Dopo aver vagato senza meta attraverso l’Italia, Jacopo giunge, all’inizio del 1799, al confine di Ventimiglia. Da qui egli aveva pensato di entrare in Francia; poi però cambia idea e prende la decisione di tornare ai colli Euganei. Scrive così una lettera – di cui riportiamo la seconda parte – nella quale lo spettacolo della natura gli suggerisce un’approfondita riflessione sulla tragicità della condizione umana.
T5 - La lettera da Ventimiglia
T5
La lettera da Ventimiglia
Ultime lettere di Jacopo Ortis, Parte seconda
DENTRO IL TESTO
I contenuti tematici
Dopo un inquieto e drammatico girovagare, Jacopo è giunto ai confini dell’Italia. Solo tra le montagne, nella prima parte della lettera descrive il paesaggio desolato che lo attornia. È una visione intensamente romantica: rocce, luoghi deserti e inospitali, nei quali la natura rispecchia il proprio carattere maestoso e severo, ma soprattutto cupo. Il freddo vento di tramontana spazza le cime piene solo di sterpi e delle croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati (r. 3): l’imponenza minacciosa di una natura personificata mostra il suo volto ostile, specchio fedele delle implacabili crudeltà che si abbattono sull’esistenza umana. Nelle altissime rupi e nei burroni cavernosi (r. 8), nei bronchi e negli aspri e lividi macigni (rr. 2-3) si riconoscono i paesaggi preromantici descritti da Macpherson e da Alfieri: ma in Foscolo l’aspetto esteriore degli elementi naturali prelude a una meditazione sconsolata sulla violenza di cui è fatta la Storia, vista come una sanguinosa sequenza di stragi.
Il contrasto con la società non trova risarcimento nelle consolazioni della solitudine: lo spettacolo della natura, che ammalia molti artisti del tempo di Foscolo, è percepito come desolazione e orrore e non concede requie a un’anima condannata a nuotare nella sofferenza. Il sublime romantico, che di norma si presenta nella dialettica tra piacere e dolore, esaltazione e umiliazione, qui sottolinea solo l’impotenza umana, senza neanche l’effimero conforto di un’illusione di pace. La fusione tra uomo e natura è un dolce miraggio, che non cancella la violenza della realtà: le tinte forti, quasi eccessive, del paesaggio costituiscono il simbolo di uno squilibrio senza rimedio, destinato a opprimere l’individuo e a condannarlo a una morsa stritolante di insensatezza.
La contemplazione dei confini della patria induce Jacopo a riflettere sconsolato sulle condizioni dell’Italia, umiliata dalle invasioni straniere e ormai dimentica delle passate glorie. Il motivo medievale dell’ubi sunt (cioè del “dove sono”, del rimpianto dei valori perduti) caratterizza il patriottismo di Ortis, nel confronto tra un passato di grandezza eroica e un presente di indecorosa e vile schiavitù. Ma è inutile, e anzi accentua la sofferenza, contrapporre al torpore di oggi la forza e la fierezza di un tempo: gli esempi storici gloriosi non servono da pungolo per risvegliare il popolo italiano dalla sua stanchezza e dal suo antico letargo (r. 25).
D’altra parte, gli uomini obbediscono – più che alla loro volontà – a un destino universale, decretato da un ordine meccanico che impone in eterno la presenza di vittime e oppressori, di popoli sottomessi e popoli prevaricatori. Sulla linea di pensatori e filosofi quali Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, Foscolo non devia da una visione pessimistica della Storia, basata sull’idea della malvagità innata della natura umana e sul carattere violento del potere.
Per questo la riflessione sulla situazione personale e su quella della penisola inevitabilmente si allarga a una dimensione cosmica, eterna, contrassegnata da un disperato fatalismo: sempre gli imperi si sono avvicendati, la Storia è un oceano di sangue e patimento, all’uomo non resta che accettare una condizione che di volta in volta può renderlo schiavo o tiranno, in base a quella logica ciclica a cui, secondo l’insegnamento di Giambattista Vico, sono sottoposti gli individui e la civiltà.
All’io non rimane dunque che abbandonare ogni residua e ottimistica velleità circa le possibilità concesse al proprio agire. La virtù stessa è fonte di illusioni: nessun ideale può sconfiggere la sofferenza. Le speranze di Jacopo si infrangono a contatto con la sua consapevolezza: che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? (r. 16); e ancora: la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati (rr. 35-36). Il mito dell’eroismo individuale, che pure aveva fatto breccia nel suo spirito avido di belle gesta, è ormai superato e perfino demistificato: poiché anche le nobili azioni del singolo finiscono per diventare strumento della legge del più forte, l’unica via di uscita è l’estrema liberazione dalla vita. A confortare il protagonista rimane solo il pensiero che morendo in patria potrà almeno essere ricordato e pianto da quei pochi deboli e sventurati (r. 69) i quali, dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita (r. 70), condividono con lui la virtù della compassione.
Le scelte stilistiche
Le domande, sempre più disperate, si affollano nella mente di Jacopo. La forza delle espressioni, delle invocazioni, delle invettive diventa tanto più intensa quanto più si affievoliscono le sue energie, fiaccate dalle molteplici delusioni. Anche in questo caso il tono è quello di un monologo teatrale, in cui i pensieri vengono espressi in forma concitata, senza soluzione di continuità, con qualche sconfinamento nell’enfasi. Passato e presente si fondono, in un discorso che alterna slanci e pause riflessive nello snodarsi dei vari argomenti, dall’intonazione tragica e declamatoria dell’apostrofe iniziale all’Italia al pathos lirico ed effusivo che si distende nella parte finale della lettera.
A prevalere è un ritmo in cui periodi brevi e connessi paratatticamente lasciano spazio a frasi più ampie e articolate; stabile è invece il registro espressivo, sempre tendente al sublime, con la consueta e naturale disposizione alla declamazione, come si vede dall’abbondanza di interrogative dirette, di esclamazioni e apostrofi indirizzate dal protagonista ora a sé stesso (Tu hai una madre e un amico, rr. 75-76), ora all’interlocutore reale (Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù?, r. 69), ora infine ad allocutori fittizi (l’Italia, la Compassione, la Natura).
VERSO LE COMPETENZE
Comprendere
1 Dopo aver contestualizzato il passo all’interno della vicenda del romanzo, sintetizzalo brevemente, distinguendo i temi fondamentali su cui riflette Jacopo.
Analizzare
2 In quale punto del testo Jacopo passa dalla riflessione sulla natura a quella sulla Storia? Esplicita il collegamento tra i due piani.
3 Nella lettera è introdotto il tema del sepolcro. Quale dimensione prevale, individuale-affettiva o etico-collettiva? A quale altro fondamentale tema foscoliano è collegato?
4 Quali immagini caratterizzano la rappresentazione della Storia? Quale concezione ne emerge?
5 Qual è l’unica possibile consolazione alle sventure di Jacopo?
6 Fai alcune considerazioni sullo stile e sulle strategie retoriche di questo passo: a quale tono complessivo contribuiscono?
Interpretare
7 Analizza la rappresentazione del paesaggio nella prima parte del testo. Quali tratti lo caratterizzano?
8 Noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve (rr. 50-51): spiega il significato di questa espressione e la visione della Storia a cui esso rimanda.
9 Quale idea della religione trasmettono le riflessioni di Jacopo?
10 Quale concezione della natura emerge dal passo?
Educazione CIVICA – Spunti di realtà
Lo spettacolo della natura induce Jacopo a una profonda riflessione sulla condizione umana in generale, e sulla situazione della sua patria in particolare. Si tratta di un pensiero doloroso, per la tragicità degli eventi che coinvolgono l’Italia e che si riflettono drammaticamente sulla vita stessa del protagonista del romanzo.
• Imitando lo stile oratorio foscoliano, esprimi in circa 30 righe alcune tue considerazioni sulle condizioni dell’Italia di oggi, sottolineando i problemi che ti sembrano più gravi e urgenti.
Il magnifico viaggio - volume 4
Il primo Ottocento