Pagine di realtà - La tortura nel XXI secolo

Educazione CIVICA – Pagine di realtà

La tortura nel XXI secolo

La pratica della tortura oggi è tutt’altro che scomparsa, non solo nei regimi dittatoriali, ma a volte persino nei paesi democratici. Anzi, nel mondo occidentale (Stati Uniti ed Europa) in anni recenti si è persino teorizzata la possibilità di un ricorso eccezionale alla tortura, per esempio in nome della superiore esigenza di proteggere gli Stati dalle aggressioni terroristiche. Mauro Palma (n. 1948), presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, denuncia, nel testo di una conferenza tenuta all’Università di Barcellona nel 2019, i rischi di una deriva antigarantista tesa a reintrodurre la tortura, se non di diritto quantomeno di fatto.

“Maltrattamenti e tortura […] sono tornati a essere in anni recenti ipotesi sempre più visibili, a volte anche esibite, come è stato nel caso del gran numero di immagini che entravano nelle case dai media descrivendo quanto era avvenuto ad Abu Ghraib,1 e come lo è oggi anche nei racconti di coloro che giungono in Europa dopo le detenzioni in Libia. Difficile dire se il complessivo numero di episodi di maltrattamenti gravi o torture sia effettivamente aumentato o se, invece, sia accresciuto il loro emergere, la loro visibilità. Difficile anche capire se la visibilità possa retroagire nell’assuefazione: nel considerare il ricorso alla tortura come un’opzione attorno a cui discutere. L’assoluto bando vacilla in un contesto di apparente normalità.

È pur vero tuttavia che sapere è pur sempre premessa di responsabilità e che dire la parola indicibile tortura è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche, fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti gli interrogativi che tale presenza determina.

Da questo punto di vista è, quindi, positivo che la parola tortura sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere negata dagli apparati di potere che pure la praticano. Poiché «nessun regime neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura perché significherebbe ammettere la propria illegittimità». Sono le parole dello psicanalista Miguel Benasayag, torturato durante la dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi torturatori – loro come altri, quasi sempre – che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a corpi separati, civili. […]

Anche il dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre Atlantico, ma per taluni aspetti ripreso nel Vecchio Continente, non ha superato il tabù della negazione: lo ha aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati. Neppure le immagini evidenti hanno rotto il tabù dell’ammettere: lo stesso waterboarding2 è stato giustificato come tecnica di interrogatorio e le foto che giungevano dall’Iraq sono state ridotte a pratiche decise individualmente da singoli, da censurare, sanzionare (almeno apparentemente) e in larga parte porre a tacere anche attraverso il loro annientamento mediatico. Eppure, la reificazione di una implicita tortura, rappresentata dalle gabbie di Guantanamo,3 dove le persone sono ristrette senza formale imputazione e la loro presenza è voluta, decisa, finalizzata a suo tempo a scopi informativi, ora quasi inutili, non è facilmente eliminabile perché è una realtà non più convertibile ad altro.

Le premesse del dibattito attorno ai concetti precedentemente citati possono essere ritrovate nella posizione assunta da Thomas Nagel,4 più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam, circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere quest’ultime, liquidando l’assolutismo – e quindi il divieto assoluto della tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra – come un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente irrealizzabile. Il contesto dell’analisi del filosofo analitico è quello bellico, tuttavia la sua posizione apre – e ha aperto – alla possibilità di considerare comunque la tortura una opzione eventuale.

Ne sono testimonianza le varie posizioni assunte negli anni subito successivi al settembre 2001 da alcuni Stati europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto di limitare l’assolutezza del divieto di tortura, espresso dall’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani o, ugualmente, dall’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, bilanciandolo con le esigenze di sicurezza e, in particolare, bilanciandolo con la necessità di fronteggiare il terrorismo internazionale, quale altro impegno quasi un bene, da tutelare in modo assoluto: il pensiero va alla richiesta a suo tempo avanzata dal ministro dell’interno del Regno Unito, Charles Clarke insieme a pochi altri governi europei (tra cui anche quello italiano di allora).

Clarke dichiarò al Parlamento Europeo, nella sessione del 7 settembre 2005: «Il nostro sforzo per la tutela dei diritti umani deve riconoscere la verità che tutti noi dobbiamo accettare, che il diritto a essere protetti dalla tortura e dai maltrattamenti deve essere considerato di pari passo con il diritto a essere protetti dalle morti e dalle distruzioni causate da un terrorismo indiscriminato, a volte causato, istigato o fomentato da cittadini di paesi esterni all’Europa. Questo è un difficile bilanciamento e richiede che tutti noi politici ci interroghiamo su dove i nostri cittadini si attendano venga tracciata la linea di demarcazione». […]

Nei primi anni di questo nuovo secolo […] da un lato la repressione di movimenti che rischiavano di divenire incontrollabili da parte del potere politico non solo nelle loro richieste ma anche nelle loro forme espressive ha mostrato il ricorso a una forma di tortura “politica”, volta a soffocare il loro espandersi attraverso l’azione diretta e la paura; da un altro lato le forme di indagine in settori quali la lotta al terrorismo internazionale hanno visto il riproporsi di una tortura “giuridica” volta a raccogliere informazioni da parte di forze di polizia ordinarie e agenti a tal fine reclutati su base privatistica, da impiegare per tale lavoro muscolare.

Tortura “politica” e tortura “giuridica” hanno trovato […] un’espansione comune, ruotando attorno al concetto di “nemico” – interno o esterno – da combattere con ogni mezzo in quanto presuntivamente in grado, per il suo stesso esistere, di mettere in crisi il sistema ordinamentale riconosciuto e i paradigmi su cui esso si fonda.”


(Mauro Palma, La tortura: el antigarantismo, Università di Barcellona, 30 gennaio 2019)

LEGGI E COMPRENDI

1 Quale rischio viene individuato dall’autore nell’informazione mediatica sui casi di tortura? Tale rischio va corso oppure evitato? perché?


2 In quale orizzonte si colloca la teorizzazione del filosofo Thomas Nagel?

RIFLETTI, SCRIVI, SOSTIENI

3 Svolgi una breve ricerca sull’uso della tortura nel mondo attuale e sintetizzane i risultati in un testo espositivo di circa 30 righe. Puoi attingere dati dai rapporti periodici di organizzazioni internazionali attive nel campo dei diritti umani, come per esempio Amnesty International.

Il magnifico viaggio - volume 3
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Il Seicento e il Settecento