T16 - Don Abbondio dinanzi al cardinal Borromeo

T16

Don Abbondio dinanzi al cardinal Borromeo

I promessi sposi, cap. 26

In visita al paese dei promessi sposi, il cardinale Federigo Borromeo incontra prima Agnese e Lucia, poi don Abbondio, al quale chiede come mai non abbia celebrato le nozze. Il sacerdote dapprima tenta di giustificarsi, ma presto deve ammettere di aver ricevuto delle minacce. Subisce allora una solenne requisitoria dal cardinale, che lo accusa di aver mancato ai suoi doveri, di non averlo avvertito, di aver mentito ai giovani, tacendo le vere motivazioni del suo improvviso rifiuto. Don Abbondio tra sé mastica amaro, ma deve fare buon viso a cattivo gioco.

«I pareri di Perpetua!»1 pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a
que’ discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di que’ bravi, e il
pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l’altro, tornerebbe glorioso
e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel
5      linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutessero un certo timore, era però
un timore che non lo soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare:
perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né
schioppo, né spada, né bravi.
«Come non avete pensato», proseguiva questo, «che, se a quegli innocenti insidiati
10    non fosse stato aperto altro rifugio, c’ero io, per accoglierli, per metterli in
salvo quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo,
come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze?
E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non
dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non
15    avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita?2 Ma quell’uomo che fu tanto
ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire,3 quando avesse
saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto
d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate
che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia
20    anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere?4 Non sapevate che
l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo
spavento altrui?».
«Proprio le ragioni di Perpetua», pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere
che quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si
25    sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
«Ma voi», proseguì e concluse il cardinale, «non avete visto, non avete voluto
veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale,
da trascurar per esso ogni altra cosa?».
«Gli è perché le ho viste io quelle facce», scappò detto a don Abbondio; «le ho
30    sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe
esser ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto».
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s’accorse d’essersi lasciato
troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: «ora vien la grandine». Ma alzando
dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell’uomo,
35    che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare,
da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa.
«Pur troppo!», disse Federigo, «tale è la misera e terribile nostra condizione.
Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo
pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo
40    noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s’io
dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio
insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri
l’esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che
non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito. Ebbene, figliuolo e
45    fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri
che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto,5
trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché,
dov’è mancato l’esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente
le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia
50    bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi
e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono».
«Oh che sant’uomo! ma che tormento!», pensava don Abbondio: «anche sopra
di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé». Disse poi ad
alta voce: «Oh, monsignore! che mi fa celia?6 Chi non conosce il petto forte, lo
55    zelo imperterrito7 di vossignoria illustrissima?». E tra sé soggiunse: «anche
troppo».
«Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare», disse Federigo, «perché Dio
conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch’io, basta a confondermi.
Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui, per confidare
60    insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra condotta sia
stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge che pur predicate,
e secondo la quale sarete giudicato».
«Tutto casca addosso a me», disse don Abbondio: «ma queste persone che son
venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essersi introdotte in casa mia, a tradimento,
65    per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole».
«Me l’hanno detto, figliuolo: ma questo m’accora, questo m’atterra,8 che voi
desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate
materia d’accusa da ciò che dovrebb’esser parte della vostra confessione. Chi gli
ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto?
70    Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata
chiusa? pensato a insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia,
aiutati, consigliati da lui? a sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi
date carico?9 e vi sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della
sventura, abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso
75    dell’oppresso, la querela dell’afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale;10 ma
noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto che la
loro causa andasse intera al giudizio di Dio?11 Non è per voi una nuova ragione
d’amar queste persone (e già tante ragioni n’avete), che v’abbian dato occasione di
sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v’abbian dato un mezzo di conoscer
80    meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se v’avessero
provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d’amarli, appunto per
questo. Amateli perché hanno patito, perché patiscono, perché son vostri, perché
son deboli, perché avete bisogno d’un perdono, a ottenervi il quale, pensate di
qual forza possa essere la loro preghiera».
80    Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente:
stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran
conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica però nella
sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del quale
l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un’impressione nuova.
85    E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa
paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere
di sé, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione.
Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato
d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma,
90    schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male,
brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il pensiero
di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il
cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
«Ora», proseguì questo, «uno fuggitivo da casa sua, l’altra in procinto d’abbandonarla,
95    tutt’e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di
riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove; ora, pur troppo,
non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del
bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne alcuna nell’avvenire. Ma chi sa se
Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state
100 alle velette,12 pregatelo che le faccia nascere».
«Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero», rispose don Abbondio,
con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
«Ah sì, figliuolo, sì!», esclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto, concluse:
«lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Tutt’e due
105 abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con
rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci
insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri guai, parlando della beata speranza,13
alla quale siamo arrivati così vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur
dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non fate che m’abbia a chieder conto,
110 in quel giorno,14 d’avervi mantenuto in un ufizio,15 al quale avete così infelicemente
mancato. Ricompriamo16 il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non
può tardare; teniamo accese le nostre lampade.17 Presentiamo a Dio i nostri cuori
miseri, vòti,18 perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato,
che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che
115 diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno».
Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Ancora una volta Manzoni utilizza il dialogo come strumento per far meglio risaltare l’indole dei personaggi. Dopo aver fronteggiato uno spirito alla sua altezza (l’Innominato), determinandone la conversione, il cardinale si trova ora dinanzi un uomo come don Abbondio. La sua mediocrità fa risaltare il profilo di Federigo Borromeo, un autentico eroe della fede senza macchia e senza paura, teso a realizzare nella vita quotidiana i princìpi evangelici: un uomo che, pur appartenendo a una nobile e potente famiglia, ha sempre rifiutato i privilegi e praticato una rigorosa umiltà, intendendo – a differenza del suo interlocutore – la carriera ecclesiastica come servizio al prossimo.

