T1 - Contro la tortura

T1

Contro la tortura

Dei delitti e delle pene, parr. 12 e 16

In questi due paragrafi Beccaria delinea alcuni dei princìpi cardine del moderno diritto penale, a partire dal rifiuto della barbarie della tortura: una prassi non solo feroce e selvaggia, ma anche inefficace ai fini dell’ottenimento di prove certe di colpevolezza.

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Audiolettura

12. Fine delle pene

Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli1 è evidente che il 

fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare2 

un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico,3 che, ben lungi di agire per 

5      passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare4 

questa inutile crudeltà stromento5 del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? 

Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già 

consumate? Il fine6 dunque non è altro che d’impedire il reo7 dal far nuovi danni 

ai suoi cittadini e di rimuovere8 gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e 

10    quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà 

una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno 

tormentosa sul corpo del reo.


16. Della tortura

Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la  tortura del reo 

15    mentre si forma9 il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per

le contradizioni10 nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so 

quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia,11 o finalmente per altri 

delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società 

20    può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia 

violati i patti coi quali le fu accordata.12 Quale è dunque quel diritto, se non quello 

della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, 

mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto 

è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed 

25    inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non 

devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui 

delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutt’i 

rapporti13 l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato,14 

che il dolore divenga il crociuolo15 della verità, quasi che il criterio di essa risieda 

30    nei muscoli e nelle fibre di un miserabile.16 Questo è il mezzo sicuro di assolvere i 

robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di 

questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale,17 che i Romani, 

barbari anch’essi per più d’un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una 

feroce e troppo lodata virtù.18

35    […] Non è difficile il rimontare19 all’origine di questa ridicola legge, perché 

gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche 

relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima.20 Sembra 

quest’uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i 

pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura 

40    che le macchie contratte dall’umana debolezza e che non hanno meritata l’ira 

eterna del grand’Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate;21 

ora l’infamia è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie 

spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della tortura non toglieranno la 

macchia civile che è l’infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni 

45    tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, 

perché nel misterioso tribunale di penitenza22 la confessione dei peccati è parte 

essenziale del sagramento.23

[…] La tortura […] si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in 

contradizione, quasi che il timore della pena, l’incertezza del giudizio, l’apparato24

50    la maestà del giudice, l’ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl’innocenti, 

non debbano probabilmente far cadere in contradizione e l’innocente che 

teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini 

quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione25 dell’animo 

tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall’imminente pericolo.

55    Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente 

dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove 

del fuoco e dell’acqua bollente26 e l’incerta sorte dell’armi,27 quasi che gli anelli 

dell’eterna catena, che è nel seno della prima Cagione, dovessero ad ogni momento 

essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani.28 La sola 

60    differenza che passa fralla29 tortura e le prove del fuoco e dell’acqua bollente, è che 

l’esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un 

fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non 

reale. È così poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era 

allora l’impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell’acqua bollente. […]

65    L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente 

scuopresi30 all’aria,31 al gesto, alla fisonomia d’un uomo tranquillo, molto 

meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i 

segni, per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta,

loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime 

70    differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.

Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non 

trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità;32 

queste dall’Inghilterra,33 nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità 

del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtù e di 

75    coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata abolita 

nella Svezia,34 abolita da uno de’ più saggi monarchi dell’Europa,35 che avendo 

portata la filosofia sul trono, legislatore amico de’ suoi sudditi, gli36 ha resi uguali 

e liberi nella dipendenza delle leggi,37 che è la sola uguaglianza e libertà che 

possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose.38

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DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Nel paragrafo 12 – qui riportato integralmente – l’autore definisce lo Stato tranquillo moderatore delle passioni particolari (r. 5): un’entità, cioè, che deve governare i desideri e gli interessi dei singoli grazie allo strumento della ragione. È appunto la ragione a indicare che il fine delle pene deve essere di tipo esclusivamente preventivo (Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali, rr. 8-9): non potendo rimediare ai danni di un delitto, solo la prevenzione di altri delitti è un obiettivo utile alla collettività. Questo concetto anticipa la critica, contenuta nel paragrafo 16, della tortura, pratica che Beccaria considera una crudeltà inutile, dettata da un tirannico spirito di vendetta indegno di uno Stato moderno. Da qui la conclusione: Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo (rr. 9-12). Si tratta di un principio che diventerà un cardine della civiltà giuridica europea: all’inizio della Rivoluzione francese, infatti, esso verrà accolto nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, in cui si afferma che «la legge non deve stabilire che pene strettamente ed evidentemente necessarie»; la stessa Costituzione italiana del 1948 recita, all’articolo 27: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

