T22 - Dialogo di Plotino e di Porfirio

T22

Dialogo di Plotino e di Porfirio

Operette morali, 22

Composto nel 1827, il dialogo affronta il tema del suicidio, trattato attraverso il confronto tra Plotino e Porfirio, due filosofi neoplatonici vissuti tra il II e III secolo d.C. Il primo si è reso conto che l’amico, consapevole della vanità della vita, sta meditando di suicidarsi e cerca di fargli cambiare idea. Ciascuno dei due filosofi propone validi argomenti a sostegno di tesi opposte: Porfirio afferma che la morte è l’unica via d’uscita dall’infelicità cui sono destinati gli uomini; Plotino oppone al lucido ragionamento dell’interlocutore una serie di considerazioni sull’istinto di conservazione insito in tutti gli esseri e lo invita a non causare, con la sua morte volontaria, dolore a coloro che lo amano, sostenendo il valore della solidarietà e dell’amore tra gli uomini.

Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi la vita, Plotino se ne
avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non
procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione
malinconica; mi strinse che io mutassi paese.1
[…]
5      PLOTINO Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei2 maravigliare
se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo stato con una
certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore.3 Già sono più
giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura,4 e
lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io
15    credo che tu abbi in capo una mala intenzione.
PORFIRIO Come, che vuoi tu dire?
PLOTINO Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a
nominarlo.5 Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero;6 non far questa ingiuria
a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti
20    fo dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro
di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva
tacere; e tu non dovresti avere a male di conferirla7 con persona che ti vuol tanto
bene quanto a se stessa. Discorriamo insieme riposatamente,8 e andiamo
pensando le ragioni: tu sfogherai l’animo tuo meco, ti dorrai,9 piangerai; che
25    io merito da te questo: e in ultimo io non sono già10 per impedirti che tu non
facci quello che noi troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.
PORFIRIO Io non ti ho mai disdetto11 cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed
ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei
ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia
30    intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa
materia; benché l’animo mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni
pare che si compiacciano di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti
pensieri ami di essere solitaria e ristretta12 in se medesima più che mai; pure io
sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e
35    ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia
intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della
vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a
spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la
vanità di ogni cosa13 che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo
40    l’intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo
di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità.14 E qui primieramente
non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole:
se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche
mal essere corporale. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre
45    disposizioni degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera,
si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza; sono,
qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si fondano in qualche inganno e in
qualche immaginazione falsa.15 E nessuna cosa è più ragionevole che la noia.
I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell’animo, per lo più è
50    vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a considerarla bene, ella è
di poca realtà o di nessuna. Il simile dico del timore; il simile della speranza.
Solo la noia, la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità,
non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto
l’altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista, quanto la vita degli uomini ha
55    di sostanzievole e di reale.16
PLOTINO Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa parte. Ma noi dobbiamo
adesso considerare il fatto che tu vai disegnando:17 dico, considerarlo più
strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone,18
come tu sai, che all’uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di
55    propria autorità da quella quasi carcere nella quale egli si ritrova per volontà
degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.
PORFIRIO Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine,
e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, commentare, difendere certe opinioni
nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell’uso pratico. Alla scuola e nei
60    libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale
è l’usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino.19 So
ch’egli si dice che Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita
avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto circa lo stato loro
dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e di calamità future,
65    si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia e dalle altre male opere.20 Che se io
stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste credenze; e
che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto o la natura o
il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell’universo, è stata
ed è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte, anzi innumerabili
70    ragioni potranno contendere quella maggioranza21 che noi, per altri
titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si troverà che
le tolga quel principato che l’antichissimo Omero le attribuiva; dico il principato
della infelicità.22 Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali
la morte: la quale da coloro che non molto usassero il discorso dell’intelletto,
75    saria poco temuta; dagli altri desiderata.23 E sarebbe un conforto dolcissimo
nella vita nostra, piena di tanti dolori, l’aspettazione e il pensiero del nostro
fine. Tu con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle menti degli uomini,
hai tolta da questo pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli
altri. Tu sei cagione che si veggano gl’infelicissimi mortali temere più il porto
80    che la tempesta, e rifuggire coll’animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle
angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele
che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun
modo sciorre,24 né le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre
i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d’affanno, e
85    più misera che la vita. Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali
muoiono senza timore alcuno, la quiete e la sicurtà dell’animo sono escluse
in perpetuo dall’ultima ora dell’uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta
infelicità della specie umana.
[…]
PLOTINO Porfirio, veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo,
90    che io voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione
tale: ma io voglio discorrere per ragione.25 E se ho toccato così alla sfuggita quella
tal sentenza platonica, io l’ho fatto più per usare come una sorta di proemio,
che per altro. E ripigliando il ragionamento ch’io aveva in animo, dico che non
Platone o qualche altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che c’insegni
95    che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa lecita. Non accade
che io mi distenda circa questo articolo:26 perché se tu penserai un poco, non
può essere che tu non conosca27 da te medesimo che l’uccidersi di propria mano
senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l’atto più contrario a
natura, che si possa commettere. Perché tutto l’ordine delle cose saria sovvertito,
100 se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si
vaglia della vita a spegnere essa vita, che l’essere ci serva al non essere.28 Oltre
che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda
ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a
qualsivoglia creatura dell’universo di attendere29 alla conservazione propria, e di
105 procurarla in tutti i modi; ch’è il contrario appunto dell’uccidersi. E senza altri
argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira,30
e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro?31 Or
dunque, poiché questo atto dell’uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario
quanto noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito.
110 PORFIRIO Io ho considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è impossibile
che l’animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi a pensare sopra
questo proposito. Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte
altre, e in più modi: ma studierò d’esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di morire
senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura vieta l’uccidersi.
115 Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di farmi
né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo se la
natura ci ha ingenerato32 amore della conservazione propria, e odio della morte;
essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e amore del nostro meglio;
anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle,
120 quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore e odio;
e che non si fugge la morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto
e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque
può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che
hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi33 dal mondo: perché mentre
125 son vivo, io non la posso schifare.34 E come sarà vero che la natura mi vieti di
appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar
la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala; poiché non mi
può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce
in fatto?
130 PLOTINO A ogni modo queste cose non mi persuadono che l’uccidersi da se stesso
non sia contro natura: perché il senso nostro porta troppo manifesta contrarietà
e abborrimento alla morte: e noi veggiamo che le bestie; le quali (quando
non sieno forzate dagli uomini o sviate) operano in ogni cosa naturalmente;
non solo non vengono mai a questo atto, ma eziandio per quanto che sieno
135 tribolate e misere, se ne dimostrano alienissime. E in fine non si trova, se non
fra gli uomini soli qualcuno che lo commette: e non mica fra quelle genti che
hanno un modo di vivere naturale;35 che di queste non si troverà niuno che
non lo abbomini,36 se pur ne avrà notizia o immaginazione alcuna; ma solo
fra queste nostre alterate e corrotte,37 che non vivono secondo natura.
140 PORFIRIO Orsù, io ti voglio concedere anco, che questa azione sia contraria a natura,
come tu vuoi. Ma che val questo; se noi non siamo creature naturali, per dir
così? intendo degli uomini inciviliti.38 Paragonaci, non dico ai viventi di ogni
altra specie che tu vogli, ma a quelle nazioni là delle parti dell’India e della Etiopia,
le quali, come si dice, ancora serbano quei costumi primitivi e silvestri; e a
145 fatica ti parrà che si possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di una
specie medesima. E questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa mutazion
di vita, e massimamente d’animo; io quanto a me, ho avuto sempre per
fermo che non sia stata senza infinito accrescimento d’infelicità. Certo che quelle
genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro
150 per la fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini costumati
a questo modo nostro e, come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte,
e alcune se la procacciano.39 Ora, se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro
natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire
contro natura? essendo che da questa infelicità nuova, che risulta a noi dall’alterazione
155 dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che colla morte.
[…]
PLOTINO Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch’io ti consigli,
ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo
disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva,
a quella madre nostra e dell’universo; la quale se bene non ha mostrato
160 di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e
malefica, che non siamo stati noi coll’ingegno proprio, colla curiosità incessabile40
e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e
dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità
con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque
165 sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur
questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non
resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la
stoltezza nostra,41 mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini
error di computo;42 veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si
170 commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi,
dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto
questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria
mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita,
non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure,
175 della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa
durare assai: benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e
le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata
leggermente la disposizione del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime43 e appena possibili a notare; rifassi44 il gusto
180 alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano
quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente
all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo. E ciò basta
all’effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della
verità, nondimeno a mal grado della ragione, e  perseveri nella vita, e proceda
185 in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non l’intelletto,
è quello che ci governa.
Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita:
certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi
elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura
190 uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli
amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie;
delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da
gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in
cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello
195 che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità
del caso? Io so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né
lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato,45
che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra46
a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e
200 chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si
vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si
possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della
vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore
della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi,47 dei compagni;
205 o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente,
ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli
amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo.
E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno
degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle
210 spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del
privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e
men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui,
pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e
215 calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare;
massime48 ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto
piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito
né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente;49
per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a
220 quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo.50 E pregatone da
un amico, perché non avrebbe a compiacergliene?51 Ora io ti prego caramente,
Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra,
lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici
tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara,
225 né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir52 la vita, che così, senza
altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci
insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha
stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia
l’un l’altro; andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente;
230 per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza
alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche
in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà
il pensiero che, poi che53 saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci
ameranno ancora.

