sociologo interazionista e diretto continuatore della tradizione della Scuola di Chicago, città dove peraltro si era laureato.

 >> pagina 157 

per immagini

La carriera da jazzista

Il jazz (termine del gergo statunitense di origine incerta) è un genere musicale nato agli inizi del XX secolo negli Stati Uniti, nell’ambito delle trasformazioni sociali e culturali che affrontava in quel periodo la comunità nera, da poco liberatasi dalla schiavitù. Questo fenomeno musicale è stato analizzato da molti sociologi nel tentativo di comprendere il rapporto tra la sua diffusione e l’intera società. Secondo gli studi di Becker, per esempio, il successo di un jazzista americano del XX secolo si misurava non solo per il suo talento musicale, ma anche per una certa attitudine a stare sul palco e a interagire col pubblico e gli altri musicisti. Non seguire questa strada e non fare musica commerciale gradita al grande pubblico comportava il rischio di essere etichettato come individuo “deviante”, escluso dalla “normalità”.

Lo studio sui jazzisti
Per mantenersi agli studi, ma anche per passione, Becker suonava il piano-jazz nei club. Avendo dunque l’opportunità di un accesso diretto al mondo del jazz, decide di scrivere la sua tesi di dottorato sulla carriera dei jazzisti. Il suo studio, condotto sulla base della sua esperienza e di lunghe interviste, rivela che essere un bravo musicista jazz non significa soltanto “suonare bene”, ma sapere come relazionarsi con il pubblico, con gli altri musicisti, nonché sapersi atteggiare adeguatamente in sala o nel backstage. Ma essere un musicista jazz significa anche vivere nel costante conflitto tra due obiettivi, ossia fare musica commerciale per arrivare al successo oppure suonare assecondando il proprio gusto, a rischio di essere condannati alla marginalità dal grande pubblico ed essere catalogati quali “devianti” al pari di qualunque altra persona non svolga un lavoro “normale”. Essere un musicista jazz, infine, significa anche fumare marijuana, una pratica che serve ai jazzisti a creare un particolare senso di comunità e di appartenenza.

l’autore  Howard Saul Becker

Howard Saul Becker (n. 1928) è uno dei sociologi statunitensi più importanti tuttora viventi, nonché l’ultimo rappresentante diretto della tradizione sociologica della Scuola di Chicago, dove ottiene il dottorato nel 1951. Le sue prime ricerche si concentrano sulle figure sociali devianti, un tema trattato nel sul libro più famoso, Outsiders (1963), che considera la devianza come il prodotto culturale delle interazioni tra le persone. Inoltre contribuisce alla sociologia con una serie di riflessioni sui metodi di ricerca sociale e sul lavoro del ricercatore, formulando una visione originale della metodologia della ricerca sociale riassunta nel volume Trucchi del mestiere (1998).

 >> pagina 158 
Lo studio sui fumatori di marijuana
Becker è incuriosito soprattutto dalla linea di demarcazione che separa normalità e devianza e decide così di condurre la sua ricerca successiva sui fumatori di marijuana. Negli anni Cinquanta, l’assunzione di stupefacenti era spiegata o dalla scienza medica come forma di “malattia” o dalle scienze sociali come forma di devianza psicosociale: in entrambi i casi come un fattore puramente individualeBecker, al contrario, dimostra che diventare un fumatore di marijuana è un processo sociale; le persone infatti imparano a fumare assieme ai più esperti e secondo precise tappe: riconoscere l’effetto della sostanza, gestire le reazioni fisiche, sapere cosa fare nel caso in cui ci si senta male e così via. Quando fumano assieme, gli individui si scambiano racconti, conoscenze e opinioni e così facendo sviluppano un modo comune di interpretare la realtà e di relazionarsi con determinati problemi. Dal punto di vista di chi fuma marijuana, sono quelli che non fumano a essere percepiti come “strani”.
La teoria dell’etichettamento
Lo studio sul consumo di marijuana ha costituito la base per sviluppare in sociologia una prospettiva particolare sulla devianza, diversa da quella proposta da Merton e definita “teoria dell’etichettamento”. Questa linea teorica rappresenta una risposta ai modelli convenzionali di studio delle forme di devianza e criminalità.
Becker sostiene che la devianza non è una caratteristica intrinseca di una particolare persona, bensì un’etichetta attribuita da parte dei membri della società a coloro che ne infrangono le regole e i valori. La conseguenza principale di questo ragionamento è che trasgredire le norme non è in sé condizione sufficiente a essere “devianti”: è necessario essere definiti tali dagli altri. Inoltre, dato che a gruppi sociali diversi corrispondono regole e valori diversi, un medesimo comportamento potrà essere considerato come un’azione deviante in un contesto, ma non in un altro.
Becker e altri esponenti della teoria dell’etichettamento sottolineano anche che le differenze di classe e di razza svolgono un ruolo importante nel processo di assegnazione di etichette di devianza ad alcune persone piuttosto che ad altre. È ciò che si verifica oggi con i cittadini stranieri, etichettati spesso con troppa facilità come potenziali “criminali”.
La teoria dell’etichettamento di Becker è stata criticata per essere troppo “giustificatoria” nei confronti dei devianti, partendo dal presupposto che essi siano vittime di una società repressiva, senza dunque spiegare perché alcune persone tendono a infrangere le regole sociali, mentre altre tendono a rispettarle. D’altra parte, però, questo approccio continua a essere un punto di vista influente nella sociologia della devianza proprio perché permette di non colpevolizzare a priori chi si trova in condizioni svantaggiate e marginali all’interno della società.

 >> pagina 159 
La metodologia di ricerca sociologica
Accanto agli studi sulla devianza e su altri fenomeni specifici, Becker ha sviluppato una riflessione sui metodi di ricerca in sociologia, con particolare riferimento a quelli qualitativi. Egli si chiede se le scienze sociali siano o meno una disciplina scientifica obiettivaarriva a sostenere che i sociologi non possono mai essere completamente obiettivi nel loro lavoro e, dunque, non dovrebbero nemmeno dichiarare di esserlo.
Partecipando a un dibattito su questo tema, egli sostenne che gli interessi personali dei ricercatori influenzano inevitabilmente il modo in cui essi selezionano gli argomenti da studiare e, inoltre, contribuiscono a definire le domande che essi si pongono rispetto alla società. Secondo Becker, l’idea di una ricerca sociologica assolutamente obiettiva e distaccata da convinzioni e valori dei ricercatori è un principio ideologico distante dalla realtà.
per lo studio

1. Perché secondo i primi sociologi di Chicago era importante studiare le dinamiche sociali tipiche della città?
2. Che cosa significa la definizione di "approccio drammaturgico" allo studio della società, caratteristico di Goffman?
3. In che cosa consiste la “teoria dell’etichettamento” di Becker?


  Per discutere INSIEME 

Uno dei contributi della Scuola di Chicago è stato quello di puntare l’attenzione sulle dinamiche dell’immigrazione negli Stati Uniti dell’inizio del Novecento. Trasportando queste riflessioni nel mondo di oggi, provate a raccontare in classe qualche esperienza diretta dei rapporti che si vengono a creare tra la cultura di origine degli attuali immigrati in Italia e la cultura del nostro paese.

I colori della Sociologia
I colori della Sociologia
Secondo biennio e quinto anno del liceo delle Scienze umane