Umberto Saba

I GRANDI TEMI

1 La concezione della poesia

Una nuova idea di poesia: l’onestà In Quello che resta da fare ai poeti – un articolo scritto nel 1911 per la “La Voce”, che però lo rifiuta, e pubblicato nel 1959, cioè solo dopo la morte dell’autore – Saba individua il compito fondamentale del poeta nel «fare la poesia onesta». L’idea di onestà ha a che fare sia con i contenuti, sia con lo stile: la poesia deve essere lo specchio sincero dell’interiorità del poeta, mentre le scelte stilistiche devono essere semplici e antiretoriche.

L’antinovecentismo di Saba Saba approda così a una poetica di tipo antisimbolista, antidecadente (soprattutto antidannunziana) e nettamente antinovecentista lontana cioè dal filone della “poesia pura” espresso dall’Ermetismo. L’autore continuerà a rivendicare questa scelta lungo tutto il suo percorso, fino a renderla esplicita in Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), testo di grande importanza per una piena comprensione della sua poetica.
L’intera opera di Saba – pur con accenti diversi nelle sue varie fasi – appare perciò lontana dalla ricerca di uno stile “puro” e di un linguaggio assoluto. Egli ritiene che il poeta debba rifarsi alla grande tradizione italiana che va da Dante e Petrarca (presenza evidente sin dal titolo della sua raccolta poetica) a Leopardi, stemperando però gli stilemi solenni in un linguaggio complessivamente più semplice, come dichiara nella lirica Amai: «Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo». Semplicità e trasparenza, paradossalmente, sono obiettivi più difficili da raggiungere rispetto all’oscurità di molta parte della poesia del tempo.

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Le conseguenze sul piano formale Ne consegue, dal punto di vista formale, il rifiuto dello sperimentalismo metrico prevalente nella lirica europea tra Otto e Novecento, a vantaggio di un recupero della tradizione. Del patrimonio retorico e stilistico classico Saba fa un uso per così dire artigianale e antieloquente: la rima e la verseggiatura raffinata, l’iperbato, l’enjambement, l’uso sapiente della metafora sono tutte testimonianze di una poesia colta, che però egli inserisce in uno stile dimesso; la storia letteraria è conosciuta e interiorizzata dal poeta, ma i suoi modi vengono applicati a tematiche semplici, comuni e quotidiane.

2 Autobiografismo e confessione

La letteratura come autocoscienza La scrittura, per Saba, è anzitutto un modo per comprendere la propria interioritàIl suo Canzoniere – quasi un diario, una sorta di confessione prolungata nel tempo – è il tentativo di conquistare un senso integro e non frantumato dell’esistenza, aderendo in modo immediato, quasi fisico, alla realtà, senza complicazioni filosofiche né tanto meno velleità superomistiche.
Saba parla del dovere di acquisire la «chiarezza interiore», ossia la capacità di guardare la propria intimità in maniera schietta e diretta. Conoscere sé stessi è però un lavoro faticoso, che costa sacrifici, e la scrittura comporta quindi un impegno costante e denso.

L’incontro con la psicanalisi Per riuscire nel suo intento Saba utilizza, senza dichiararlo apertamente, gli strumenti della psicanalisi. I temi autobiografici del Canzoniere vengono infatti affrontati attraverso il filtro della teoria freudiana, cui l’autore si accosta inizialmente per ragioni di tipo terapeutico. Soffrendo fin dall’adolescenza di forti crisi depressive (nel 1929 scrive all’amico scrittore Alberto Carocci che ci sono giorni in cui non riesce né a mangiare né a dormire: «Tutte le forze distruttive della psiche si sono aperte un varco nella mia anima: e, per colmo di sventura, ho un’inibizione al suicidio, che sarebbe la sola soluzione logica a questo stato di cose»), si sottopone a una terapia psicanalitica con il dottor Edoardo Weiss (1889-1970), allievo di Freud e fondatore, nel 1932, della Società italiana di psicanalisi.

La letteratura per comprendere l’essere umano La conoscenza di Freud conferma a Saba alcune intuizioni sull’importanza delle esperienze infantili nella formazione della personalità, e la psicanalisi gli appare di conseguenza un fondamentale strumento per la conoscenza dell’animo umano. Ma, come in Svevo, affiora anche in lui la sfiducia verso gli effetti terapeutici del trattamento e del ruolo che la stessa letteratura può avere nella cura della psiche. L’angoscia che pervade il poeta investe così anche la sua passione più grande: «M’è subentrata», scrive ancora a Carocci, «un’intima invincibile avversione alla letteratura. Essa non m’interessa più: e vorrei distruggere tutto quello che ho fatto».