 >> pagina 159 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Se il dolore è connaturato alla vita umana e se mistificare o edulcorare la condizione in cui versa l’umanità è un atto di viltà, come si può provare – quasi disperatamente – il gusto alla vita (rr. 179-180)? La risposta data da Leopardi si basa su uno dei cardini della sua filosofia, pessimistica ma non nichilistica: la considerazione dell’uomo come creatura infelice da confortare grazie alla pietà, alla solidarietà e a quell’affettuoso legame che dovrebbe istituirsi tra il singolo individuo e la comunità umana di cui fa parte.

A questo approdo Leopardi giunge dopo aver affrontato lo snodo decisivo del suicidio, tragica ma razionale soluzione per chi ha acquisito una coscienza definitiva della sorte sventurata che la natura ha destinato ai viventi. Nel trattare questo tema, egli sceglie un approccio problematico che si sviluppa in questa operetta attraverso il confronto tra due filosofi che sostengono tesi opposte. Per Porfirio il suicidio è una legittima soluzione all’infelicità, mentre di parere opposto è Plotino, che vuol dissuadere l’amico dal suo proposito.

Non è una particolare situazione di difficoltà che conduce Porfirio a pensare al suicidio, ma la vanità di tutte le cose: sia il piacere sia il dolore sono accidenti passeggeri, ciò che invece permea in modo costante la vita è il tedio, la noia. Egli analizza con lucidità inesorabile lo stato umano e smonta le credenze sulla vita ultraterrena. In particolare prende in considerazione alcuni insegnamenti attribuiti a Platone (attribuzione che poi lui stesso mette in dubbio) che avrebbero lo scopo, utile più alla società che non all’individuo, di scoraggiare dall’agire contro gli altri per timore di pene e di calamità future (r. 64). Porfirio non crede che questo risultato sia ottenibile, in quanto ritiene che il timore della punizione dopo la morte sia efficace solo per gli spiriti deboli e influenzabili. Ma soprattutto sostiene che la prospettiva di una vita ultraterrena accresca l’infelicità dell’uomo, in quanto gli rende più incerto e difficile affidarsi alla morte, l’unico rimedio che la natura nemica gli ha concesso per porre fine ai suoi mali.

Crudele è dunque trattenere dal suicidio, proponendo un’immagine incerta e dubbiosa della morte che potrebbe portare a una sofferenza eterna. Sotto la critica del platonismo si individua la polemica leopardiana contro il cattolicesimo e il progressismo liberale, che si illudono e illudono gli uomini con le idee della beatitudine eterna e di un progresso indefinito.

 >> pagina 160 

Ai ragionamenti di Porfirio, Plotino si oppone suggerendo di osservare la natura e le sue leggi, che rischierebbero il sovvertimento se il principio di distruzione dovesse prevalere su quello di conservazione. Per questo esistono l’amor proprio, che fa tendere tutti i viventi al mantenimento della vita, e l’orrore della morte, che agisce nelle bestie e negli esseri viventi in armonia con la natura, come le popolazioni primitive, non ancora alterate e corrotte (r. 139) dalla civiltà e dalla ragione, mentre gli uomini inciviliti (r. 142), cioè i moderni, desiderano spesso la morte.

Mentre Plotino non crede che sia lecito uccidersi, cioè fare qualcosa contro natura (r. 131), Porfirio sostiene che la natura ha sì insegnato all’uomo l’amore per sé stesso, ma anche l’odio per l’infelicità, che la modernità ha accresciuto, allontanando l’umanità da quella benefica vicinanza alla natura che caratterizzava le epoche primitive.

