Gianfranco Contini
Il Pascoli proverbiale è il Pascoli delle cose umili, delle cose che stanno non sopra, ma sotto la linea dell’attenzione tradizionale, di quel microcosmo che del resto equivale in dignità al macrocosmo per l’indifferenza ed equidistanza pascoliana verso terra e cielo, verme e astro: così che si delinea, specialmente verso la fine dell’opera pascoliana, una conversione della poesia minutamente impressionistica in poesia cosmica. Questa attenzione alle cose situate sotto la linea tradizionale, famiglia di cose che non erano state ancora ammesse nella corte della poesia, si deve qualificare immediatamente per scrupolo di precisione. È perciò quell’esattezza nomenclatoria, quella copia1 di linguaggio tecnico che si è rilevata. Ma si tratta veramente di determinatezza? Ecco una domanda alla quale, appena la si pone, sembrerebbe di dover rispondere con l’affermativa: Pascoli perlomeno intese che a questa domanda si dovesse rispondere sì. C’è un passo famoso in cui egli compara, collaziona,2 mentalmente il suo ideale linguistico con la pratica leopardiana. «Un mazzolin di rose e di viole»: ma queste rose e queste viole, si chiede Pascoli, esistevano, esistevano concretamente, determinatamente, esistevano, diciamo pure, botanicamente?
La determinatezza di Pascoli si accampa sempre sopra un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente. Si ricordava poco fa la presentazione di Myricae, con gli uccellini, i cipressi, le campane (o meglio la loro riduzione fenomenica a pura sensazione, «frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane»), che emergono da un fondo, per così dire, di effusione psicologica. O pensate a una poesia che può essere perfettamente citata come allegoria generale del mondo poetico pascoliano: pensate a Nebbia.3 Qui sopra un fondo di fumo o di bruma vedete emergere dei primi piani, precisamente dei primi piani in senso cinematografico, una siepe, una mura, due (due di numero) peschi, e ancora (sempre numerabili) due meli, un cipresso. Ma dei primi piani non si giustificano se non in rapporto a un fondo, a un orizzonte, il quale esso è indeterminato, cioè a dire, per definizione, non se ne sentono e non se ne rappresentano attualmente i limiti: questi oggetti determinatissimi e computabili si situano sopra uno sfondo effuso. E che il fondo generale sia effuso e diffusivo, alta imprecisione qui condizionata da un’alta precisione, è questo un dato che ricollega Pascoli al maggior laboratorio simbolistico.
(Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970)