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3 Il rapporto con la città natale

Una città mitteleuropea Come si è visto a proposito di Italo Svevo, Trieste tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento è una città importante dal punto di vista sia commerciale sia culturale: luogo di incontro e di confronto tra popoli e mentalità diverse, centro di confine e dalle molte anime, ai margini delle tendenze intellettuali italiane ma caratterizzato da una notevole apertura internazionale. Qui vivono e scrivono autori come lo stesso Svevo (che appartiene alla generazione precedente a quella di Saba, avendo vent’anni più di lui) e, per un certo periodo, James Joyce.
Quella che si suole indicare come la dimensione “mitteleuropea” della città è un vivace clima culturale, a cavallo tra i due secoli, al quale portano il loro contributo scrittori e artisti austriaci, slovacchi, cechi, ungheresi, sloveni, di popoli cioè tra loro legati all’interno dell’Impero asburgico.

Un’autentica simbiosi Di tale temperie si alimenta, seppure indirettamente (per una sorta di resistenza psicologica il poeta non imparerà mai il tedesco), Umberto Saba. Trieste resta sempre per lui un punto di riferimento essenziale: i legami che lo avvincono a questa città sono talmente forti che può essere definita la “culla” della sua poesia; i luoghi – il porto, il molo, le viuzze della città vecchia, la zona collinare –, ma anche l’umanità – gli uomini, le ragazze, i ragazzi, la vita urbana – sono presenze fondamentali nei suoi versi. Una simbiosi così stretta tra autore e città appare un caso unico nella letteratura italiana del Novecento e si può semmai paragonare alle identificazioni ottocentesche di Porta con Milano o di Belli con Roma.
L’attaccamento a Trieste è motivato dalla vicenda biografica dell’autore, che vede la propria città natale come una sorta di “origine prima”, di mondo delle sicurezze, e quasi come una personificazione della madre. Radicata nella città, la sua poesia, anche quando ne esca (come, per esempio negli anni fiorentini), è sempre “autobiografia”.

Il luogo del “qui e ora” Trieste è, insieme, «inferno e paradiso», come dice il titolo di una prosa dello scrittore, nella quale leggiamo: «Trieste era, ai tempi della mia giovinezza, molte cose. Trieste è sempre stata un crogiuolo di razze. La città fu popolata da genti diverse. [...] Su questo trafficante amalgama di persone cose etnicamente diverse (vi sono, oggi ancora, triestini che hanno nel sangue dieci dodici sangui diversi; ed è questa una delle ragioni della “nevrosi” particolare dei suoi abitanti) la lingua e la cultura italiana fecero da cemento; s’imposero per un processo affatto spontaneo. Nessuno poteva, né può oggi, vivere e commerciare a Trieste senza conoscere l’italiano. Ma lingua e cultura a parte, Trieste fu sempre, per ragioni di “storia naturale” dalle quali le città come gli individui non possono evadere, una città cosmopolita. Era questo il suo pericolo, ma anche il suo fascino».
Tuttavia, anche se – come abbiamo visto in queste sue parole – Saba è in grado di cogliere e analizzare acutamente gli aspetti storico-culturali di Trieste, all’interno delle sue poesie (soprattutto nella sezione del Canzoniere intitolata Trieste e una donna, comprendente componimenti scritti tra il 1910 e il 1912, ma anche in molte altre parti dell’opera), la città viene vista soprattutto nei termini di «un universo autonomo di vita pulsante “qui e ora”» (Castellani), cioè come luogo tanto vicino all’istintualità vitale quanto lontano dalle vicende della grande Storia collettiva: come l’autore scrive in Storia e cronistoria del Canzoniere, «una città di traffici e non di vecchia cultura, varia di razze e di costumi».
Non a caso, nei suoi vagabondaggi per le vie di Trieste, il poeta sembra a volte dimenticare la propria sofferenza privata e immedesimarsi con le figure più reiette della città, con le quali stabilisce un rapporto di fraterna comunione: «Qui prostituta e marinaio, il vecchio / che bestemmia, la femmina che bega, / il dragone che siede alla bottega / del friggitore, / [...] sono tutte creature della vita / e del dolore; / s’agita in esse, come in me, il Signore» (Città vecchia).

Classe di letteratura - volume 3B
Classe di letteratura - volume 3B
Dalla Prima guerra mondiale a oggi