Eugenio Montale

I GRANDI TEMI

1 La concezione della poesia

«Ciò che non siamo» Non è facile mettere a fuoco la poetica di Montale: in primo luogo perché conosce nel tempo una significativa evoluzione, e in secondo luogo per la riluttanza del poeta a lasciarsi imbrigliare in definizioni, scuole, correnti. Siamo dinanzi a un autore lucidissimo e ironico, che tende a depistare i critici e a dissimulare i riferimenti teorici del suo lavoro, riscontrati già in età giovanile sulle pagine di filosofi come Schopenhauer, Bergson, Boutroux. È dunque opportuno procedere per via di negazione e rimarcare innanzitutto la distanza dalle esperienze liriche coeve, tenendo presente un suo celebre distico: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Montale infatti non attribuisce al poeta un ruolo di vate o di profeta. Gli Ossi di seppia perseguono dunque un abbassamento di tono rispetto ai proclami futuristi o alla voce impostata dei «poeti laureati», in un’ottica di sostanziale equidistanza dalle avventure avanguardistiche e dalla vuota ripetizione di moduli ottocenteschi. In questo senso Gabriele d’Annunzio non rappresenta un idolo da abbattere, ma un modello da «attraversare», filtrandone i risultati stilistici più alti al setaccio di una sensibilità radicalmente diversa.

Resistere al «male di vivere» Nella raccolta d’esordio Montale esplora un angoscioso disagio esistenziale. L’io lirico si aggira smarrito, perplesso, dando prova di un’inettitudine a vivere che può ricordare i Crepuscolari. Ma, se questi reagivano assumendo toni patetici, il poeta ligure adotta un atteggiamento di stoica resistenza dinanzi alla «ferrea catena della necessità», in cui cerca «l’anello che non tiene». All’aridità interiore oppone la ricerca di uno spiraglio, di un varco in grado di dare tregua al «male di vivere». Quest’ultimo non viene espresso in forma concettuale, per via di riflessioni astratte, ma condensato in una serie di immagini pregnantiun muro sormontato da vetri spezzati (in Meriggiare pallido e assorto, ▶ T4, 275), una foglia secca che si accartoccia o un cavallo che stramazza a terra (in Spesso il male di vivere ho incontrato, ▶ T5, p. 278).
Come Pascoli, anche Montale preferisce la specie al genere (non uccelli, ma «ghiandaie»; non un fiore, ma un «girasole») e ama concentrarsi su oggetti umili. Non intende però recuperare lo sguardo ingenuo del «fanciullino» né cogliere l’essenza profonda e irrazionale del mondo, come aspirava a fare la poetica simbolista. Le cose diventano piuttosto emblemi dell’emozione provata dal poeta, che in esse si cristallizza, secondo modalità che ricordano la teoria del “correlativo oggettivo”, elaborata dal poeta statunitense Thomas Stearns Eliot (1888-1965) negli stessi anni: un’immagine o una situazione particolare acquistano per il lettore un immediato significato di valore universale, senza il bisogno di spiegazioni. Così il senso di una vita arida e prosciugata ha il suo emblema negli «ossi di seppia»; il male di vivere in un «rivo strozzato»; l’indifferenza e il distacco dalla vita in una «statua» colta nell’immobilità atmosferica di un pomeriggio estivo ecc.

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Una poesia metafisica Certamente la poesia di Montale è oscura e “difficile”, ma ciò non dipende tanto dall’uso audace dell’analogia o dall’abbondanza di concetti astratti, quanto piuttosto dalla fortissima concentrazione semantica e, soprattutto nella seconda e terza raccolta, dall’opacità dei riferimenti e dalle volute omissioni che nascondono le motivazioni reali da cui scaturiscono i versi. È questo il punto che lo allontana dai poeti ermetici: Montale dice di ritenersi nato nel solco di una «corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica», in quanto nata «dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione».
Al riguardo è decisiva, negli anni Trenta e Quaranta, la suggestione esercitata su di lui dall’allegorismo dantesco. Tanto nelle Occasioni quanto nella Bufera l’appello a una figura femminile in grado di annientare le miserie dell’esistenza emerge in primo piano. Montale compone un canzoniere in cui l’amore è chiamato a riscattare – oltre alla «totale disarmonia» dell’individuo rispetto alla realtà – le tragedie della Storia, rappresentate da guerre e dittature. Tale riscatto è però un’illusione, non sostenuta, come lo è in Dante, da una fede ultraterrena, ma minacciata dalla brutalità e dalla stupidità delle vicende umane e anche dallo scetticismo e dal pessimismo del poeta stesso.

Il rovescio della medaglia Nelle ultime opere Montale esplicita la polemica contro i miti omologanti che plasmano l’immaginario collettivo: «Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso», dichiara nel 1975. In effetti, alle prime tre raccolte, che costituiscono ai suoi occhi il recto (cioè il diritto della medaglia), seguono nel 1971 Satura e di lì a poco un’ulteriore, cospicua produzione poetica: insieme compongono il verso, cioè il rovescio. L’autore lega il proprio senso di smarrimento ai meccanismi della società di massa, ai quali egli guarda perplesso quando non addirittura inorridito. Compaiono nei suoi testi episodi minimi di cronaca pubblica e privata; la tensione lirica al sublime si spegne, sostituita da un tono colloquiale e prosastico, pervaso di ironia. I versi di Montale si muovono ora tra i rifiuti della società dei consumi, ma nonostante tutto la poesia non perde senso, resta «ancora possibile», come il poeta sosterrà ricevendo il premio Nobel.

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi