2 - La rappresentazione degli umili

2 La rappresentazione degli umili

Il contesto scelto da Verga per dare corpo al suo ideale di rappresentazione della realtà è quello popolare siciliano, fissato nella sua memoria e caratterizzato da ataviche strutture morali, culturali e sociali. Riandare a quel mondo, da cui si era allontanato per inseguire il miraggio del successo letterario, significa per l’autore tornare là dove la vita coincide ancora con la lotta quotidiana per la soddisfazione dei più elementari bisogni materiali, dove la sofferenza e le lacrime sono vere e i sentimenti non appartengono a maschere fittizie, ma a uomini e donne in carne e ossa. Come ha messo in evidenza il critico Luigi Russo, la Sicilia – soprattutto quella di Vita dei campi e dei Malavoglia – costituisce un ambiente mitico e anteriore alla Storia, che si sottrae all’estinzione perché rispetta le tradizioni tramandate da generazioni, preserva la famiglia come cellula protettiva di valori e di affetti solidali e non cede alle lusinghe borghesi del denaro.

Nel descrivere questo universo sociale, Verga non a caso attinge, oltre che al proprio ricordo e all’osservazione diretta (tanto da essere anche fra i primi a intuire le potenzialità evocative e documentarie della fotografia, ▶ pp. 202-203), anche alle conoscenze che derivano dalle ricerche sul folclore effettuate sul campo dal più importante raccoglitore e studioso di tradizioni popolari siciliane, l’antropologo palermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916).

Amori, vendette, feste religiose, processioni, favole, indovinelli, proverbi, credenze: per molti aspetti l’opera verghiana rappresenta una sorta di enciclopedia delle manifestazioni e delle usanze custodite dal mondo popolare di marinai, contadini, pastori e minatori, studiate nella loro concretezza storica con scrupolo di scienziato, ma rivissute drammaticamente con l’anima dell’artista, che non si limita a “copiare” il popolo, ma lo interpreta nella sua mentalità e nelle sue convenzioni.

La Sicilia è dunque per Verga il teatro ideale per superare il sentimentalismo degli esordi narrativi e per descrivere l’unico mondo che gli appare vero, quell’universo di umili che combattono per l’esistenza, a modo loro eroi caratterizzati da una decisa caparbietà e da una «rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti», come si legge nella novella Fantasticheria.

La condizione dei personaggi verghiani non può essere mutata, in quanto essi appaiono condannati da un’inesorabile fatalità. I comportamenti di figure tragiche quali Rosso Malpelo e la Lupa non sottintendono mai una ribellione tesa al riscatto; piuttosto questi personaggi agiscono come vittime che scelgono non di migliorare la propria sorte, ma di diventarne in qualche modo esecutori. Essi sono esclusi e “diversi”, in conflitto permanente con la collettività che li rifiuta e li espelle: “anormali” e “deviati”, il loro destino è sempre tragico, poiché li animano un anticonformismo e un coraggio che non possono avere esiti positivi. La loro dannazione si consuma attraverso tradimenti, duelli (come in Cavalleria rusticana), amori maledetti e gelosie, gesti inconsulti e una violenza che esplode repentina e selvaggia.

I personaggi di Verga appartengono alla schiera dei «deboli che restano per la via», tuttavia essi non per questo sono fatti oggetto di pietismo: liquidando il populismo presente nella nostra letteratura tardoromantica, l’autore non concede alle vittime né un aristocratico paternalismo né la vaga consolazione che la sventura patita sia manzonianamente «provvida», perché possibilità di riscatto o di liberazione non esistono, né sulla terra né in cielo.