Tuttavia, secondo Plotino, una parte dell’uomo antico (r. 167) sopravvive ancora in quello moderno. Proprio questa superstite natura primitiva (rr. 158-159) è meno nemica dell’uomo di quanto non sia l’intelletto che svela le illusioni e i mascheramenti dell’infelicità. Grazie a essa si può lasciare spazio al senso dell’animo (r. 182), vale a dire a un sentimento interiore che va oltre la ragione, la limita senza tuttavia negarla. Si tratta di una tesi che Leopardi sposa non rinnegando quella di Porfirio; il suo pessimismo cosmico non viene confutato, ma al di là della logica ferrea della ragione affiora una prospettiva etica, grazie alla quale è possibile legittimare un altro argomento, non razionale bensì affettivo: il rapporto dell’individuo con l’altro da sé. A chi si uccide non può essere ovviamente rimproverata inconsapevolezza del proprio stato; può essergli però addebitato quell’eccessivo amore di se medesimo (r. 212), che gli impedisce di considerare quanto dolore infligga ai propri cari con la scelta di una separazione prematura e intenzionale.

Le argomentazioni finali di Plotino possono così fare appello alle qualità che Porfirio ha fin qui dimostrato: se è un uomo saggio e forte, può ben sopportare la vita. Conta di più il valore dell’amicizia, mentre sarebbe un abuso barbaro e crudele e un atto di egoismo scegliere una soluzione estrema, causando ulteriore sofferenza che è in potere dell’uomo evitare. Proprio perché la vita è breve e infelice, va coltivato il valore della solidarietà, del conforto e sostegno reciproco. E dopo la morte, quando verrà, ci saranno il ricordo e l’amore degli amici.

 >> pagina 161 

Le scelte stilistiche

Trattandosi di due filosofi, il discorso di entrambi procede sostenuto da ragionamenti rigorosi e ricchi di argomentazioni e richiamando il pensiero di autori come Platone e Omero.

I due contendenti, che non abbandonano mai un tono cordiale (in particolare Plotino, che ricorre spesso all’affettuoso vocativo Porfirio mio, fino all’esortazione finale), usano spesso antitesi e paradossi per mettere in evidenza le contraddizioni delle leggi di natura (se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura?, rr. 152-154) o il contrasto tra natura e ragione (Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo, rr. 187-190). Entrambi si servono di metafore riferite alla vita come carcere (r. 55) e tempesta (r. 80) ma è soprattutto Plotino a cercare l’effetto emotivo ricorrendo a climax in forte progressione (dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi, rr. 170-171), polisindeti accorati e congiuntivi esortativi (Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci, rr. 226-227; non ricusiamo, r. 227; attendiamo, r. 228; andiamoci, r. 229) con lo scopo, se non di convincere l’amico sul piano razionale, almeno di coinvolgerlo su quello sentimentale.

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

Riassumi il brano in circa 10 righe.


Individua i nuclei fondamentali dei ragionamenti che sviluppano i due personaggi ed esponili schematicamente, distinguendo le argomentazioni a favore del suicidio da quelle contro.

Analizzare

A che cosa si riferiscono le due espressioni seguenti e che cosa esprime il loro forte contrasto?

• conforto dolcissimo (r. 75)

• dubbio terribile (r. 77)


Spiega l’effetto che producono i seguenti climax:


a medicare [] occultarcene [] trasfigurarcene, la maggior parte (rr. 163-164).


b non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo (rr. 173-175).


c speranza [] illusioni [] inganni [] errore [] error di computo (rr. 46-169).


5 Individua le parole e le espressioni più significative che riguardano l’area semantica del ragionare e dell’argomentare.

Interpretare

Quali sono, per Plotino, le due situazioni che renderebbero la vita intollerabile?


Perché la morte è definita medicina di tutti i mali (r. 73)?

sviluppare il lessico

Il termine suicidio (uccisione di sé) deriva dal verbo latino caedo, is, cĕcīdi, caesum, caedĕre (tagliare; uccidere; battere): in quali altre parole della lingua italiana puoi individuare la stessa radice? E qual è il loro significato?

scrivere per...

confrontare

9 Il discorso sulla vanità del dolore si può collegare al Cantico del gallo silvestre ( T21, p. 147), in particolare al tema della ciclicità del giorno, che con il sonno permette di rinnovare le speranze destinate a risorgere al mattino. Richiamando anche episodi della biografia leopardiana, spiega in un testo espositivo-argomentativo di circa 30 righe come nella sua filosofia prevalga un atteggiamento combattivo verso la vita e come la spinta vitale sia più forte della rinuncia pessimistica.

Classe di letteratura - Giacomo Leopardi
Classe di letteratura - Giacomo Leopardi