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Il paragrafo 16 – di cui abbiamo riportato gli stralci salienti – presenta alcuni princìpi ancora oggi lontani dall’essere universalmente affermati, a partire dalla cosiddetta “presunzione d’innocenza”, in base alla quale un imputato va considerato innocente fino alla pronuncia di una sentenza definitiva (Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, r. 19).

L’autore si sofferma qui ad argomentare sull’inutilità della tortura, e anzi sul danno che essa può causare nella ricerca della verità: la sopportazione dei supplizi, infatti, dipende dalla resistenza fisica dell’individuo che li subisce, motivo per cui un colpevole potrebbe essere giudicato innocente solo perché capace di resistere ai tormenti; inoltre, è probabile che lo stress emotivo faccia cadere in contraddizione non solo chi è colpevole, ma anche chi è innocente; infine, l’alterazione dei gesti e della fisionomia provocati dalla tortura finisce spesso per confondere o nascondere, anziché evidenziare, i segni di innocenza o di colpevolezza che si vanno cercando.

Beccaria individua l’origine della tortura nella concezione religiosa dell’espiazione dei peccati attraverso la sofferenza fisica, che si traduce nella pratica di far scontare una parte della pena al sospettato ancor prima che sia condannato. Storicamente, inoltre, l’idea di poter provare con la tortura la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato sembra risalire alla prassi medievale dei giudizi di Dio (r. 56). Ma per Beccaria la macchia civile (r. 42), vale a dire il reato, è altra cosa dalle macchie spirituali (rr. 42-43), cioè il peccato: la sfera civile e quella religiosa devono rimanere nettamente separate, secondo uno dei princìpi fondamentali della concezione moderna dello Stato laico e liberale.

Le scelte stilistiche

L’andamento dell’esposizione si basa su assunti razionali, presentati in modo logico e strettamente consequenziale. Mirando sempre al cuore dei problemi, Beccaria si esprime con uno stile asciutto e preciso sia sul piano sintattico, attraverso periodi brevi e incisivi, sia su quello lessicale, con la scelta di vocaboli contemporanei e colloquiali, più che aulici e letterari. L’obiettivo dell’autore non è infatti tanto la realizzazione di un’opera letterariamente accattivante quanto l’efficacia argomentativa e l’appassionata affermazione delle proprie idee. Il risultato è una prosa che – come ha scritto lo studioso Sergio Romagnoli – «evita le asperità filosofiche» e «mantiene una costante distanza dal linguaggio strettamente giuridico».

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 Spiega il significato della domanda retorica che compare alle rr. 7-8: Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate?


2 A che cosa si riferisce l’espressione antica e selvaggia legislazione (r. 56)?


3 Uno dei tratti distintivi della prosa di Beccaria è l’efficacia argomentativa. Spiega con quali mezzi espressivi viene perseguita.


4 Quali motivazioni venivano addotte, ai tempi di Beccaria, per sostenere il ricorso alla tortura? In che modo vengono confutate dall’autore?

Analizzare

5 Trova nel testo alcuni esempi di vocaboli concreti e colloquiali.


6 Evidenzia almeno 5 termini appartenenti al lessico giuridico.

Interpretare

7 Beccaria afferma che l’ignoranza è comune a quasi tutti gli scellerati e agl’innocenti (rr. 50-51). Che cosa vuole sottolineare? Quanto egli affermava a proposito del Settecento è vero ancora nella società di oggi?

Il magnifico viaggio - volume 3
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Il Seicento e il Settecento