T2 - La gran banda dei ladruncoli di frutta

T2

La gran banda dei ladruncoli di frutta

Il barone rampante, cap. 4

Il narratore, Biagio, racconta le prime avventure del fratello Cosimo, il quale, dopo aver trascorso la prima notte sugli alberi, comincia ad abituarsi alla sua nuova vita. Mentre si trova su un ciliegio, il barone sente delle voci provenienti dall’alto: è l’inizio della sua avventura.

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Audiolettura

Io non so se sia vero quello che si legge nei libri, che in antichi tempi una scimmia
che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arrivare in Spagna
senza mai toccare terra. Ai tempi miei di luoghi così fitti d’alberi c’era solo il golfo
d’Ombrosa1 da un capo all’altro e la sua valle fin sulle creste dei monti; e per questo
5      i nostri posti erano nominati dappertutto.
Ora, già non si riconoscono più, queste contrade. S’è cominciato quando vennero
i Francesi,2 a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e
poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di Napoleone,
di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che
10    li conoscevamo da prima, fa impressione.
Allora, dovunque s’andasse, avevamo sempre rami e fronde tra noi e il cielo.
L’unica zona di vegetazione più bassa erano i limoneti, ma anche là in mezzo si levavano
contorti gli alberi di fico, che più a monte ingombravano tutto il cielo degli
orti, con le cupole del pesante loro fogliame, e se non erano fichi erano ciliegi
15    dalle brune fronde, o più teneri cotogni, peschi, mandorli, giovani peri, prodighi
susini, e poi sorbi, carrubi, quando non era un gelso o un noce annoso. Finiti gli
orti, cominciava l’oliveto, grigio-argento, una nuvola che sbiocca3 a mezza costa.
In fondo c’era il paese accatastato, tra il porto in basso e in su la rocca; ed anche
lì, tra i tetti, un continuo spuntare di chiome di piante: lecci, platani, anche roveri,
20    una vegetazione più disinteressata e altera che prendeva sfogo – un ordinato sfogo –
nella zona dove i nobili avevano costruito le ville e cinto di cancelli i loro parchi.
Sopra gli olivi cominciava il bosco. I pini dovevano un tempo aver regnato su
tutta la plaga,4 perché ancora s’infiltravano in lame e ciuffi di bosco giù per i versanti
fino sulla spiaggia del mare, e così i larici. Le roveri erano più frequenti e fitte
25    di quel che oggi non sembri, perché furono la prima e più pregiata vittima della
scure. Più in su i pini cedevano ai castagni, il bosco saliva la montagna, e non se
ne vedevano confini. Questo era l’universo di linfa entro il quale noi vivevamo,
abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene.
Il primo che vi fermò il pensiero fu Cosimo. Capì che, le piante essendo così
30    fitte, poteva passando da un ramo all’altro spostarsi di parecchie miglia, senza
bisogno di scendere mai. Alle volte, un tratto di terra spoglia l’obbligava a lunghissimi
giri, ma lui presto s’impratichì di tutti gli itinerari obbligati e misurava
le distanze non più secondo i nostri estimi,5 ma sempre con in mente il tracciato
contorto che doveva seguire lui sui rami. E dove neanche con un salto si raggiungeva
35    il ramo più vicino, prese a usare degli accorgimenti; ma questo lo dirò più
in là; ora siamo ancora all’alba in cui svegliandosi si trovò in cima a un elce, tra
lo schiamazzo degli storni, madido di rugiada fredda, intirizzito, le ossa rotte, il
formicolio alle gambe ed alle braccia, e felice si diede a esplorare il nuovo mondo.
Giunse sull’ultimo albero dei parchi, un platano. Giù digradava la valle sotto
40    un cielo di corone di nubi e fumo che saliva da qualche tetto d’ardesia, casolari
nascosti dietro le ripe come mucchi di sassi; un cielo di foglie alzate in aria dai fichi
e dai ciliegi; e più bassi prugni e peschi divaricavano tarchiati rami; tutto si vedeva,
