Fotografie come documenti
Nel 1966, nell’abitazione catanese di Giovanni Verga, sono stati ritrovati ben 448 negativi fotografici – 327 lastre in vetro e 121 fotogrammi in celluloide – impressi dallo scrittore a partire dal 1878. A prima vista si tratta dell’opera di un dilettante: molte sono le sfocature, le “alonature”, le inquadrature sbilanciate.
È tuttavia lecito supporre che quegli scatti non siano l’esito di un semplice passatempo: in accordo con la poetica verista, infatti, Verga è convinto della necessità di riprodurre la realtà rinunciando alla mediazione dell’artista, e non può che essere suggestionato da un congegno che promette fedeltà assoluta e imparziale nel rendere gli ambienti e i personaggi ritratti.
A partire dal 1878 (anno di uscita di Rosso Malpelo: una coincidenza?), Verga prende a immortalare parenti, domestici, amici della terra natia e soprattutto paesaggi, scorci e personaggi che richiamano direttamente la sua produzione letteraria: fattori, contadini, bambini, cacciatori, mendicanti, cameriere e una folla anonima di paesani sono colti nella loro semplicità e nel vivo della quotidianità, inseriti nel loro ambiente utilizzato come un realistico set fotografico. È difficile appurare se quegli scenari (naturali e domestici) e quegli uomini, donne e bambini che vediamo nei suoi documenti in bianco e nero siano serviti effettivamente da modelli per le sue novelle e i suoi romanzi. Resta indubitabile che tra le due espressioni artistiche vi sia una parentela e che i dettagli su cui si sofferma l’obiettivo del fotografo siano gli stessi documentati dalla penna dello scrittore.
Verga non pensa di promuovere questa seconda attività e pubblicare le sue fotografie, che rimarranno per lui un modo per fissare ricordi e affetti. «La camera nera», confida a un amico in una lettera nel 1880, «è una mia segreta mania», ma più tardi, nel 1893, giungerà a definire quest’arte, coltivata quasi in clandestinità, «l’unica mia grande passione».