«La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume»: questo, almeno, è il profilo che gli ha attribuito il narratore nella lunga digressione che occupa il capitolo 22. Non si tratta di una ricostruzione movimentata e drammatica, come nel caso di fra Cristoforo (cap. 4) o di Gertrude (capp. 9-10), ma di un panegirico, cioè di un elogio, senza concessioni agli aneddoti pittoreschi e agli avvenimenti che ne fanno una figura storicamente non priva di chiaroscuri (ebbe, per esempio, parte attiva in vari processi per stregoneria).

Il cardinale Borromeo che Manzoni ritrae in posa è forse il personaggio del romanzo più lontano dai gusti del lettore moderno, attratto invece da don Abbondio, più artisticamente complesso. Egoista, stizzoso, codardo, amante del quieto vivere e perciò servile con i potenti, il parroco cerca in ogni modo di schivare i pericoli. D’altronde, come osserva egli stesso con un memorabile anacoluto, «il coraggio, uno non se lo può dare». È un’ammissione di viltà, propria di un personaggio al quale preme soprattutto sopravvivere, del tutto disinteressato – nonostante il suo ruolo – a prospettive ultraterrene. Ma al tempo stesso tale pusillanimità è un tratto profondamente umano, che ha suscitato la simpatia di tanti lettori anche illustri, come Carlo Emilio Gadda (1893-1973). Il grande scrittore novecentesco si identificava in don Abbondio, «per la sua povertà disarmata, la sua paura fisica, la sua ragione stessa d’aver paura». Non si capirebbe la condotta di vita del pavido sacerdote, in effetti, se non si tenesse presente l’orizzonte di violenze e ingiustizie in cui si inserisce, «vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di vasi di ferro».

Manzoni costruisce una vera e propria requisitoria del cardinale, che incalza il suo sottoposto, ma senza capirne appieno l’indole. Come ha scritto Luigi Russo, «il cardinale fraintende sempre don Abbondio, lo fraintende generosamente: in questa sua sublime ottusità di magnanimo, che non riesce a rendersi conto dei piccoli pensieri del piccolo uomo, sta tutta la sua più vera grandezza di personaggio». Viceversa, il sacerdote non comprende i princìpi del suo superiore. Nel capitolo 25, all’inizio del colloquio, viene rappresentato «a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata». Neppure Federigo Borromeo riesce nell’impresa di convertire al Vangelo don Abbondio, che – a differenza di Renzo, il quale nel corso del romanzo subisce una profonda evoluzione – si conferma sino in fondo quello che era all’inizio della vicenda.