anche l’erba, fogliolina a fogliolina, ma non il colore della terra, ricoperta dalle
pigre foglie della zucca o dall’accesparsi6 di lattughe o verze nei semenzai;7 e così
45    era da una parte e dall’altra del V in cui s’apriva la valle ad un imbuto alto di mare.
E in questo paesaggio correva come un’onda, non visibile e nemmeno, se non di
tanto in tanto, udibile, ma quel che se n’udiva bastava a propagarne l’inquietudine:
uno scoppio di gridi acuti tutt’a un tratto, e poi come un croscio8 di tonfi e forse anche
lo scoppio d’un ramo spezzato, e ancora grida, ma diverse, di vociacce infuriate,
50    che andavano convergendo nel luogo da cui prima erano venuti i gridi acuti. Poi
niente, un senso fatto di nulla, come d’un trascorrere, di qualcosa che c’era da aspettarsi
non là ma da tutt’altra parte, e difatti riprendeva quell’insieme di voci e rumori,
e questi luoghi di probabile provenienza erano, di qua o di là della valle, sempre
dove si muovevano al vento le piccole foglie dentate dei ciliegi. Perciò Cosimo, con
55    la parte della sua mente che veleggiava distratta – un’altra parte di lui invece sapeva
e capiva tutto in precedenza – formulò questo pensiero: le ciliege parlano.
Era verso il più vicino ciliegio, anzi una fila d’alti ciliegi d’un bel verde frondoso,
che Cosimo si dirigeva, e carichi di ciliege nere, ma mio fratello ancora non aveva
l’occhio a distinguere subito tra i rami quello che c’era e quello che non c’era. Stette
60    lì: prima ci si sentiva del rumore ed ora no. Lui era sui rami più bassi, e tutte le
ciliege che c’erano sopra di lui se le sentiva addosso, non avrebbe saputo spiegare
come, parevano convergere su di lui, pareva insomma un albero con occhi invece
che ciliege.
Cosimo alzò il viso e una ciliegia troppo matura gli cascò sulla fronte con un
65    ciacc! Socchiuse le palpebre per guardare in su controcielo (dove il sole cresceva)
e vide che su quello e sugli alberi vicini c’era pieno di ragazzi appollaiati.
Al vedersi visti non stettero più zitti, e con voci acute benché smorzate dicevano
qualcosa come: – Guardalo lì quanto l’è bello! – e spartendo davanti a sé le
foglie ognuno dal ramo in cui stava scese a quello più basso, verso il ragazzo col
70    tricorno in capo.9 Loro erano a capo nudo o con sfrangiati cappelli di paglia, e
alcuni incappucciati in sacchi; vestivano lacere camicie e brache; ai piedi chi non
era scalzo aveva fasce di pezza, e qualcuno legati al collo portava gli zoccoli, tolti
per arrampicarsi; erano la gran banda dei ladruncoli di frutta, da cui Cosimo ed io
c’eravamo sempre – in questo obbedienti alle ingiunzioni familiari – tenuti ben
75    lontani. Quel mattino invece mio fratello sembrava non cercasse altro, pur non
essendo nemmeno a lui ben chiaro che cosa se ne ripromettesse.
Stette fermo ad aspettarli mentre calavano indicandoselo e lanciandogli, in
quel loro agro sottovoce, motti come: – Cos’è ch’è qui che cerca questo qui? – e
sputandogli anche qualche nocciolo di ciliegia o tirandogliene qualcuna di quelle
80    bacate o beccate da un merlo, dopo averle fatte vorticare in aria sul picciòlo con
mossa da frombolieri.
– Uuuh! – fecero tutt’a un tratto. Avevano visto lo spadino che gli pendeva dietro.
– Lo vedete cosa ci ha? – E giù risate. – Il battichiappe!
Poi fecero silenzio e soffocavano le risa perché stava per succedere una cosa da
85    diventare matti dal divertimento: due di questi piccoli manigoldi,10 zitti zitti, si
erano portati su di un ramo proprio sopra a Cosimo e gli calavano la bocca d’un
sacco sulla testa (uno di quei lerci sacchi che a loro servivano certo per metterci
il bottino, e quando erano vuoti si acconciavano in testa come cappucci che
scendevano sulle spalle). Tra poco mio fratello si sarebbe trovato insaccato senza
90    neanche capir come e lo potevano legare come un salame e caricarlo di pestoni.
Cosimo fiutò il pericolo, o forse non fiutò niente: si sentì deriso per lo spadino
e volle sfoderarlo per punto d’onore. Lo brandì alto, la lama sfiorò il sacco, lui lo
vide, e con un’accartocciata lo strappò di mano ai due ladroncelli e lo fece volar via.
Era una buona mossa. Gli altri fecero degli «Oh!» insieme di disappunto e meraviglia,
95    e ai due compari che s’erano lasciati portar via il sacco lanciarono insulti
dialettali come: – Cuiasse! Belinùi!11
Non ebbe tempo di rallegrarsi del successo, Cosimo. Una furia opposta si scatenò
da terra; latravano, tiravano dei sassi, gridavano: – Stavolta non ci scappate,
bastardelli ladri! – e s’alzavano punte di forcone. Tra i ladruncoli sui rami ci fu
100  un rannicchiarsi, un tirar su di gambe e gomiti. Era stato quel chiasso attorno a
Cosimo a dar l’allarme agli agricoltori che stavano all’erta.
L’attacco era preparato in forze. Stanchi di farsi rubar la frutta man mano che
maturava, parecchi dei piccoli proprietari e dei fittavoli della vallata s’erano federati
tra loro; perché alla tattica dei furfantelli di dar la scalata tutti insieme a un frutteto,
105  saccheggiarlo e scappare da tutt’altra parte, e lì daccapo, non c’era da opporre che
una tattica simile: cioè far la posta tutti insieme in un podere dove prima o poi sarebbero
venuti, e prenderli in mezzo. Ora i cani sguinzagliati abbaiavano rampando
al piede dei ciliegi con bocche irte di denti, e in aria si protendevano le forche da
fieno. Dei ladruncoli tre o quattro saltarono a terra giusto in tempo per farsi bucare
110  la schiena dalle punte dei tridenti e il fondo dei calzoni dal morso dei cani, e correre
via urlando e sfondando a testate i filari delle vigne. Così nessuno osò più scendere:
stavano sbigottiti sui rami, tanto loro che Cosimo. Già gli agricoltori mettevano le
scale contro i ciliegi e salivano facendosi precedere dai denti puntati dei forconi.
Ci vollero alcuni minuti prima che Cosimo capisse che essere lui spaventato
115  perché era spaventata quella banda di vagabondi era una cosa senza senso, com’era
senza senso quell’idea che loro fossero tanto in gamba e lui no. Il fatto che se ne
stessero lì come dei tonti era già una prova: cosa aspettavano a scappare sugli alberi
intorno? Mio fratello così era giunto fin lì e così poteva andarsene: si calcò il tricorno
in testa, cercò il ramo che gli aveva fatto da ponte, passò dall’ultimo ciliegio
120  a un carrubo, dal carrubo penzolandosi calò su di un susino, e così via. Quelli, al
vederlo girare per quei rami come fosse in piazza, capirono che dovevano tenergli
subito dietro, se no prima di ritrovare la sua strada chissà quanto avrebbero penato;
e lo seguirono zitti, carponi per quell’itinerario tortuoso. Lui intanto, salendo per
un fico, scavalcava la siepe del campo, calava su di un pesco, tenero di rami tanto
125  che bisognava passarci uno alla volta. Il pesco serviva solo ad aggrapparsi al tronco
storto d’un olivo che sporgeva da un muro; dall’olivo con un salto s’era su una
rovere che allungava un robusto braccio oltre il torrente, e si poteva passare sugli
alberi di là.
Gli uomini con le forche, che credevano ormai d’avere in mano i ladri di frutta,
130  se li videro scappare per l’aria come uccelli. Li inseguirono, correndo insieme ai
cani latranti, ma dovettero aggirare la siepe, poi il muro, poi in quel punto del
torrente non c’erano ponti, e per trovare un guado persero tempo ed i monelli
erano lontani che correvano.
Correvano come cristiani, con i piedi per terra. Sui rami c’era rimasto solo mio
135  fratello. – Dov’è finito quel saltimpalo12 con le ▶ ghette? – si chiedevano loro, non
vedendoselo più davanti. Alzarono lo sguardo: era là che rampava per gli olivi.
– Ehi, tu, cala dabbasso, ormai non ci pigliano! – Lui non calò, saltò tra fronda
e fronda, da un olivo passò a un altro, sparì alla vista tra le fitte foglie argentee.

 >> pagina 628 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Il brano presenta, in apertura, la descrizione dello spazio in cui si svolgono le vicende: una sorta di “paradiso perduto”, quello della riviera ligure un tempo totalmente ricoperta da una splendida e rigogliosa vegetazione, fitta di frutteti e di boschi, con le chiome degli alberi che creano un mondo parallelo, alternativo a quello terreno. In questa natura aggrovigliata e tortuosa, nella quale ha preso dimora, Cosimo vive la sua prima avventura, indicando a un branco di ladruncoli di frutta, inseguiti dai contadini, come mettersi in salvo fuggendo sugli alberi.

L’episodio proietta il lettore in una dimensione picaresca, che risulta fondamentale nel romanzo. Fughe e inseguimenti si susseguono continuamente in un universo labirintico, dominato dall’avventura e dal succedersi – freneticamente ariostesco – di imprevisti e peripezie. Allo stesso tempo, si delineano da subito le caratteristiche di Cosimo: egli è curioso e desideroso di conoscere, ed è spinto a infrangere le ingiunzioni familiari (r. 74) per cercare qualcosa che gli appare ancora indefinito. A guidarlo nell’impresa di dominare il nuovo mondo arboreo è la capacità di analizzare la situazione e di trovare sempre una soluzione razionale agli ostacoli che gli si presentano e che si frappongono alla realizzazione dei suoi desideri.
Il protagonista è ritratto come un solitario osservatore della vita umana che, pur essendo separato dalla società, non rinuncia a conoscerne i meccanismi, a illustrarne pregi e difetti, a mettere al servizio del prossimo le proprie esperienze. Grazie allo sguardo panoramico di cui può godere dall’alto, Cosimo finisce per capire il mondo che lo circonda meglio di coloro che si trovano a terra, sebbene questo potenziamento della propria coscienza sia pagato con l’esclusione dalla vita di comunità.
Il barone rampante può essere in tal modo assimilato a un contestatore intellettuale, la cui disobbedienza è di qualità superiore – più raffinata, più drastica e più determinata – in confronto a quella dei ladri di frutta con le loro bravate. Il rigore della volontà di Cosimo è simboleggiato qui dalla destrezza e dalla pertinacia con cui egli riesce a guadagnare la via dei rami, anche quando altri, considerati esperti (cioè i ladruncoli), desistono.  È del resto Calvino stesso, nel presentare il romanzo, ad affermare che la prima lezione da trarre dal libro è che «la disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella».

 >> pagina 629 

Le scelte stilistiche

Il brano mostra il tono dell’intera opera: dopo l’espressionismo delle prime prove neorealiste, Calvino dà vita a una scrittura sempre più limpida. Nella ricerca del lessico più appropriato, l’autore non rinuncia a termini rari (sbiocca, r. 17), ma presenta anche vocaboli coloriti (battichiapper. 83) ed espressioni dialettali (Cuiasse! Belinùi!, r. 96). Frequenti sono le costruzioni tipiche del parlato (Cos’è ch’è qui che cerca questo qui?, r. 78). All’agile scatto dei dialoghi, ridotti all’essenziale nell’intento di restituire il frangente concitato in cui avvengono, fanno riscontro le parti più propriamente narrative e descrittive, con il dilatarsi dell’ordine sintattico attraverso il ricorso a semplici paratassi o a ordinate ipotassi.

VERSO LE COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Come e perché, secondo quanto riportato dalla voce narrante, è cambiato nel tempo l’ambiente in cui si svolge la vicenda?

2 Che cosa intende il narratore quando dice: pareva insomma un albero con occhi invece che ciliege (rr. 62-63)?

ANALIZZARE

3 Individua le frasi attraverso le quali il narratore spiega perché quello d’Ombrosa è ormai un paradiso perduto.

4 A quali sostantivi, aggettivi e verbi ricorre il narratore per descrivere l’universo arboreo di Cosimo come una sorta di labirintico “nuovo mondo”, alternativo a quello terreno?

