3 - Lo sviluppo del pensiero leopardiano

3 Lo sviluppo del pensiero leopardiano

Il “pessimismo”: uno stereotipo di cui diffidare La riflessione filosofica di Leopardi sulla condizione umana, intrecciata in modo indissolubile alla produzione letteraria, si snoda lungo l’arco di tutta la sua esistenza, disegnando un itinerario in cui si possono riconoscere diverse fasi. Quella che proporremo ora è una lettura a suo modo schematica e sicuramente semplificata, risalente a un saggio del 1907 dello studioso Bonaventura Zumbini (1836-1916). Si tratta di un’impostazione concettuale che coglie una verità di fondo, ovvero l’esistenza di un’evoluzione del pensiero leopardiano, ma che al tempo stesso risente della tendenza, tipica della critica di ascendenza romantico-positivistica, a vincolare lo sviluppo artistico e ideologico di un autore alle sue vicende biografiche o esperienze culturali. Le etichette e le categorie, con le quali si definisce e si classifica il pensiero o la produzione di uno scrittore, lasciano sempre a desiderare. Ciò vale a maggior ragione per un intellettuale complesso come Leopardi, ingabbiato dalla tradizione scolastica italiana entro la formula, indubbiamente stereotipata, del “pessimismo” (parola, tra l’altro, che si trova una volta sola nella sua opera, precisamente nello Zibaldone ). Il suo è infatti un percorso conoscitivo “aperto”, non regolato da un’organizzazione o da un sistema, procedendo per aggiunte e negazioni, continuità e fratture, aggiustamenti e perfino contraddizioni.

Tuttavia è innegabile che il crocevia fondamentale del pensiero di Leopardi sia costituito dal superamento dell’idea della natura benigna. Nei due paragrafi che seguono spiegheremo come dall’idea fantastica della classicità come giovinezza felice del mondo e del genere umano avvenga l’appressamento «alla ragione e al vero»: un tragitto intellettuale che procede con dolorosa lentezza, ma che smorza definitivamente gli entusiasmi giovanili del poeta.

Il mito della natura benefica: il “pessimismo storico”

La contrapposizione antichi-moderni All’inizio della sua meditazione, fino alla cosiddetta “conversione filosofica” (1819), Leopardi si sofferma a riflettere sulla condizione esistenziale degli individui, caratterizzata da una profonda infelicità. Interrogandosi sulla natura e sull’origine di tale stato, egli contrappone l’età antica a quella attuale: mentre la prima si presenta ai suoi occhi come un’epoca ancora rasserenata dai sogni, dalle favole e dal contatto diretto con la natura, la seconda gli appare dominata da una ragione che ha privato gli esseri umani di illusioni e speranze, cancellando le consolazioni prodotte dalla «sterminata operazione della fantasia». Secondo Leopardi, gli antichi potevano aspirare alla felicità grazie all’immaginazione, all’ingenuità e agli slanci eroici e magnanimi, ispirati da generose illusioni. I moderni invece hanno irrimediabilmente perso tali capacità, imprigionati nell’angusta dimensione dell’«arido vero» e privati in tal modo della possibilità di risarcire la reale condizione di sofferenza con il confortante miraggio della gloria, dell’amicizia e della virtù.

L’infelicità non è quindi un dato intrinseco alla natura umana, ma è legata allo sviluppo, alla civiltà, al progresso: ha insomma un’origine storica. Pertanto la critica ha definito questa prima fase della parabola conoscitiva leopardiana come quella del “pessimismo storico”: secondo una prospettiva che si richiama alla filosofia di Jean-Jacques Rousseau, alla natura vista come fonte benigna delle piacevoli illusioni che nascondono i dolori dell’esistenza, si contrappone la ragione, che con la sua indagine razionale e scientifica della realtà ha svelato all’uomo l’inconsistenza delle sue fantasticherie, sprofondandolo in un’angoscia senza rimedio e condannandolo a perdere l’innocenza, la spontaneità e, in ultima istanza, la stessa felicità. «La ragione è nemica d’ogni grandezza», scrive Leopardi in un brano dello Zibaldone , datato 1817, poi aggiungendo che «pochi possono essere grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni».

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La “teoria del piacere” Al 1820 risale il primo nucleo di pensieri dello Zibaldone incentrati su quella che viene comunemente definita “teoria del piacere”, che costituisce uno snodo fondamentale nell’evoluzione del suo pensiero. Va subito premesso che l’elaborazione di questa teoria testimonia l’adesione del poeta al materialismo meccanicistico, che nega la presenza di un principio metafisico regolatore dell’esistenza. In particolare si rivela fondamentale l’eredità del sensismo, la corrente filosofica settecentesca, i cui massimi interpreti sono i francesi étienne Bonnot de Condillac e Paul Henri Thiry d’Holbach, che fa risalire alle facoltà sensoriali la fonte di tutte le conoscenze. Il piacere di cui parla Leopardi è infatti, almeno in questa fase della sua riflessione, di tipo fisico, unicamente legato ai sensi e non ideale o astratto: come si vedrà nei Canti, tutte le sensazioni che rimandano a questa sfera sono legate alla vista e soprattutto all’udito.

Leopardi mette in evidenza come il desiderio del piacere non ha confini e non può esaurirsi in un sentimento definito o circoscritto né nel tempo né nell’estensione: la natura, però, ha dotato l’uomo di sensi inadeguati, che riescono a provare al massimo un singolo piacere, destinato a non essere mai del tutto soddisfacente. Proprio il meccanismo psicologico che stimola gli esseri viventi a cercare una felicità senza limiti li condanna così alla frustrazione di un desiderio che rimane inevitabilmente inappagato. Dalla sproporzione tra questo desiderio infinito e la finitezza della realtà deriva un senso di vuoto, che non può essere colmato in alcun modo e che costituisce la radice prima dell’infelicità.

