La saggistica

La saggistica

Fitta è la produzione saggistica di Pasolini, che annovera interventi sia di critica letteraria e artistica sia di indagine politico-sociale. Tra i volumi di interventi letterari pubblicati mentre l’autore è ancora in vita, ricordiamo Passione e ideologia (1960) ed Empirismo eretico (1972), a cui seguirà la raccolta postuma Descrizioni di descrizioni (1979). Quanto ai saggi sulla politica e sulla società, ricordiamo i due volumi Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (1976).

SCRITTI CORSARI

Il significato della militanza giornalistica Gli Scritti corsari, usciti l’anno stesso della morte dell’autore (1975), sono una sorta di compendio del pensiero dell’ultimo Pasolini: un pensiero amaro e negativo, a partire dal quale, tuttavia, lo scrittore cerca ancora una via di comunicazione con il pubblico. Si tratta di un libro che raccoglie interventi giornalistici usciti, per lo più sul “Corriere della Sera”, tra il 1973 e il 1975.

Con questa raccolta – contenente diversi testi destinati con il trascorrere degli anni a rivelarsi profetici – Pasolini, come un «corsaro», solitario e controcorrente, critica aspramente la vita e la cultura italiana del suo tempo, scagliandosi contro ciò che sente inautentico. Lo fa con toni accesi e vibranti, ergendosi in tutta la sua statura di intellettuale militante che non teme di comprometteresi o di risultare sgradito, né di sporcarsi le mani con gli aspetti che interessano più da vicino la vita civile e, prima ancora, morale degli italiani.

Parlare alla borghesia La scelta di scrivere sul “Corriere della Sera” non è priva di significato. Il quotidiano milanese è infatti, per eccellenza, il giornale della borghesia italiana. Pasolini detesta profondamente questa classe sociale. Se egli decide di scrivere non sull’“Unità”, giornale letto da studenti, operai, militanti del Pci, ma proprio sul “Corriere”, significa che intende parlare alla borghesia, magari con toni polemici e aggressivi, ma in ogni caso confrontarsi con essa, per esprimere fino in fondo il proprio dissenso e la propria distanza dalla mentalità della classe borghese.

Il fatto che Pasolini scriva per un pubblico di lettori borghesi significa forse che in cuor suo egli nutre qualche barlume di speranza sulla possibilità di farsi ascoltare e di modificare la realtà sociale e culturale del paese. Se facciamo un passo indietro nella sua biografia, ripercorrendola a partire dal periodo giovanile, possiamo notare come egli abbia sempre avuto una forte vocazione pedagogica, sin dagli anni vissuti a Casarsa, dove durante i mesi della Resistenza aveva avviato, insieme alla madre, una scuola popolare per istruire i figli dei contadini che non potevano seguire studi regolari a causa della guerra; poi negli anni tra il 1947 e il 1949 insegna alla scuola media di Valvasone, vicino a Pordenone; e, una volta giunto a Roma nel 1950, trova lavoro presso un istituto privato di Ciampino.

Anche quando cessa di lavorare come insegnante, non viene meno nella sua attività intellettuale una paideia (vale a dire una vocazione alla formazione) rivolta a due interlocutori principali: il popolo, oggetto d’amore ma sempre a rischio di perdere la propria identità, e, appunto, la borghesia, oggetto di odio, ma forse, almeno in parte, in grado di “rieducarsi”. Ciò è vero anche nella sua ultima produzione, quella degli Scritti corsari, quando Pasolini si propone quasi come un “pedagogo di massa”. Ora la sua cattedra è il giornale: egli interviene sulle questioni più scottanti dichiarando il proprio personale punto di vista ed esponendosi sempre in prima persona.

 >> pagina 699

La falsa tolleranza della civiltà dei consumi Negli Scritti corsari Pasolini affronta vari argomenti: la società dei consumi, il potere coercitivo da essa esercitato sulle coscienze dei singoli, il cambiamento «antropologico» degli italiani, la rivoluzione sessuale, il ruolo della religione cattolica nell’Italia contemporanea, la contestazione giovanile, insomma i temi più rilevanti dell’epoca.

In occasione del referendum del 12 maggio 1974 voluto da Dc e Msi per abrogare la legge istitutiva del divorzio (approvata dal parlamento italiano nel 1971), Pasolini prevede la vittoria dei “no”, cioè di coloro che avrebbero votato per mantenere, nella nostra legislazione, la possibilità di divorziare. Ma questo – a suo modo di vedere – non sarebbe stato l’esito di una nuova mentalità laica e al passo coi tempi, bensì il risultato di una dominante mentalità individualistica ed edonistica, diffusasi con il consumismo.

Lo scrittore ama andare controcorrente, all’interno dello schieramento comunista e progressista, come appare chiaro anche nel caso della battaglia volta a legalizzare l’aborto. È questa un’ipotesi su cui la sua coscienza lo spinge a esprimere alcune riserve. Scrive in un capitolo dal titolo significativo, 19 gennaio 1975. Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti: «Sono [...] traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio». Egli intravede nella richiesta generalizzata dell’aborto un’ulteriore conferma di quella «rivoluzione antropologica» operata nel popolo italiano dalla società dei consumi: «L’aborto legalizzato è [...] una enorme comodità per la maggioranza. [...] Ma questa libertà [...] da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo». E spiega: «Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore». In altre parole, la legalizzazione dell’aborto è per Pasolini conseguenza diretta di una libertà sessuale vissuta in chiave consumistica.

Il rimpianto del mondo contadino Per questa sua critica al presente Pasolini è stato tacciato di passatismo, cioè di idealizzare in modo nostalgico un’età premoderna. Su questo punto, nel capitolo 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, risponde piccato a Italo Calvino, che lo aveva accusato di «rimpiangere l’Italietta» del ventennio fascista, un’Italia quanto mai piccolo­borghese, provinciale e repressiva, soprattutto nei confronti di chi era diverso, non conformista: «L’“Italietta” è piccolo­borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni».

Pasolini ammette invece di dolersi del tramonto definitivo del mondo contadino, spiegando che le generazioni precedenti non vivevano un’«età dell’oro», bensì l’«età del pane». E spiega: «Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita».

La contestazione giovanile Un altro tema sviluppato negli Scritti corsari è quello della contestazione giovanile e studentesca, particolarmente accesa nella società italiana tra il 1968 e la prima metà degli anni Settanta. Pasolini accusa i giovani contestatori di conformismo. In un celebre capitolo (il primo del volume) sulla moda dei capelli lunghi, 7 gennaio 1973. Il «Discorso» dei capelli, l’autore racconta di aver visto per la prima volta alcuni «capelloni» (come venivano chiamati all’epoca i ragazzi con i capelli lunghi, allora segno di originalità e trasgressione) a Praga, nella hall di un albergo, alcuni anni prima che questa moda giungesse in Italia. Egli aveva provato istintivamente antipatia nei confronti di quei ragazzi, perché, nel notare come il tradizionale linguaggio verbale fosse stato sostituito da un segno esteriore (come, appunto, quello dei capelli lunghi), aveva pensato che «il loro “sistema di segni” fosse prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere». Nonostante questo, Pasolini aveva difeso i giovani contestatori e le loro ragioni ideali.

Nel frattempo, però, il portare i capelli lunghi da parte dei giovani è diventato quasi un obbligo sociale, sintomo di omologazione: i giovani sono tutti uguali, devono essere tutti uguali, indipendentemente dai princìpi in cui credono, tanto che alla tv e nella pubblicità «è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere».

 >> pagina 700

Un approccio semiologico Infine va notata, sul piano stilistico, l’originale tecnica espressiva utilizzata da Pasolini nel “dare la parola” ai capelli, cioè nel partire dall’osservazione esteriore della realtà, per ricavarne un’interpretazione capace di andare oltre la pura e semplice materialità dei segni: un metodo di indagine che mette a frutto i princìpi della  semiologia. Questa è una costante di molte pagine del libro.

Del resto è lo stesso Pasolini ad affermare, in un altro capitolo degli Scritti corsari (24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo), che «la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico», perché «in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza».

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi