2 - La “vita” romana

2 La “vita” romana

Il racconto delle borgate Non si potrebbe concepire l’opera pasoliniana senza uno stretto riferimento a una precisa realtà geografica, sociale e – potremmo dire – antropologica: l’umanità popolare della Roma delle periferie. Trasferitosi nella capitale all’inizio del 1950, Pasolini si immerge (letteralmente) nel flusso della vita delle borgate: da quell’esperienza personale, diretta, scaturisce l’elaborazione di quelli che saranno i primi due romanzi pasoliniani a essere pubblicati, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959): opere che risentono del clima neorealista, ma che per molti versi vanno oltre i modelli di quella corrente letteraria.

Studio “dal vivo” e partecipazione emotiva Pasolini, subito innamoratosi della città, conduce in prima persona ricerche “sul campo”, frequentando il mondo delle borgate e facendosi aiutare dalle persone del posto per risolvere i dubbi linguistici in cui si imbatte. Il critico Alberto Asor Rosa ha sottolineato «la minuziosa opera di raccoglitore linguistico di Pasolini, che, taccuino in tasca, va di borgata in borgata, di strada in strada, alla ricerca dei ragazzi di vita, dei loro padri e delle loro madri, colloquia, scherza, ride con loro, e nel frattempo accuratamente li studia».

In effetti quello di Pasolini è uno studio “dal vivo”, quasi da sociologo o da antropologo prima ancora che da scrittore: dei ragazzi delle borgate osserva e annota il lessico, gli atteggiamenti e i comportamenti, ma non lo fa con il distacco dello scrittore naturalista, bensì con un forte coinvolgimento umano ed emotivo. Racconta egli stesso, in un testo del 1958 intitolato La mia periferia: «Spesse volte, se pedinato, sarei colto in qualche pizzeria di Torpignattara, della Borgata Alessandrina, di Torre Maura o di Pietralata, mentre su un foglio di carta annoto modi idiomatici, punte espressive o vivaci, lessici gergali presi di prima mano dalle bocche dei “parlanti” fatti parlare apposta». Lui, di estrazione borghese, decide di avvicinarsi a una realtà molto diversa da quella del suo ambiente di appartenenza, con rispetto e con capacità di ascolto.

Anche negli anni seguenti, quando Ragazzi di vita e le opere successive gli hanno procurato una certa fama nell’ambiente letterario, egli non si concede più di tanto alla mondanità culturale, ma preferisce continuare a frequentare la Roma delle borgate più che quella dei salotti. «Il mio realismo», spiega Pasolini sempre nello scritto La mia periferia, «io lo considero un atto d’amore: e la mia polemica contro l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso, implica una presa di posizione politica contro la borghesia fascista e democristiana che ne è stata l’ambiente e il fondo culturale».

La “regressione” pasoliniana Ancora Pasolini spiega così la sua scelta linguistica del dialetto romanesco: «Non c’è stata scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare la “borgata” romana. Alla coazione biografica si aggiunge la particolare tendenza del mio eros, che mi porta inconsciamente, e ormai con la coscienza dell’incoscienza, […] a cercare le amicizie più semplici, normali presso i “pagani” (la periferia di Roma è completamente pagana: i ragazzi e i giovani sanno a stento chi è la Madonna), che vivono a un altro livello culturale».

Pasolini e Caravaggio Il critico Cesare Garboli ha avanzato un suggestivo accostamento tra il Pasolini romano e Caravaggio, vedendo nel Riccetto, il protagonista di Ragazzi di vita, una sorta di Bacco caravaggesco trasferito nel XX secolo. Come l’artista del Seicento sceglieva i modelli e le modelle tra i frequentatori delle taverne e tra le prostitute, al punto da raffigurare la Vergine Maria ispirandosi al corpo di una popolana annegata nel Tevere, così Pasolini va a cercare i modelli della sua rappresentazione nel mondo della miseria, del disagio, del degrado più spinto. Si capisce in tal modo anche la sua tendenza a ingaggiare per i suoi film attori non professionisti.

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3 Il rifiuto del presente

La condanna della cultura di massa Una serrata, severa, personalissima critica alla società del suo tempo, soprattutto nell’ultima fase dell’opera di Pasolini, è una tra le ragioni principali della centralità di questo autore nel dibattito culturale dell’Italia contemporanea, fino ai giorni nostri.

A mano a mano che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il boom economico trasforma in profondità il tessuto economico e sociale del paese, insieme alle abitudini, agli stili di vita, alla mentalità delle persone, Pasolini si sente sempre più estraneo nei confronti di una realtà in cui non si riconosce e che disapprova. Strumento principe attraverso cui sta avvenendo questa trasformazione, che equivale a una manipolazione delle coscienze, è per Pasolini la televisione, per la sua intrinseca capacità di persuasione occulta.

La fase «apocalittica» Nel 1964 esce un saggio del semiologo Umberto Eco destinato a diventare celeberrimo. Si intitola Apocalittici e integrati e definisce, in relazione alle «comunicazioni di massa» e alle «teorie della cultura di massa» (come recita il sottotitolo), i due tipi di atteggiamento che gli intellettuali tendono ad assumere. Gli «integrati» sono coloro che valorizzano gli aspetti positivi della nuova realtà: la democratizzazione della comunicazione, l’accesso alla cultura consentito a gruppi sociali che prima ne erano esclusi, l’abbassamento del costo economico dei prodotti culturali ecc. Gli «apocalittici» sono invece coloro che evidenziano i risvolti negativi di tale situazione: l’omologazione, la persuasione occulta della pubblicità, il conformismo dilagante, l’assenza di pensiero critico ecc.

Ebbene, è chiaro che Pasolini sta nettamente con gli «apocalittici». Soprattutto nella fase finale della sua produzione artistica (dalla metà degli anni Sessanta in poi) è fortissima l’insistenza sulla negatività della moderna società dei consumi e degli strumenti di comunicazione attraverso cui essa diffonde la propria perversa ideologia. È un degrado totale dell’intelligenza e dei valori autentici, da cui sembra non esistere via d’uscita: da qui i toni cupi e disperati che caratterizzano le sue ultime opere.

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Nostalgie passatiste e aperture terzomondiste Mentre constata l’abbrutimento del mondo capitalistico-occidentale, la corruzione che il benessere materiale e la società dei consumi stanno producendo nelle coscienze, la fine dell’autenticità psicologica e culturale della civiltà contadina, Pasolini sente sempre più la necessità di rivolgersi a un “altrove”. Si tratta di un altrove nello spazio (i paesi extraeuropei, l’Africa e l’Asia) e nel tempo (il passato medievale e classico). «Per l’Italia è finita, ma lo Yemen può essere ancora interamente salvato»: così recita la voce di Pasolini nel commento al documentario Le mura di Sana’a (1971).

È, in realtà, un unico altrove spazio-temporale: non a caso spesso i film che parlano di quel passato tanto vagheggiato da Pasolini (Edipo Re, Medea e Il fiore delle Mille e una notte) sono girati nel cosiddetto Terzo Mondo, cioè nei paesi in via di sviluppo. È questo un vero e proprio mito: Pasolini idealizza il passato e l’Oriente, cercandovi ciò che non è più a disposizione in Occidente, per poi dichiarare la propria delusione quando neanche lì trova quello che da noi è venuto a mancare. Perché tutto il mondo si è occidentalizzato (oggi diremmo globalizzato) e perché, a ben guardare, anche le epoche remote conoscevano i drammi della violenza e dell’esclusione.

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi