Pagine di realtà - Ricordare le vittime del terrorismo

Educazione CIVICA – Pagine di realtà

Ricordare le vittime del terrorismo

Oggi quando si sente parlare di terrorismo, la mente corre subito alle azioni sanguinarie perpetrate da formazioni ispirate al fondamentalismo religioso. C’è stato invece un tempo (i cosiddetti “anni di piombo”) in cui, nel nostro paese, i nemici dello Stato erano nostri connazionali. Gli orizzonti ideologici e gli intenti degli attacchi terroristici possono essere diversi, ma questi ultimi, di qualunque matrice siano, hanno qualcosa in comune: la cieca violenza che nega il diritto di vivere a tanti cittadini innocenti, siano essi persone comuni o “simboli” colpiti in quanto tali. Su questo riflette Mario Calabresi (n. 1970) nel libro Spingendo la notte più in là (2007), in cui rievoca la vicenda di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, ucciso da un commando terroristico il 17 maggio 1972 a pochi metri dalla sua abitazione, mentre si recava al lavoro. Lui aveva trentaquattro anni e suo figlio solo due anni.

“Dopo l’11 settembre 2001, il “New York Times” cominciò a pubblicare ogni mattina i ritratti dei morti delle Torri Gemelle.1 Erano brevi biografie, scritte con passione, piene di vita e di particolari. Uno dei primi giorni rimasi stupito nel leggere la storia di un agente di borsa che aveva da poco coronato il suo sogno di comprarsi una Porsche ma, siccome aveva il vizio del sigaro, l’auto si era subito riempita di fumo e cenere.

Mi chiesi che tipo di ricordo fosse, che senso avesse celebrare così il morto di un attentato. Poi provai a immaginare se lo schema classico della celebrazione retorica – “Ottimo padre di famiglia”, “benvoluto da tutti”, “impiegato modello”, “cittadino irreprensibile” – fosse stato ripetuto centinaia di volte, fino ad arrivare a ricordare tutte le 2595 vittime di Manhattan. Nessuno li avrebbe letti, nessuno li avrebbe ritagliati, nessuno ne avrebbe conservato memoria. Invece ho ancora in mente la storia di una donna che aveva l’ufficio ai piani più alti ed era felice perché dalle finestre poteva vedere, giù in basso, la scuola del figlio. È stata la dimostrazione che sono i particolari a tenere viva la memoria, i ricordi pieni, vissuti e non la prosopopea.2

C’è un modo di coltivare la memoria insopportabile, commemorazioni in cui per ore si ripetono riti burocratici di una noia irritante: mille ringraziamenti barocchi, un profluvio di aggettivi tipo “barbaramente colpito nel fiore dei suoi anni da vile mano assassina”.

Dicono di voler tenere viva la memoria, ma questo è il modo sbagliato, soprattutto se si parla davanti a dei ragazzi delle scuole: li vedi che si annoiano, non capiscono niente, inondati da nomi e citazioni di cui non conoscono il contesto, di cui non hanno nessuna idea. “I giovani hanno il dovere di sapere… devono ricordare…” Ma allora raccontate loro qualcosa che valga la pena di essere ricordato. Quando mi capita di dover partecipare a questi incontri, scelgo di parlare di mio padre3 come di un uomo normale, non di un eroe o di un marziano, di raccontarne debolezze e curiosità. Bisogna spiegare che gli “eroi” erano persone comuni, ma con la caratteristica di avere passione infinita per le cose che facevano, uomini con cui sia possibile identificarsi, che amavano il loro lavoro e lo facevano con scrupolo.

Così Emilio Alessandrini,4 ucciso perché colpevole di aver contribuito a rendere “efficiente” la procura di Milano; così Luigi Marangoni,5 che voleva un ospedale funzionante, e non sopportava venisse buttato via il sangue o si facessero affari sui morti.

Il 29 gennaio 2005, a ventisei anni dalla morte di Alessandrini, ero nel liceo classico di Pescara dove lui aveva studiato. Il figlio Marco e io parlammo dei nostri genitori.

Lui catturò i ragazzi quando raccontò loro dell’ultimo Natale prima dell’omicidio, per far capire il vuoto che lascia la violenza nella vita quotidiana di una famiglia: “Eravamo appena tornati a casa dopo un giro di parenti, ma io volevo assolutamente vedere Goldrake6 a colori e allora lui si rimise il cappotto e tornammo dai nonni materni per poter guardare il cartone animato. Me le dava tutte vinte, c’era un grande senso di complicità tra di noi. Si dice che non sia una buona cosa un padre-amico, io invece lo amavo per questo e mi dispiace tantissimo averlo perso”.

Un mese prima ero stato nel liceo dove studiò papà, il San Leone Magno di Roma, che aveva deciso di dedicargli una targa, posta sul muro del cortile. Ero con zia Wanda, la sua sorella maggiore. Parlarono il vicecapo della polizia Antonio Manganelli, il prefetto Achille Serra, che lo conosceva bene, e il preside della scuola, che lo dipinse come uno studente modello: “Si vedeva già allora che sarebbe stato un eroe”. A quel punto la zia mi sussurrò nell’orecchio: “Non puoi sapere che ragazzo vivace fosse, tanto che qui lo bocciarono all’ultimo anno e dovette andare a fare la maturità da un’altra parte…”. Prima di chiudere mi chiesero se volevo dire qualcosa agli studenti. Vedevo le loro facce, capivo che tutta quella storia degli anni Settanta non gli diceva nulla, allora cambiai registro: “Diciamo la verità: non era proprio uno studente modello, anzi era un ragazzo rumoroso e un alunno indisciplinato. Venne perfino bocciato”.

Gli studenti si risvegliarono e cominciarono a fissarmi stupiti. A quel punto dissi ciò che mi stava a cuore: “Quelli che vi presentano come eroi sono persone normali, ma con un grande amore per la democrazia e la Repubblica. Facevano il loro lavoro con passione”. Non ho avuto il coraggio di aggiungere che non riuscì a fare lì la maturità, già vedevo la faccia sofferente del preside che probabilmente neppure lo sapeva, per cui li ringraziai e indicai a tutti la strada per il buffet.“


(Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, Mondadori, Milano 2007)

leggi e comprendi

1 Secondo l’autore, perché è stato efficace il modo con cui il “New York Times” ha ricordato le vittime dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001?

2 Che cos’hanno in comune Emilio Alessandrini e Luigi Marangoni?

Rifletti, scrivi, sostieni

3 In che modo ricordare le vittime del terrorismo? Mario Calabresi addita il rischio della retorica come qualcosa da evitare. Momento fondamentale di ogni memoria storica condivisa è la conoscenza dei fatti. Oggi, invece, molti di coloro che non hanno vissuto quegli anni – dunque i più giovani, ma non solo – ignorano che cosa siano stati in Italia gli anni di piombo, vale a dire la stagione del terrorismo e della violenza politica, e quali fossero le matrici ideologiche di coloro che, dall’estrema destra all’estrema sinistra (con obiettivi e spesso anche con modalità operative differenti), si sono resi responsabili di atti efferati e abominevoli. Documentati su quella fase della storia italiana e discuti in classe su come – seguendo l’invito di Mario Calabresi – possiamo più efficacemente mantenere vivo il ricordo di quelle vicende, affinché nulla di simile possa più ripetersi.

Per fare ricerca

• Sul magazine on line Il Chiasmo (realizzato dalla Rete italiana degli allievi delle scuole e degli istituti di studi superiori universitari, in collaborazione con l’Istituto Treccani) leggi l’articolo di Emanuele D’Amario, che esamina e indaga le radici profonde degli anni di piombo.

• Sul sito raicultura.it puoi vedere una puntata della serie L’Italia della Repubblica dedicata proprio a quel periodo storico.

Classe di letteratura - volume 3B
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