«L’infelicità certa del mondo»: il “pessimismo cosmico”

L’infelicità come dato assoluto La convinzione che l’umanità sia condannata a una condizione di perenne inappagamento e l’appurata inconciliabilità tra esistenza e desiderio di felicità inducono Leopardi a rivedere profondamente il rapporto tra uomo e natura, delineato nella prima fase della sua riflessione. La lettura degli autori e dei filosofi greci, anch’essi inclini a ragionare sul dolore dell’esistenza, gli fa comprendere come anche il mondo classico fosse ben lontano da quel regno idealizzato di gioia e serenità che egli aveva mitizzato durante l’adolescenza. Come si intravede già nei componimenti dei primi anni Venti (per esempio, l’Ultimo canto di Saffo T7, p. 60) e poi, in modo più radicale, nella stagione delle Operette morali , il poeta si convince che l’infelicità non sia un fatto contingente né dipenda dall’evoluzione storica: essa è un dato costitutivo e assoluto, che riguarda tutte le creature viventi e tutte le epoche. È la fase del cosiddetto “pessimismo cosmico”: il poeta rigetta ogni illusione e rovescia i termini del rapporto tra natura e civiltà, natura e ragione.

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La natura indifferente L’approdo al materialismo induce infatti Leopardi a concepire la natura come un’entità meccanica nella quale vigono leggi e princìpi oggettivi finalizzati unicamente a conservare l’ordine cosmico secondo un inesorabile ciclo che comporta la vita e la morte degli individui e delle specie. Essa cessa di essere la dolce e benefica madre, immaginata in precedenza, e appare invece del tutto indifferente alle sorti dell’uomo, vittima del suo imperturbabile ingranaggio che fa e disfa, crea e distrugge: «La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti» (Zibaldone , 11 aprile 1829).

Il valore della ragione Al contrario la ragione, prima giudicata colpevole per aver palesato la verità della condizione umana, è ora rivalutata come il solo antidoto contro le mistificazioni ideologiche, in particolare quelle prodotte dalle visioni spiritualistiche e provvidenzialistiche dell’universo. Essa consente di rivelare tutti gli «inganni […] dell’intelletto» (Dialogo di Tristano e di un amico) che nascondono e abbelliscono la dura realtà, e al tempo stesso sprona gli esseri umani ad accettarla con dignità senza confidare nei falsi benefici di una fede religiosa.

4 Il valore della solidarietà

Pessimista ma non scettico Pur approdando a una corrosiva e spietata denuncia di tutte le illusioni che l’intelletto fabbrica per ingannare gli individui, rendendoli inconsapevoli della loro reale condizione, il pessimismo di Leopardi non assume mai la valenza di sterile scetticismo, di sfiduciata diffidenza nei confronti del prossimo o di lamentosa recriminazione sul dolore umano. In una pagina dello Zibaldone (2 gennaio 1829), egli scrive: «La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti […] portano cordialmente a’ loro simili».

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Giudice implacabile delle vane illusioni Più ancora che di pessimismo, sarebbe forse giusto parlare di rifiuto dell’ottimismo: di quell’atteggiamento consolatorio, cioè, che porta l’uomo a «pargoleggiare» (cioè ad assumere una condotta spensierata come quella di un bambino), assegnandosi poteri che non ha. Sia che poggi sull’illuministica convinzione che un futuro radioso di progresso e felicità attenda gli individui («le magnifiche sorti e progressive» ferocemente derise nella Ginestra, T18, p. 112, v. 51), sia che si affidi all’ingenua speranza nella provvidenza cristiana, tale ottimismo viene visto da Leopardi con amaro sarcasmo: suoi bersagli privilegiati diventano così la stoltezza e la viltà dell’uomo, pieno di sé, incapace di fissare gli occhi sull’orrido “vero” e di comprendere la propria infinita piccolezza di creature infime perse nell’orizzonte del cosmo (sono molte, infatti, le pagine in cui il poeta aggredisce, spesso mediante il sarcasmo, la concezione antropocentrica dell’universo).

Un antidoto alla disperazione: il valore della dignità umana All’esigenza di smascherare laicamente tutti gli «errori barbari» del suo tempo (cattolicesimo e progressismo politico in primo luogo), Leopardi unisce però la volontà agonistica di affrontare con coraggio e con stoica imperturbabilità le sofferenze dell’esistenza (si parla a questo proposito di “pessimismo eroico”). Allo stesso tempo, nell’ultima fase della sua produzione, egli si appella a tutti gli uomini, soggetti alla potenza distruttrice della natura, affinché sappiano progettare contro di essa, come scrive nello Zibaldone nel 1827, una «grande alleanza degli esseri intelligenti», facendo causa comune contro la sventura in nome della fratellanza e della pietas, ovvero di un sentimento di amore e di rispetto nei confronti del prossimo.

In tal modo Leopardi offre una testimonianza e un insegnamento di profonda tensione etica: egli afferma una morale al tempo stesso umile e titanica nell’auspicare una vita associata all’insegna della solidarietà, una vita non felice, certo, ma più giusta e pietosa. Il suo messaggio invita a preservare l’unico dono concesso all’uomo, la sua umanità, non accrescendo le sofferenze del mondo con odi e rivalità, rompendo la tragica catena delle invidie e provando a placare, almeno per un poco grazie all’amore, quel male incurabile che è il fatto stesso di esistere.

Classe di letteratura - Giacomo Leopardi
Classe di letteratura - Giacomo Leopardi