INTERPRETARE

5 Nel brano si racconta di quando il golfo di Ombrosa era ancora coperto da una fitta vegetazione. Secondo te il narratore rimpiange quel tempo ;passato?

6 Dalle parole del narratore trapela un certo orgoglio nei confronti di Cosimo e delle sue imprese? perché?

SVILUPPARE IL LESSICO

7 Spiega il significato delle seguenti espressioni figurate presenti nel brano.
il paese accatastato (r. 18) • una vegetazione più disinteressata e altera (r. 20) • l’universo di linfa (r. 27) • tarchiati rami (r. 42) • mente che veleggiava distratta (r. 55)

SCRIVERE PER...

RACCONTARE
8 L’intera esistenza di Cosimo è determinata da un ferreo vincolo che egli si è imposto di sua volontà (non scendere mai dagli alberi). Ti è mai capitato di vivere un’esperienza che ha acquisito una forza particolare proprio in virtù delle difficili condizioni entro cui si è svolta? Riferiscine in un testo narrativo di circa 30 righe.

Il filone realistico-contemporaneo

Il filone “realistico-contemporaneo” può considerarsi il proseguimento della primissima produzione calviniana, quella del Sentiero dei nidi di ragno e di Ultimo viene il corvo. Se in quelle opere era predominante il tema bellico, visto almeno in parte attraverso il vissuto personale, ora è centrale l’approccio ai problemi della realtà contemporanea degli anni Cinquanta e Sessanta: le dinamiche industriali, il boom economico ed edilizio, le sfide e i guasti della politica.

I RACCONTI

In questa antologia, pubblicata nel 1958, Calvino riunisce molti testi già apparsi in rivista o in altri volumi, suddividendoli in quattro sezioni: “Gli idilli difficili”, “Le memorie difficili”, “Gli amori difficili”, “La vita difficile”.
La sezione “La vita difficile” è formata da tre racconti lunghi particolarmente significativi La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958) – nei quali l’autore rappresenta personaggi incapaci di agire e di trovare soluzioni ai tanti problemi della realtà postbellica, mettendo così in scena, in forma simbolica, la crisi della coscienza ideologica e della partecipazione politica all’interno della moderna civiltà industriale.

 >> pagina 630 

MARCOVALDO OVVERO LE STAGIONI IN CITTÀ

Tra incanto e ironico distacco Pubblicato nel 1963, Marcovaldo è una raccolta di 20 novelle associate ciclicamente ciascuna a una delle quattro stagioni e aventi tutte come protagonista il buffo manovale Marcovaldo, ex contadino inurbato ma ancora desideroso di recuperare la dimensione perduta della campagna, costretto com’è a vivere tra il cemento e l’asfalto della città nella quale si è trasferito.
Il protagonista è un «povero diavolo» alla Charlie Chaplin (secondo quanto suggerito dall’autore stesso), nostalgico del proprio mondo rurale poiché imprigionato nell’universo estraneo ed estraniante costituito dalla città industriale. Ridotto a una sorta di fantoccio, egli denuncia inconsapevolmente le trasformazioni avvenute in seno alla «società opulenta»: Calvino ne segue le vicissitudini con una pietà sorridente e comica, la quale lascia però trasparire la rappresentazione della dolorosa condizione di migliaia di uomini e donne che hanno smarrito per sempre, nella giungla d’asfalto, la semplicità del mondo d’origine.
La città in cui Marcovaldo vive non ha un nome: sebbene alcuni tratti la accomunino a Torino, essa è la città per antonomasia, con i suoi ritmi frenetici e i suoi meccanismi opprimenti. Allo stesso modo, non si viene mai a sapere che cosa produca la ditta per cui il protagonista lavora, la Sbav: essa è, come scrive l’autore, una di quelle fabbriche anonime «che regnano sulle persone e sulle cose del nostro tempo».
All’interno di queste deprimenti coordinate spaziali, Marcovaldo è capace di vedere dove tutti gli altri non posano neppure lo sguardo, riuscendo a cogliere l’alternarsi delle stagioni in uno spazio urbano che, al contrario, è avviato all’annullamento della natura. Il risultato è un tragicomico attrito tra le sognanti speranze di un uomo ancora sorretto da un candido ottimismo e la disincantata ironia di una voce narrante onnisciente, che sembra svelare una verità surreale: la città non è un posto adatto agli uomini.

