CRITICI A CONFRONTO - Giovanni G. Amoretti - Giorgio Bárberi Squarotti - La “malattia” di Jacopo Ortis: complesso edipico o inettitudine?

CRITICI A CONFRONTO

Giovanni G. Amoretti – Giorgio Bárberi Squarotti

La “malattia” di Jacopo Ortis: complesso edipico o inettitudine?

Il suicidio del protagonista delle Ultime lettere di Jacopo Ortis ratifica tragicamente la sua incapacità di agire positivamente nella realtà. Ma quali sono le radici profonde del disagio che conduce Jacopo Ortis al gesto estremo? Facendo riferimento agli strumenti ermeneutici della critica psicanalitica, Giovanni G. Amoretti (n. 1934) evidenzia le ragioni della sofferenza senza sbocco di Jacopo in un complesso edipico non risolto. In una prospettiva di tipo storico-letterario, invece, Giorgio Bárberi Squarotti (1929-2017) identifica in Jacopo il capostipite di una lunga serie di personaggi romanzeschi, tutti intellettuali inadatti all’azione concreta. A proposito di molti protagonisti della narrativa del Novecento si parlerà di “inettitudine” e di “inetti”, ma in Jacopo Ortis essi hanno un nobile antecedente.

Giovanni G. Amoretti

Le Ultime lettere, considerate nella prospettiva dell’analisi psicologica, confermano il quadro già chiaramente strutturato dai sonetti giovanili. In quelli la situazione si delineava in forma più semplice e diretta; nelle Ultime lettere il disegno si è fatto più articolato e sfumato, ma i motivi fondamentali riappaiono puntualmente confermati.

Volendo schematicamente riepilogarli, diremo che Foscolo si riconosce in Jacopo, la madre di Foscolo nella madre di Jacopo e in Teresa (rispettivamente l’amore donato e l’amore ricevuto), il padre di Foscolo nel Signor T*** e in Odoardo (il potere e il possesso).

[…]

Ma urge una più grave domanda: queste conclusioni di ordine psicologico coinvolgono la lettura, l’interpretazione, la valutazione critica delle Ultime lettere? L’analisi psicologica conclude nell’analisi estetica?

Già Francesco De Sanctis notava come il sentire e l’agire di Jacopo rispecchiassero uno «stato di morboso», ma attribuiva a questa constatazione un significato critico negativo, quasi che la condizione patologica significasse un momento anomalo, accidentale, inautentico dello spirito.

Ma la malattia di Jacopo è la storia stessa di Foscolo: le tenaci emozioni dell’infanzia, i turbamenti della adolescenza rispecchiati e risolti nelle inquietudini di un giovane deluso dagli uomini e dalla vita stessa.

Come potremmo altrimenti spiegarne l’incapacità ad accettare il reale o ad affrontarlo, la sua astratta aggressività, il suo perenne, ossessivo fuggire e la cupa volontà di morte? Non possiamo accontentarci del cliché piccolo-borghese dell’innamorato che lotta solo a parole contro le prime difficoltà, e cede il passo all’altro pretendente, compiacendosi più di lamentarsi che di lottare, di morire che di vivere.

La tragedia passionale di Jacopo, e quindi tutta l’opera di cui è protagonista, ha una dimensione più profonda: l’anelito all’amore totale, la ricerca del frutto proibito, l’ira del Dio geloso, la fuga dall’Eden antico.

[…]

La retorica è a volte un’infida messaggera, ma spesso il gioco spontaneo delle sue «associazioni» verbali, sottratte ai sillogismi dell’intelletto, è sottilmente rivelatore.

In questa contesa impari tra Jacopo e Dio è riconoscibile il conflitto tra Ugo e il padre per il possesso della madre, proiettato in quella dimensione cosmica, che è caratteristica del pensiero infantile. La sfida al padre è la violazione dell’autorità sacra e onnipotente, cui è legata la nostra stessa vita: una colpa smisurata che esige un’adeguata punizione. L’esilio volontario (allontanamento dalla madre) e il suicidio (allontanamento, autopunizione, e anche provocazione e liberazione) sono atti coerenti solo se visti in questa prospettiva.

Prima di morire Jacopo scrive la parola più rivelatrice del libro: espiazione, ma non è necessario attendere lo scioglimento del dramma per comprenderne il significato.


(Giovanni G. Amoretti, Poesia e psicanalisi: Foscolo e Leopardi, Garzanti, Milano 1979)

Giorgio Bárberi Squarotti

La lotta di Jacopo è quella dell’intellettuale, non quella dell’eroe della passione o quella dell’eroe dell’azione. In questo senso egli rappresenta il primo esempio dell’intellettuale senza opere, che risolve nel rovello interiore e nella meditazione critica il fervore che non riesce a tradurre in scrittura; e, infatti, Jacopo «parla» attraverso il monologo delle lettere, immediatamente espone l’estremo della sua disperazione, non la media nella scrittura: di qui l’eccessività di tutto il discorso di Jacopo, che volutamente non è risolto nella forma allontanata e purificata della contemplazione, e la letterarietà che lo sorregge non è per effetto della mediazione della scrittura ma, anzi, per accompagnare più efficacemente la forma del monologo davanti al vuoto scenario di un mondo vile e volgare e, quindi, inesistente di fronte alla grandezza dell’eroe.

Parlando alla visita ai sepolcri di Santa Croce, Jacopo, appunto, dichiara la sua separazione dalla scrittura, cioè la scelta dell’esercizio critico, della riflessione sui fatti privati come pubblici, dell’analisi sull’elaborazione formale, dell’esplicazione sull’espressione, nonostante tutto il fervore anche violento di passionalità (ma sempre analizzata e giustificata) che pur pervade il suo monologo: «Presso a que’ marmi mi parea di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand’io vegliando su gli scritti de’ grandi mortali, mi gittava con la immaginazione fra i plausi delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per me – e pazze forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui – nel profondo». Una lunga tradizione di intellettuali negati all’azione e alla scrittura enumererà, dopo Jacopo, la nostra letteratura (da Corrado Silla e Giorgio Aurispa, Alfonso Nitti e il Corrado de La casa in collina pavesiana e il protagonista della Dissipatio H. G. di Morselli):1 e Jacopo ne è il capostipite, ma con un impegno e una coscienza del carattere critico e riflesso che deriva necessariamente dall’impossibilità di scrivere e di agire, quali i successori letterari non avranno più, e anche con una chiarezza estrema del significato tragico che ha, per l’intellettuale, la rinuncia ai «plausi delle generazioni future», cioè alla scrittura, come già improponibile è apparsa e di nuovo apparirà, per la definitiva smentita nel colloquio con Parini, l’azione nella storia e nella società.


(Giorgio Bárberi Squarotti, Le maschere dell’eroe. Dall’Alfieri a Pasolini, Milella, Lecce 1990)

PER SCRIVERNE

Sulla base dei brani letti del romanzo foscoliano e delle indicazioni fornite dai due contributi critici qui sopra riportati, traccia un ritratto psicologico di Jacopo, in cui vengano evidenziati i pregi e i limiti del personaggio.

Il magnifico viaggio - volume 4
Il magnifico viaggio - volume 4
Il primo Ottocento