La reciproca incomunicabilità pare incrinarsi solo nel finale, quando don Abbondio giunge a un certo rimorso, non originato tuttavia da una lucida consapevolezza dei propri peccati. Si tratta di un momentaneo ravvedimento, un semplice guizzo di umanità che spunta in un misto di tenerezza e di confusione (r. 92). Il cardinale se ne accorge e lo commisera; in un ennesimo slancio di umiltà auspica una comune attesa della misericordia divina: il che però non gli impedisce di far balenare a don Abbondio la punizione che gli ha risparmiato, ovvero la rimozione dalle mansioni sacerdotali, inevitabile in caso di ulteriori mancanze.

Le scelte stilistiche

Più che una conversazione, Manzoni compone un prolungato esercizio oratorio del cardinale, al quale concede lunghi turni di parola, atti a dimostrarne non solo la bontà d’animo, ma anche l’eloquenza. A questo scopo lo stile si impenna verso il sublime, grazie non tanto al lessico ricercato, quanto alla sintassi, dove abbondano periodi complessi, interrogative retoriche, esortazioni. Tutt’altro è il trattamento riservato a don Abbondio, al quale vengono attribuite brevi battute, sempre commentate dal narratore.

Ne scaturisce un controcanto sistematico, scandito dalle riflessioni di don Abbondio tra sé e sé, in cui emerge la stizza verso Perpetua, unita all’incomprensione verso il suo interlocutore e verso i princìpi di fede che egli rammenta. Nelle sue elucubrazioni don Abbondio sfiora addirittura la blasfemia, nel momento in cui attribuisce al suo timore del ritorno di don Rodrigo, glorioso e trionfante (rr. 3-4), due aggettivi di norma riferiti alla risurrezione di Cristo. Anche l’integrità e il coraggio del cardinale, che pure riconosce senza riserve, sembrano al cauto parroco una forma di esagerazione (anche troppo, rr. 55-56); e la sua preoccupazione più grave non riguarda i propri errori passati ma il timore delle conseguenze presenti (ora vien la grandine, r. 33). Per dare evidenza a questi orientamenti, solo in ultimo parzialmente abbandonati, Manzoni ricorre come di consueto a una suggestiva similitudine, paragonando il sacerdote allo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia (rr. 93-96).

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essersi introdotte in casa mia, a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole (rr. 63-65): a chi e a che cosa si riferisce don Abbondio?

Analizzare

A chi è rivolta la stizza di don Abbondio e per quali ragioni?


Come mai il cardinale non si scompone, dinanzi alle uscite sgarbate di un sottoposto gravemente colpevole?

Interpretare

4 Oh che sant’uomo! ma che tormento! […] anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé (rr. 52-53): commenta questa affermazione di don Abbondio relativa al cardinale.


Il cardinale Borromeo usa argomenti non solo spirituali ma anche pratici, enumerando una serie di ragioni che coincidono con quelle espresse da Perpetua, la serva di don Abbondio. Enumera quali sono e spiega in che rapporto sta questa coincidenza di vedute con la concezione manzoniana del cristianesimo.

scrivere per...

raccontare

Le risposte di don Abbondio alle parole del cardinale sono quanto mai vaghe ed elusive. Mettiti nei panni del curato ed elabora una serie di risposte articolate ed efficaci che invece “tengano testa” alle accuse del cardinale.

Dibattito in classe

7 Come giudicare l’atteggiamento di don Abbondio? È lecito provare indulgenza o non si può fare a meno anche questa volta di censurare la sua condotta? Dividetevi tra innocentisti e colpevolisti e confrontate in classe i diversi punti di vista.

Il magnifico viaggio - volume 4
Il magnifico viaggio - volume 4
Il primo Ottocento