LA GIORNATA D’UNO SCRUTATORE

Opera breve ma centrale nel percorso letterario di Calvino, La giornata d’uno scrutatore (1963) è, come ha scritto l’autore stesso, un racconto «più di riflessioni che di fatti»una testimonianza sentita della condizione esistenziale dell’autore, dei suoi dubbi e della sua sfiducia negli esiti della democrazia italiana dopo la Liberazione.

 >> pagina 631 
La trama Diviso in 15 brevi capitoli, il romanzo narra la giornata che il giovane militante comunista Amerigo Ormea trascorre presso la sede cui è stato destinato per svolgere il compito di scrutatore: il seggio allestito all’interno della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il celebre istituto religioso fondato nel 1832 da don Giuseppe Cottolengo (1786-1842) con lo scopo «di dare asilo, tra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere».
Dopo i primi capitoli, che descrivono il quadro politico contemporaneo, segnato dai forti contrasti intorno all’approvazione della ▶ legge truffa, e la composizione del seggio, con il procedere della giornata i confini spaziali della sezione elettorale sembrano ampliarsi, e la drammatica realtà del Cottolengo, con i suoi ospiti sofferenti, incrina a poco a poco la solidità del sistema intellettuale del militante comunista. Da un’osservazione esterna e realistica del mondo “normale”, sulla quale agisce la visione illuministico-marxista di Ormea, si passa così, gradualmente, all’indagine del mondo interiore del protagonistail quale scopre l’impossibilità di interpretare una realtà che, secondo gli schemi ideologici con cui è abituato a leggere la società e i rapporti tra gli uomini, gli appare assurda.

Un importante libro-cerniera L’idea iniziale del libro nasce da una situazione direttamente vissuta dall’autore: durante lo svolgimento delle elezioni politiche del 7 giugno 1953, in cui è candidato nelle file del Partito comunista, Calvino fa una breve visita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza e assiste a una discussione tra rappresentanti di lista democristiani e comunisti.
Ispirata dunque a una vicenda autobiografica, l’opera ruota intorno ai pensieri e agli stati d’animo del protagonista (alter ego dell’autore), l’intellettuale Amerigo Ormea. A contatto con una realtà sconosciuta, che presenta aspetti amari e dolorosi, questi vive un traumatico sconvolgimento della propria coscienza politica e della propria visione del mondo.
I temi toccati dal libro vanno ben oltre l’orizzonte cronologico in cui esso matura, quello in cui si collocano le altre opere del filone realistico: l’autore allarga infatti la riflessione dal piano etico-politico a quello filosofico della «negatività della realtà», dell’«infelicità di natura», fino a mettere in scena una profonda e radicale crisi ideologico-esistenziale di portata assoluta. Da scritto ispirato a un’esperienza personale e contingente, che riprende i motivi tipici della rappresentazione naturalistica e della polemica sociale, La giornata d’uno scrutatore diventa in tal modo un documento di una più sofferta e ampia meditazione filosofica.
Nell’ambito della composita carriera letteraria dell’autore, quest’opera, sebbene sia stata spesso – a torto – trascurata dai critici, è un testo fondamentale per comprendere la produzione di Calvino: segna infatti un importante momento di passaggio dalla prima fase neorealista, caratterizzata dall’indagine sui problemi della contemporaneità, alla seconda, rappresentata dalla letteratura cosmicomica, dal Postmoderno e dalla narrativa potenziale e tesa al superamento delle forme e delle strutture tradizionali della narrazione. Il racconto della vicenda di Amerigo Ormea costituisce dunque un «libro cerniera, dove converge tutta la prima produzione artistica e tutta la riflessione intellettuale di Calvino di quel periodo, e da dove parte il programma futuro» (Antonello).

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi