Le tragedie

Le tragedie

Decisivo, nella vita e nella produzione di Alfieri, è l’interesse per il teatro. Oltre che di 6 commedie (di non eccelsa qualità e anche per questo di scarso interesse per il lettore odierno), lo scrittore piemontese è autore soprattutto di 19 tragedie (se si considerano solo quelle da lui approvate: il primo dramma, Antonio e Cleopatra, viene infatti ripudiato). La loro composizione inizia nel 1775, anno della conversione letteraria, e si conclude nel 1786. Prima stese in prosa e poi verseggiate in endecasillabi sciolti, sono tutte divise in cinque atti.

Come si evince dai titoli, i protagonisti di queste opere sono personaggi storici e mitologici, che portano sulla scena il dramma irrisolvibile di una coscienza contrastata e il rapporto travagliato con gli altri, alla spasmodica ricerca di una libertà concreta e interiore. La scelta dei temi e l’analisi delle forze oscure che caratterizzano l’io eroico dei personaggi anticipano molti tratti propri del Preromanticismo e della piena stagione romantica.

Comprendendo che in Italia mancava una tragedia degna di quella antica, Alfieri guarda prevalentemente ai modelli del passato – i grandi tragediografi greci e romani (Eschilo, Sofocle, Euripide, Seneca…), ma anche l’esempio più recente del francese Racine – sia a livello strutturale sia sul piano stilistico. Per quanto riguarda la struttura, si mantiene fedele alle cosiddette unità aristoteliche (di tempo, di luogo e d’azione), che gli consentono di concentrare la vicenda in un arco di tempo breve e di ridurre l’intreccio agli elementi essenziali, caratteristiche che rendono compatti i suoi drammi.

A una tragedia con personaggi trascinati da potenti emozioni e dall’ansia di libertà si addice uno stile aulico e sostenuto, con un lessico ricercato e una sintassi articolata. Nell’endecasillabo alfieriano dominano le inversioni, i contrasti, gli enjambement: la struttura della frase è continuamente franta, per rispecchiare al meglio l’interiorità disgregata e problematica dei personaggi. Qui di seguito passeremo in rassegna le tragedie più significative.

Le tragedie del ciclo tebano

A episodi e motivi legati al ciclo mitico tebano (ispirato alle vicende di Edipo, re di Tebe, e dei suoi discendenti) si riferiscono le tragedie Polinice (1781) e Antigone (1783).

Polinice

L’azione è incentrata sul dramma dei due fratelli Eteocle e Polinice, che si scontrano per conquistare il trono di Tebe. L’odio che li anima è feroce e non permette altra soluzione che la morte. Le fonti della tragedia sono La Tebaide del poeta latino Stazio e La Thébaïde ou les frères ennemis (La Tebaide o i fratelli nemici) del tragediografo francese Racine.

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Antigone

L’opera riprende la vicenda narrata dal tragediografo greco Sofocle. Antigone, frutto del rapporto incestuoso tra Edipo e la madre Giocasta, pretende a ogni costo di dare sepoltura al fratello Polinice, che il sovrano Creonte, una volta conquistato il potere, vorrebbe lasciare insepolto. Creonte propone poi ad Antigone di prendere in sposo suo figlio Emone, ma l’eroina preferisce la morte, assecondando così un oscuro impulso che la domina da sempre.

Le tragedie del ciclo degli Atridi

Le vicende del ciclo degli Atridi (i discendenti di Atreo, re di Micene) ispirano l’Agamennone e l’Oreste (entrambe del 1783).

Agamennone

Inizialmente intitolata La morte di Agamennone, la tragedia è ispirata alle opere di Eschilo e di Seneca, che all’eroe greco avevano intitolato ciascuno una tragedia. Clitennestra, moglie di Agamennone, si innamora del figlio di Tieste, Egisto, e si lascia convincere da lui a uccidere il marito, in modo da assicurare all’amato l’ascesa al potere. Egisto non riuscirà però a far uccidere anche il figlio di Agamennone, Oreste (che viene tratto in salvo dalla sorella Elettra), così da eliminare qualsiasi pretendente al trono.

Oreste

È una sorta di continuazione dell’Agamennone. Il protagonista intende vendicarsi dell’omicidio del padre uccidendo il nuovo compagno della madre. Sconvolto da ira e furore, Oreste uccide Egisto e, involontariamente, anche la madre, rimanendo eternamente sconvolto dall’orrore del suo gesto matricida.

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Le tragedie di argomento romano

Alla storia romana fanno riferimento l’Ottavia (1783), il Bruto primo e il Bruto secondo (entrambe del 1789).

Ottavia

La tragedia nasce dalla lettura dell’opera dello storico latino Tacito e dell’omonima tragedia di autore ignoto (ma a lungo attribuita a Seneca). Agrippina, madre di Nerone e poi sposa dell’imperatore Claudio, fa di tutto per far ottenere al figlio la successione al trono. Per raggiungere il suo obiettivo, convince anche Claudio a dare in sposa la figlia Ottavia a Nerone. Costui, però, finirà per preferirle Poppea, ripudiando Ottavia con l’accusa di averlo tradito: accusa che quest’ultima, innocente, non sopporterà, e che la spingerà a darsi la morte.

Bruto primo

Protagonista di quest’altra tragedia storica è Lucio Giunio Bruto, a cui Tarquinio il Superbo, l’ultimo re di Roma, ha assassinato il padre e il fratello. L’ulteriore offesa compiuta dal figlio del re, Sesto Tarquinio, nei confronti della matrona Lucrezia (moglie di Collatino) suscita lo sdegno e l’ira di Bruto, che aizza il popolo romano contro il tiranno, decretando la fine della monarchia e l’inizio della repubblica.

Bruto secondo

Fonte principale di questa tragedia sono le Vite parallele di Plutarco, e l’episodio al centro della storia è l’assassinio di Giulio Cesare. Bruto è tra i congiurati che considerano Cesare una minaccia per le istituzioni repubblicane, a causa dell’eccessivo potere che ha accumulato nelle sue mani. L’animo di Bruto è sconvolto quando Cesare gli confida di essere suo padre; ciononostante decide di restare insieme agli altri congiurati e di compiere il parricidio, il gesto estremo che conclude la tragedia.

Le «tragedie della libertà»

Alfieri definisce «tragedie della libertà» le opere Virginia (1781), Timoleone (1783) e La congiura de’ Pazzi (1788), in cui domina l’argomento politico.

Virginia

Il decemviro Appio Claudio si invaghisce della protagonista, Virginia, sposa promessa al tribuno Icilio, e trama inganni per averla. Nonostante la generale indignazione, Appio riesce a tiranneggiare Virginia, finché il padre, improvvisamente, la uccide, preferendo vederla morta che in preda ai desideri di un uomo autoritario e violento.

Timoleone

A differenza di quanto avviene nelle altre tragedie alfieriane, qui non si contrappongono un eroe positivo e uno negativo. Timoleone partecipa a una congiura contro il fratello Timofane, tiranno di Corinto, per restituire la libertà alla città. Ma quando quest’ultimo, essendo stato colpito da un congiurato, sta per morire, perdona Timoleone in nome dell’affetto fraterno.

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La congiura de’ Pazzi

Alfieri trae spunto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, dove si racconta della congiura che la famiglia di banchieri dei Pazzi ordì contro i Medici, con l’intento di porre fine al loro dominio su Firenze. La congiura fallisce e Raimondo, il suo principale artefice, si uccide per non finire nelle mani di Lorenzo il Magnifico.

I capolavori

Nelle due tragedie più importanti, il Saul e la Mirra, Alfieri riversa la sua più intima vocazione a descrivere le drammatiche conseguenze di un io diviso tra il desiderio d’amore e la pulsione di morte, tra la passione e il senso di colpa. Eroi innocenti e responsabili al tempo stesso, Saul e Mirra pagano fino in fondo il prezzo di sentimenti e desideri impossibili, destinati a farli precipitare nella rovina.

Saul

Il primo dei due capolavori alfieriani viene scritto nel 1782. Il soggetto non è tratto dalla storia o dal mito classico, ma dalla Bibbia, anche se l’autore ne fa un dramma psicologico anziché religioso.

Il protagonista è l’anziano re di Israele, Saul, che deve fronteggiare una crescente perdita di consenso e di fiducia da parte del popolo e dei suoi stessi familiari. Il profeta Samuele, dopo che il re ha risparmiato un nemico sconfitto, reputa Saul ribelle al volere divino e consacra nuovo re il più giovane David. Costui è una figura estremamente carismatica, in cui Saul vede il contraltare della propria decadenza e della propria progressiva mancanza di forze. Nonostante David sia leale e fedele al sovrano, questi si sente minacciato dal giovane e perciò lo bandisce dal regno, accusandolo di tradimento.

Saul cade preda di una paura e di una follia che provengono dal suo stesso animo e che niente e nessuno possono più placare: è tormentato da visioni e sogna congiure contro la sua persona, e così, dopo aver riammesso in patria David, lo caccia una seconda volta. Alienatosi il favore di tutti – specialmente dell’amata figlia Micol, sposa di David – e ormai completamente solo, Saul sfrutta l’ultimo barlume di lucidità per togliersi la vita, reputando questa l’unica soluzione praticabile per conservare la dignità di padre e di re.

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L’opera si allontana dal consueto schema delle tragedie alfieriane, in cui si contrappongono tiranni e vittime. Saul è una figura eccezionale, perché incarna entrambi i ruoli: è vittima e tiranno di sé stesso, essendo incapace di accettare i propri limiti e di rispettare i dettami della natura e di Dio.

La tragedia è povera di azione, essendo focalizzata sull’analisi delle oscillazioni dell’animo del protagonista, la cui interiorità occupa il centro della scena. Saul è un eroe moderno, che anticipa, grazie alla profondità psicologica che Alfieri ha saputo donargli, la complessità degli eroi romantici, lacerati da contraddizioni, desideri inappagabili e paure ancestrali.

Mirra

Composta nel 1784, la Mirra trae origine dall’omonimo mito raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi. Nella versione del poeta latino, però, la protagonista è eloquente e risoluta nell’affrontare il suo terribile dramma: ardentemente innamorata del padre, percepisce l’orrore del proprio sentimento incestuoso, che cerca con forza di allontanare. In Alfieri, a parte l’amore per il padre Ciniro, quasi tutto è diverso rispetto alla fonte classica: l’eloquenza di Mirra è sostituita da un muro di silenzio e di reticenza che non le permette di confidare a nessuno i propri sentimenti. Il suo travaglio interiore esplode però drammaticamente proprio nel giorno del suo matrimonio con Pereo, l’uomo che intende sposare nella speranza di scongiurare l’ossessione incestuosa. Quando il padre viene a conoscenza dell’amore di cui egli stesso è oggetto, Mirra si scaglia contro la spada del genitore, preferendo la morte alla vergogna per il sentimento tanto riprovevole da cui non è mai riuscita a liberarsi.

Il dramma della protagonista è completamente interiorizzato: l’azione è scarna ed essenziale, perché tutto accade nella mente di Mirra, sempre più sconvolta da una passione impura. A scontrarsi non sono personaggi in carne e ossa, ma le violente pulsioni che si danno battaglia nell’animo della protagonista che le vive in una solitudine tragica e amplificate dalla consapevolezza dell’abominio di un amore empio.

Alfieri spinge fino all’estremo il tentativo di Mirra di nascondere l’imperdonabile segreto, facendola poi precipitare nel delirio e nel suicidio, vissuto come una catastrofe liberatoria. Proprio per questo la donna suscita una paradossale pietà: la sua giovinezza, la passione di cui è vittima e il tentativo di soffocare i fantasmi della sua coscienza alterata la rendono innocente agli occhi del lettore, martire involontaria di un sentimento che sconvolge l’ordine naturale e morale della vita.

Il magnifico viaggio - volume 3
Il magnifico viaggio - volume 3
Il Seicento e il Settecento