Disparità sociale

L’alzaia, del pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, viene subito percepita come una forte denuncia sociale delle condizioni dei contadini diseredati e sfruttati dai proprietari terrieri. Un gruppo di braccianti incede con lentezza e fatica, i polpacci sprofondanti nel terreno, e trascina con delle corde una chiatta lungo l’argine di un fiume, la zona chiamata appunto alzaia che dà il titolo alla tela. Gli uomini di fatica indossano abiti scuri, da cui emergono solo le maniche bianche, il cui candore contrasta con la carnagione bruna e scottata dal sole. Solo uno di loro volta il viso verso lo spettatore, mentre gli altri procedono a capo chino. Quasi incoerente, rispetto alla loro fatica, il paesaggio sembra calmo e immobile, così come il padrone sulla sinistra che placido abbraccia la figlia dalla veste candida e con lei scruta l’orizzonte, senza preoccuparsi della fatica dei suoi lavoratori.

3 La concezione pessimistica della vita

La lucida analisi della realtà che Verga compie nella sua opera può, sia pure indirettamente, servire da denuncia della tragica sconfitta che incombe sull’umanità, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Non si pensi tuttavia che egli sia tentato di suggerire proposte consolatorie, possibili illusioni e vie di fuga capaci di offrire alternative alla vita di oggi o di domani. Verga non concepisce alcuna possibilità di riscatto o di emancipazione, perché il dolore non deriva dalle ingiustizie o dal corso della Storia, ma è connaturato al fatto stesso di esistere e per questo riguarda indistintamente tutti gli uomini e tutte le classi sociali.

L’autore anzi esprime una condanna nei confronti di chi tenta di mutare la propria condizione sociale e di affrancarsi dalle proprie origini. L’unica risposta possibile alla situazione di sofferenza è di natura difensiva: nella novella Fantasticheria, per esempio, Verga esalta il «tenace attaccamento di quella povera gente» alla propria terra, ai propri costumi, alla propria mentalità. L’orizzonte dei vinti e dei diseredati sarà sempre chiuso «fra due zolle», al di fuori delle quali ci sono soltanto la rovina e la perdizione: «Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui». È qui enunciato il cosiddetto «ideale dell’ostrica»: come questa, staccata dal proprio scoglio, è destinata a morire, così chi abbandona, rifiuta o tenta di emanciparsi dalle proprie radici è condannato fatalmente a soccombere.

 >> pagina 201

Accettando la teoria darwiniana della “lotta per la vita”, Verga non ripone alcuna fiducia nel progresso, che anzi è visto come una macchina mostruosa, una «fiumana» inarrestabile che travolge i più deboli: per sopravvivere al vortice evolutivo, non resta che ancorarsi alla condizione che si è avuta in sorte, difendendosi da ogni interferenza esterna e da ogni tentazione di alleviare il proprio stato. Il destino che si abbatte sugli uomini è infatti invincibile e immutabile. Inutile è contrapporvisi, confidando in un riscatto impossibile, che sia quello promesso dalla Provvidenza divina, oppure quello garantito dai cantori positivisti della scienza, o ancora quello auspicato dai socialisti mediante la lotta di classe. Si può solamente tentare di mitigarne i colpi e le avversità appigliandosi al lavoro, alla famiglia e ai primitivi codici di saggezza e di sopportazione: una mesta, ma dignitosa rassegnazione rappresenta per Verga l’unico antidoto morale al dolore dell’esistenza e all’urto spietato della civiltà.
Alla concezione positiva della Storia di tradizione illuministica e liberale, Verga oppone dunque «la visione di un caotico e ingovernabile divenire del mondo, che trascende la volontà degli uomini ed è indifferente alla loro sorte, rievocando la severa immagine leo­pardiana di natura» (Martinelli). Di questa sorte, Verga vuole essere il testimone: il suo ateismo materialista lo porta a guardare alla realtà senza concepire per l’individuo alcuna felicità, ma soltanto un orizzonte dominato da una grandiosa e oscura fatalità. Scopo ultimo della sua opera è mostrare il carattere ineluttabile dell’esperienza umana, l’impari lotta che si è costretti a ingaggiare per sopravvivere ai meccanismi della Storia e della natura.

Il magnifico viaggio - volume 5
Il magnifico viaggio - volume 5
Dal secondo Ottocento al primo Novecento